IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

A che punto è la notte

Giovedì 23 marzo alla Fondazione Basso, a partire dalle ore 17, l’attesa presentazione del denso libro di Isidoro Davide Mortellaro “A che punto è la notte? La vita e i tempi del terzo millennio” (Molfetta, edizione la meridiana, 2002). Pubblichiamo alcuni cruciali e attualissimi stralci della parte centrale del volume. L’Occidente, l’Europa, Putin. Pagine da leggere tutte d’un fiato.

[a questo link si potrà assistere in diretta alla presentazione del libro https://www.facebook.com/CRiformaStato]

A che punto è la notte? (…) Molto dipende dall’Europa, E non tanto per quanto pesa sulla scena globale. Meno di ieri, meno che nel secolo scorso, il 900. Ma ancor meno peserà domani: straordinario già s’annuncia il peso dell’altra parte del mondo, dell’Asia, di produzioni, mercati e soprattutto donne e uomini. È importante piuttosto quello che si riuscirà a fare per modificare volto e postura dell’Occidente. E qui l’Europa conta.

Europa, orfana della pace

Finora gli Europei hanno fatto poco e male. Soprattutto a sinistra. La Carta dei diritti varata a Cannes all’indomani della guerra in Kosovo dimentica e orfana della pace, è prova evidente della minorità dell’Europa e di una conversione o mutazione occidentalista di grandissima parte della sinistra europea difficili da rimontare. Anche nei momenti in cui si è riaperta una discussione sul futuro del Vecchio Continente e sulla necessità di munirlo di una Costituzione.

La collocazione europea nel mondo, però, non si decide tutta nella distanza o nella forma del rapporto con gli USA. Perché non ricordare che alle radici della Nato – di quella che gli storici più avvertiti hanno chiamato la grande rivoluzione degli USA, convinti finalmente ad uscire dal loro guscio – ci fu anche la pressante richiesta rivolta dagli Europei, desiderosi di ripararsi allora sotto l’ombrello atomico USA rispetto al troppo pesante vicino sovietico? Il patto della Nato fu scritto ricalcando il patto di Bruxelles già stipulato tra molti dei paesi europei occidentali.

Quelle radici e quei problemi vanno ricordati oggi che in Europa e sull’Europa si accende uno scontro inedito. Così come va ricordato che a sinistra, per ciò che riguarda le culture ancor oggi prevalenti in tutta la sinistra europea e non solo italiana, di Europa e europeismo, nonostante apparenze e chiacchiericci, si è masticato molto poco: il che non è affatto estraneo agli sconquassi provocati dalle epocali, acritiche conversioni a quella forma specifica di europeismo marchiato col bollo di Maastricht e a spiccata caratura neoliberista.

Sull’onda di dinamiche più generali, ma anche per impulso dei rivolgimenti avviati dall’11 settembre il vento di un nuovo conservatorismo, l’anelito a serrate sovraniste sono divenuti acutissimi. C’è il rischio di una netta sterzata a destra. L’UE non ha smesso di allargarsi ma senza un peso politico adeguato. Tutta la vicenda della «guerra al terrorismo» ha messo in evidenza nuove e vecchie divisioni, intanto quella fondamentale ereditata dalla storia del Novecento, tra «Old e New Europe». Gli USA ne hanno approfittato ma senza costrutto. La palude epocale in cui sono terminati in Afghanistan – con la guerra più lunga di sempre – e in Iraq ha richiesto varie presidenze prima di essere bonificata. E non senza conseguenze di lungo periodo, soprattutto a prezzo di una polarizzazione interna da cui infine è emerso Donald Trump.

Sprofondiamo ormai da tempo. A precipizio, sia pure con attriti assai urticanti. Ancora impossibile valutare profondità e ampiezza della voragine aperta dell’89 e dai suoi vari post, con le loro scansioni del nostro ingresso nel Terzo Millennio. Né va meglio con l’esame puntuale di cause e antecedenti. Anche quando scevri da ogni malaccorta e sia pure inevitabile nostalgia per il «bel tempo andato»: «quando partiti e sindacati erano vivi …, un tempo ci si muoveva nelle sicure geografie di destra e sinistra».

