Assolverò il mio compito di introduttore di questo seminario di presentazione del libro di Andrea Guazzarotti in meno di dieci minuti (link per la registrazione). Un libro con un titolo assai impegnativo Debito e democrazia. E un sottotitolo, Per una critica del vincolo esterno, “militante”, come si addice al nostro pubblico, fatto in prevalenza di studenti di un corso di laurea in Scienze Politiche.
I primi due minuti della mia introduzione sono occupati da tre domande che rivolgo ai nostri tre ospiti che presenteranno e discuteranno Debito e democrazia.
a) Prima domanda. Il debito pubblico fa male o fa bene alla società e all’economia?
b) Presumo che i nostri ospiti risponderanno che la mia prima domanda è mal posta e molto probabilmente diranno: dipende. E qui viene la mia seconda domanda: esiste un debito pubblico buono e un debito pubblico cattivo, come anche recentemente ha sostenuto Mario Draghi?
c) La terza domanda è, infine, di stringente attualità: perché oggi un debito pubblico europeo per riarmare l’Unione? Non è che, come evocato da Guazzarotti, nelle ultime due righe del suo libro si «sta ancora una volta ricorrendo al pericoloso surrogato del keynesismo di guerra per uscire dall’impasse della stagnazione economica»?
I secondi due minuti della mia introduzione li devo doverosamente dedicare a presentare non tanto il libro quanto il suo autore.
Andrea Guazzarotti è marchigiano, è nato ad Ancona e trascorre ancora una buona parte del suo tempo con i suoi cari nelle Marche. Vive a Padova ma insegna all’Università di Ferrara Diritto pubblico ed economia presso il Dipartimento di Economia e Management. Ha trascorso cinque anni a Roma, tra il 2018 e il 2022, come assistente di studio alla Corte Costituzionale. Quando trovi il tempo di scrivere i suoi numerosi e densissimi libri non è affatto chiaro, anche perché con la mia proverbiale cattiveria l’ho coinvolto da qualche anno nella direzione di un piccolo ma esigente web magazine di cultura politica e costituzionale – fuoricollana.it – che alcuni dei presenti conoscono.
Il mistero della prolificità di Andrea Guazzarotti è “aggravato” dalla sua straordinaria e approfondita conoscenza della letteratura internazionale, non solo giuridica, sui quali si fondano i suoi libri e i suoi innumerevoli articoli. La miniera di conoscenze a cui attinge Andrea in questo suo ultimo lavoro è davvero impressionante. Il tema del debito pubblico è affrontato a partire dalla sua genealogia sino ai nostri giorni. Un libro, dunque, che è destinato a diventare un “classico” e siamo, perciò, davvero onorati di essere tra i primi – se non i primi – ad avere organizzato una discussione con ospiti che coprono una molteplicità di punti di vista ed una molteplicità di discipline appartenenti al campo delle scienze sociali.
Oltre al Professore Federico Losurdo che coordinerà i lavori e che qui, a casa sua, non ha bisogno di presentazioni, partecipano alla discussione la Professoressa Camilla Buzzacchi, autorevole costituzionalista e Direttrice del Dipartimento di Scienze Economico-Aziendali e Diritto per l’Economia dell’Università di Milano-Bicocca; il Professor Tonino Pencarelli, illustre economista che insegna Economia e gestione delle imprese presso il Dipartimento di Economia, Società, Politica dell’Università di Urbino; Alessandro Volpi acutissimo storico dell’economia e della cultura che insegna Storia contemporanea all’Università di Pisa. Una bella squadra davvero che ringrazio per avere accolto, senza alcuna esitazione, il nostro invito.
I nostri lavori, come sapete, possono essere seguiti on line. Ai presenti e a quanti ci seguono da remoto voi vorrei consegnare, prima di cedere la parola al Professor Losurdo, le antiche riflessioni sul debito pubblico di un grande classico. Riflessioni che dovrebbero indurre qualche prudenza nei neo-apostoli delle magnifiche e progressive sorti del debito quale leva per riarmarsi.
Karl Marx vol. I, del cap. XXIV del Capitale intitolato Debito statale, capitale e grande industria: «Il debito pubblico (…) imprime il suo marchio all’era capitalistica. L’unica parte della cosiddetta ricchezza nazionale che passi effettivamente in possesso collettivo dei popoli moderni è il loro debito pubblico. Di qui, la dottrina moderna che un popolo diventa tanto più ricco quanto più a fondo s’indebita. Il credito pubblico diventa il credo del capitale. E col sorgere dell’indebitamento dello Stato, al peccato contro lo spirito santo, che è quello che non trova perdono, subentra il mancar di fede al debito pubblico.
Il debito pubblico – osserva subito dopo Marx – con «un colpo di bacchetta magica conferisce al denaro, che è improduttivo, la facoltà di procreare, e così lo trasforma in capitale, senza che il denaro abbia bisogno di assoggettarsi alla fatica e al rischio inseparabili dall’investimento industriale (…). In realtà i creditori dello Stato non danno niente, poiché la somma prestata viene trasformata in obbligazioni facilmente trasferibili, che in loro mano continuano a funzionare proprio come se fossero tanto denaro in contanti (…)». Ma «poiché il debito pubblico ha il suo sostegno nelle entrate dello Stato che debbono coprire i pagamenti annui d’interessi, il sistema tributario moderno è diventato l’integramento necessario del sistema dei prestiti nazionali. I prestiti mettono i governi in grado di affrontare spese straordinarie senza che il contribuente ne risenta immediatamente, ma richiedono tuttavia in seguito un aumento delle imposte. D’altra parte, l’aumento delle imposte causato dall’accumularsi di debiti contratti l’uno dopo l’altro costringe il governo a contrarre sempre nuovi prestiti quando si presentano nuove spese straordinarie