Arranchiamo a comprendere soprattutto se e come riusciremo a tradurre in soggettività politica, più o meno organizzata, l’immensa socialità profusa a piene mani nell’inesausta artificializzazione del mondo che ci circonda. L’abbiamo dissolto nei bit di una comunicazione infinita e negli atomi di un post-umano in perpetua interrogazione dell’ignoto. Ma lungi dal librarci nella libertà sconfinata promessa dal neoliberismo, corriamo verso una catastrofe ambientale, quando non finiamo prigionieri di inedite e mortificanti tribalizzazioni. Sono il frutto di una socialità eccitata da una individualizzazione senza freni, che puntualmente ci condanna al ruolo di apprendisti stregoni, vittime predestinate delle proprie macchinazioni. Quando la giostra si acqueta, puntuali e forzute si fanno avanti formule antiche, coriacee, con la loro offerta di ancoraggi sicuri alla mobilità e all’insicurezza picare e zingaresche delle reti: familismo, nazionalismo, sovranismo tutte dotate di solidi scettri, con autorità riconosciute, paternità onnipotenti.

Una cesura fatale

Arranchiamo ancor più dal 24 febbraio 2022, presi dal vortice di una «terza guerra mondiale». Al pari delle altre due, iniziata come «guerra civile europea». Come tale concepita e annunciata da Putin: una «operazione militare speciale» in un pezzo di mondo, l’Ucraina, che «è una parte inalienabile della nostra storia, cultura e spazio spirituale … i nostri compagni, le persone a noi più care – non solo colleghi, amici e persone che hanno servito insieme, ma anche parenti, persone legate dal sangue, dai legami familiari». Il tutto promettendo, a chi volesse opporsi, «conseguenze che non avete mai visto nella storia». E per non lasciar dubbi: «la Russia moderna anche dopo il crollo dell’URSS resta una potenza mondiale, con un proprio arsenale nucleare e altro ancora (nuovi tipi di armi) ….Chiunque tenti di ostacolarci, e ancor di più di creare minacce per il nostro Paese, per il nostro popolo, deve sapere che la risposta della Russia arriverà immediatamente e porterà a conseguenze che non avete mai visto nella storia». Con queste parole, nel suo secondo discorso del 24 febbraio alla nazione e al mondo, Putin ha sospinto il pianeta sull’orlo di un precipizio mai varcato.

L’«impensabile» – l’«unthinkable» di Herman Khan, lo stratega della Rand Corporation immortalato come «Stranamore» da Stanley Kubrik – è tra noi. È divenuto incubo quotidiano, titolo di testa d’ogni giornale o annuncio televisivo. Radicato in uno scenario altro da quelli che hanno contornato le due catastrofi del XX secolo. Ora ci muoviamo in una geografia terremotata dall’innovazione radicale annunciata nel 1990 dall’allora segretario di Stato americano, James A. Baker III: «gli USA sono e resteranno una potenza europea». L’impegno, l’hanno mantenuto: nella Bosnia e nel Kosovo, sulla spinta innanzitutto delle divisioni e dell’ignavia europee. Su quelle onde hanno poi consolidato il loro ruolo di colonna portante dell’ordine continentale, saldi alla guida di una Nato divenuta faro e calamita nella disgregazione complessiva dell’Est europeo. Come dimenticare la discussione e lo scandalo suscitati nel 2003 dalle due contrapposte etichette apposte da Donald Rumsfeld alla Old Europe – Francia e Germania, soprattutto, dubbiose sulla proclamata «guerra al terrorismo» e sull’avveniente avventura irachena – e alla New Europe: l’ampio stuolo di paesi, nuovi membri o candidati, ansiosi di contribuire all’allargamento della Nato?

Nel mirino di Putin

È al cuore di questa Europa che Putin mira quando scatena il maglio dell’aggressione all’Ucraina. Nel mirino l’accerchiamento calamitoso esercitato dall’Occidente, ad un tornante della storia in cui s’affollano liste e pressioni dei nuovi attori globali. Le parole impiegate negli annunci di guerra sono chiare: «Mentre la NATO si espande a est la situazione per il nostro Paese peggiora sempre di più, diventando pericolosa … Questa presenza a est sta nutrendo nei territori storicamente affini alla Russia un sentimento di ostilità verso la nostra Patria. Si tratta di territori posti sotto il pieno controllo esterno fortemente plasmato dalle forze della NATO. Questa situazione porta la Russia di fronte un bivio: vita o morte? Da questa decisione dipende il nostro futuro, come Stato e come persone. C’è in gioco la sovranità della Russia. La linea rossa, citata diverse volte, è stata superata. Loro l’hanno superata». Il tutto condito da ricostruzioni circa la capacità ucraina di padroneggiare l’energia nucleare, appresa in età sovietica, e di poterla ora riattivare con l’aiuto atlantico: «Se l’Ucraina ha un’arma di distruzione di massa, la situazione nel mondo cambierà drasticamente, soprattutto per noi» (così l’annuncio in tv dell’attacco all’Ucraina il 24 febbraio).

Lo scenario disegnato a teatro della decisione fatale è ultimativo e senza scappatoie. Vale la pena allora di provare a fermarsi un istante per comprendere meglio i timori che lo sommuovono e i disegni che se ne dipartono. Almeno per provare a non perdere orientamento e speranza.

Affreschi istituzionali e tentazioni geopolitiche

Doveva terminare la storia in quel fatale 1989 o magari distendersi in una lunga, interminabile stagione neoliberale. E invece hanno preso avvio scossoni e terremoti che hanno reso assai accidentato il passaggio al XXI secolo: Guerra del Golfo, fine dell’URSS, disintegrazione jugoslava, Bosnia, Kosovo. L’11 settembre ha poi fatto da porta ad un Terzo Millennio che non ci ha risparmiato né crisi finanziarie sconvolgenti né guerre: da quella impossibile «al terrorismo», alla seconda interminabile in Afghanistan, alla seconda guerra del Golfo nel 2003, per passare poi a Libia, Siria, o ai vari conflitti civili o variamente colorati su e giù per il globo, soprattutto a Sud. Fino ai tragici, ripetuti annunci di Papa Francesco «sulla Terza Guerra Mondiale a pezzetti».

Dall’89 ad oggi l’intero nostro presente è di fatto mappato, contornato da guerre: raramente con timbro ONU. Tutte con le loro etichette epocali, con i loro ossimori. Due tra tutte: «guerra umanitaria», «guerra al terrorismo». Sempre e solo «guerre celesti», quasi sempre a guida o conduzione «a stelle e strisce». Tutte ossessionate e istruite dall’esperienza vietnamita, dalla sconfitta e dalle perdite dolorosissime lì rimediate, e in parte da quella vista – e in un qualche modo sobillata – nell’Afghanistan invaso dall’URSS. Unico il comandamento messo a frutto: condurre possibilmente il tutto a distanza di sicurezza: ‘celestiale’, persino. E nelle forme più rapide: magari per ripristinare diritti nella paradossale negazione di quello fondamentale alla vita. Il tutto per risparmiare perdite e dolori al proprio campo. Tragiche illusioni pagate a carissimo prezzo. Basti pensare all’Afghanistan, il conflitto durato più a lungo nella storia USA. Soprattutto basta riflettere sul riflesso, sul rinculo domestico di quelle guerre: amplificazione e incrudelimento della «guerra civile», di quelle «cultural war» che da decenni – almeno dalla stagione della lotta per i diritti civili – scuotono e polarizzano la società americana; accentuazione ovunque del senso di smarrimento e insicurezza, corsa al rifugio – illusorio e impotente, il più delle volte – di nazionalismi e sovranismi.

Meno nota – magari appena evocata ma relegata in un angolo – la mappa delle guerre che hanno scandito la metamorfosi sovietico-russa e, soprattutto, l’ascesa di Vladimir Putin. L’elenco è noto: due interventi in Cecenia, fino al 2009, poi l’impegno in Georgia, con il riconoscimento come entità indipendenti di Abkazia e Ossezia del Sud (applicando il modello occidentale del Kosovo, gestito anche dalla Russia con la compartecipazione alla Kosovo Force), l’intervento in Crimea (applicato richiamandosi all’intervento americano in Iraq), quello in Siria e infine in Kazakhistan. Il tutto giustificato dalla necessità di garantire la tenuta del tutto, spesso costellato dall’intervento di servizi e forze di sicurezza in emergenze non sempre limpide e comunque indirizzato – soprattutto nei primi anni Duemila – alla costruzione di una salda leadership di governo. Sono quelli gli anni più bui della presidenza eltsiniana e della devastazione oligarchica del paese.

Con perseverante applicazione la guerra è stata costantemente impugnata a strumento principe per preservare e conservare l’intero. Ma anche – e soprattutto – a colonna portante di una riscrittura dall’alto delle regole di convivenza in un organismo complesso sottoposto a tensioni inaudite, paventate ai primi passi della neonata CSI come dissoluzione imminente. La frammistione continua tra guerra e separatismi – ora avversati, si pensi alla Cecenia; ora promossi, Abkazia e Ossezia o più recentemente Crimea o Donetsk e Lugansk – di fatto si è affermata come elemento cardine di quella costruzione della «democrazia sovrana» o «democrazia gestita», secondo la traduzione di Timothy Snyder, che costituisce l’elemento distintivo del putinismo: una riscrittura sistemica delle regole istituzionali che dall’alto ha irregimentato la dialettica sociale e ridisegnato convenienze e opportunità del sistema economico. L’anarchia di oligarchie, il più delle volte a formazione e struttura regionali, dedite al saccheggio delle risorse e del patrimonio pubblico è stata lentamente ma decisamente destrutturata, per riorientarla nella decisa affermazione di una cleptocrazia istituzionalizzata a vari livelli, contigua allo Stato. Il tutto per effetto di uno scontro formidabile sostenuto in forme molteplici tra gli oligarchi dell’epoca eltsiniana, variamente legati spesso a organizzazioni criminali, e la classe dei “siloviki”, uomini d’apparato, spesso provenienti dai servizi o in senso lato da settori della sicurezza statale. Tutti ricollocati nei gangli fondamentali dell’amministrazione pubblica, deputata istituzionalmente alla ristrutturazione di ampi settori produttivi: riorganizzazione generale, fortemente centralizzata, di finanza, industria estrattiva e pesante, media, produzione di armi ecc.

La riconquista di una certa stabilità istituzionale è divenuta perciò la chiave per una parziale ricucitura sociale che ha permesso – sia pure nella parossistica esaltazione di straordinarie diseguaglianze sociali – la diffusione e lo sviluppo di un consumismo vagamente orientato a modelli occidentali, fondativo di ampie fasce di ceto medio. Il balzo delle quotazioni del petrolio (da 35 dollari per barile fino a 150) proprio all’alba della prima presidenza Putin fu manna dal cielo. Nel frattempo si iniziava a rimodellare ampiamente dall’alto l’armatura istituzionale, costruendo la cosiddetta «verticale del potere»: revisione della legge elettorale con innalzamento della soglia di sbarramento, riorganizzazione a maglie larghe del sistema federale e dei vari governatorati, ora di nomina presidenziale, sottomissione al parere del presidente dell’intero percorso legislativo, rivisitazione del sistema politico, con la tappa fondamentale della fondazione del partito putiniano «Russia Unita». A vari livelli si iniziava a picconare decisamente il sistema di formazione delle oligarchie regionali, riportando sotto il controllo centrale gangli fondamentali della vita pubblica e della regolazione politico-economica.

Sono anni in cui le essenziali cure di governo – spesso militari – sono tutte rivolte all’interno, finalizzate alla conquista di stabilità e sviluppo. In politica estera si afferma una linea attendista. Non vengono sottaciuti appunti e critiche al modo in cui la dissoluzione del vecchio blocco di Varsavia e di parti dell’ex URSS lentamente vengono a disporsi nell’Unione Europea o nella Nato che si allargano ad Est. Ma esse sono di fatto composte entro forme di consultazione e collaborazione, più o meno istituzionalizzate. Putin non ha mai minimamente messo in discussione le formule di cooperazione ereditate da Eltsin, in particolare l’ Euro-Atlantic Partnership Council (1991), il programma di Partnership for Peace (1994) oppure il fondamentale Founding Act on Mutual Relations, Cooperation and Security firmato a Parigi nel maggio 1997 fondativo del Permanent Joint Council. Anzi, dopo l’11 settembre 2001, la Russia concede l’utilizzazione del suo spazio aereo alla coalizione internazionale impegnata nella campagna in Afghanistan e, soprattutto, nel maggio del 2002 al Summit Nato di Roma viene raggiunto un accordo complessivo per dar vita al Nato-Russia Council allo scopo di combattere il terrorismo e approfondire la cooperazione in campo militare, anche attraverso esercitazioni comuni e l’approfondimento dell’inter-operabilità.

Mugugni e divisioni momentanee turberanno il clima di collaborazione: ad esempio, per il riconoscimento del Kosovo, dal lato occidentale, o per gli interventi in Georgia da parte della Russia. Ma non vi saranno grandi sconvolgimenti quando verranno a conclusione i due grandi round di allargamento: Repubblica Ceca, Ungheria e Polonia che diventano membri dell’Alleanza nel 1999 dopo la candidatura al vertice Nato di Madrid del 1997; Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Slovenia, Slovacchia e Romania nel 2004. Seguiranno poi nel decennio successivo e per varie tappe Albania e Croazia, Montenegro e Macedonia del Nord. Meno spigoloso ancora l’atteggiamento della Russia e del primo Putin, nei suoi iniziali due cicli di presidenza, nei confronti dell’Europa o dell’Occidente tutto. Basti pensare alla partecipazione della Russia e dello stesso Putin al G8 sino alla crisi del 2013-2014 causata dall’intervento in Crimea.

Vecchi sipari e nuove attrattive

Rispetto al mugugno continuo con cui dal lato russo l’allargamento della Nato sarà accompagnato, poche voci si leveranno in Occidente a suonare l’allarme per la pace e la stabilità future. George Kennan, padre putativo del contenimento e del mondo bipolare – sia pure in aperta critica delle loro accentuazioni militaristiche – parlerà di «errore fatale»: nella sua visione, l’allargamento appariva come detonatore per future pericolose fiammate del nazionalismo russo anti-occidentale. L’occasione per il suo allarmato editoriale sul «New York Times» del 5 febbraio 1997 saranno le prime notizie sulle candidature di  Repubblica Ceca, Ungheria e Polonia. Anni dopo, allo scoppio della crisi in Crimea, sarà un altro grande della diplomazia a «stelle e strisce», Kissinger, a sollevare il problema in un editoriale sul «Washington Post» e nel suo fondamentale World Order: evitare rotture irreparabili, l’Ucraina magari aderisca all’UE ma non alla Nato e si provi a risolvere il problema della Crimea consensualmente.

A dar voce, invece, al mainstream atlantico ha provveduto per anni Zbigniew Brzezinski. Fin dal 1993, nel suo Out of Control, passando per The Grand Chessboard (1998), fino a The Choice del 2004 egli ha insistito a senso unico sulla centralità dell’Ucraina negli equilibri geopolitici complessivi: «l’Ucraina è un cardine geopolitico, nel senso che la sua stessa esistenza come Stato indipendente contribuisce alla trasformazione della Russia. Senza l’Ucraina la Russia cesserebbe di essere un impero euroasiatico». Al contrario, «se la Russia conquisterà il controllo dell’Ucraina», con le sue risorse e il controllo del Mar Nero, ritornerà automaticamente un «potente Stato imperiale, tale da abbracciare Europa ed Asia, con ripercussioni immediate sull’Europa centrale, con la Polonia trasformata nella zona cardine del confine orientale di una Europa unita». Di qui la sua insistenza e la sua collaborazione nel rafforzamento del generale accordo sulla formazione della Confederazione degli Stati Indipendenti, CSI, ad opera nel 1991 di Federazione Russa, Bielorussia e Ucraina, conseguito con il Memorandum di Budapest del 5 dicembre 1994. Una pagina poco nota e commentata, ma di fondamentale importanza per gli avvenimenti successivi. Con quell’accordo storico l’Ucraina deciso di smaltire l’enorme scorta di armi nucleari ereditata con la dissoluzione dell’URSS, aderendo al trattato di non proliferazione delle armi nucleari. Le migliaia di testate nucleari sarebbero poi state inviate in Russia per lo smantellamento nei successivi due anni con l’aiuto finanziario anche degli USA. In contropartita Russia, Stati Uniti e Regno Unito – seguiti poi da Cina e Francia – assicuravano all’Ucraina sicurezza, indipendenza ed integrità territoriale nei confini riconosciuti al momento della formazione della CSI. In questo modo, senza mortificare la voglia di indipendenza della stragrande maggioranza degli ucraini – celebrata dal referendum generale del 1° dicembre 1991, con oltre l’84% di partecipazione popolare, il 90% di sì e persino il 54% di favorevoli nella russofona Crimea – si provava ad offrire alla Russia una garanzia inoppugnabile sulla perpetua volontà di amicizia e buon vicinato. Più tardi allo scoppio della crisi in Crimea Brzezsinki avrebbe indicato la via d’uscita in una ‘finlandizzazione’ concordata dell’Ucraina.

Speculari a quelle di Brzezsinki – ma senza esasperazioni – le posizioni prevalenti nelle principali correnti di opinione in Russia nei primi anni Duemila: il rapporto con l’Ucraina è decisivo per il futuro della Russia e della sua influenza nel mondo. Del resto si trattava di una postura tradizionale, vero e proprio fulcro della geopolitica classica. Superfluo il richiamo ai grandi del passato – da Karl Haushofer a Halford Mackinder – e alle loro elucubrazioni sull’«Eurasia», regione perno, vero e proprio Heartland, «cuore della Terra», da cui dipendono le sorti degli equilibri mondiali. Il dibattito, il confronto e a volte lo scontro accompagneranno il cosiddetto «allargamento della Nato» ad Est nel passaggio agli anni Duemila. Il tutto in una sostanziale riproposizione del vecchio bipolarismo e a dispetto del suo sostanziale tramonto anche in quest’area.

Alcuni dati, però, finiscono con l’essere trascurati in questo scenario dominato dall’egemonia americana e dal nuovo clima imposto soprattutto dall’11 settembre. Relegati sul fondo rimangono alcuni dati essenziali, destinati però ad esercitare il loro peso sia nell’immediato sia a distanza di tempo.

Come e quanto pesa lo strumento militare ampiamente e senza molti limiti utilizzato da Putin – ad esempio in Cecenia, soprattutto nella seconda tornata di quella guerra – nello spingere in pratica la totalità degli Stati dell’ex Patto di Varsavia o ex sovietici a cercare sicurezza, a chiedere l’adesione alla Nato? Perché un movimento tanto unitario e compatto di un intero mondo? Tutto frutto del potere di attrazione, del soft-power a «stelle e strisce»? O, peggio, di una caparbia volontà degli USA di scavare in quella miniera geopolitica, magari sotto l’influsso esercitato dai neocons di Bush II, alla ricerca di una chiara supremazia anche rispetto agli antichi alleati europei. È il caso sicuramente già segnalato di Rumsfeld e delle sue elucubrazioni su Old e New Europe, «Vecchia e Nuova Europa».

A cercar meglio si possono trovare altri dati che spiegano i movimenti sulla scena: ma di tutti i protagonisti. Gli Europei non sono stati con le mani in mano dopo la caduta del Muro. E anche loro hanno funzionato da calamita. La deriva da Est verso Occidente non è a senso unico verso la Nato. Anche la UE appena nata a Maastricht sfodera attrattive. Ma non a tutto campo. Quando ha provato a fare il salto da comunità economica a unione politica non ce l’ha fatta. Non è riuscita a liberarsi dal generale quadro di condizionamento segnato dalla Guerra del Golfo, e dallo strapotere lì esercitato dagli USA. Si è divisa infine nei suoi ranghi alti al G7 di Londra sugli aiuti a Gorbačëv e rispetto ai primi passi della dissoluzione jugoslava. E così, avviandosi al traguardo di Maastricht, ha mancato l’appuntamento sulle questioni fondamentali della politica estera e di sicurezza. Ha finito col dividersi tra due ipotesi: quella franco-tedesca di cominciare a costruire un esercito europeo e quella anglo-italiana di non abbandonare il coordinamento strategico con la Nato. E così nelle tavole della legge per la nuova Europa non v’è posto per una politica estera e di difesa comune ed è rimasto l’abbraccio atlantico per gli stati che aderiscono a quel Patto.

Più al fondo del dibattito tra i costituenti europei – scandagliati solo dagli specialisti e di fatto sottaciuti al grande pubblico – alcuni grandi nodi. Inghilterra e Francia, Grandi Europei, hanno atomica e potere di veto in Consiglio di Sicurezza all’ONU. A chi passerebbe l’esercizio di queste supreme, ultime, prerogative se si riuscisse a dar vita ad una configurazione federale di politica estera e di sicurezza simile a quella prefigurata in campo monetario con l’Euro? E poteri siffatti sarebbero compatibili con una seconda corazza atlantica? O la renderebbero obsoleta o magari bisognosa di un ripensamento radicale?

L’Unione Europa nasce così monca a Maastricht e amputata di prerogative nel campo della sicurezza. Sprigiona fascino per attrarre ma non in misura sufficiente a guarire da vecchi mali. E nei paesi che da Est vengono ad allargare il perimetro pesano vecchi malanni e abitudini consolidate: meglio non cedere completamente sovranità. Piuttosto contrattarla e duramente. Visegrad diventerà l’etichetta di un allargamento continuamente rimesso in discussione, costantemente chiamato a nuove conferme dall’esercizio della «democrazia sovrana». Più sicuro e limpido l’orizzonte della Nato. Almeno fino a che le acque non si intorbidano.

[…]

Stampa o salva l’articolo in Pdf

Newsletter

Privacy *

Ultimi articoli pubblicati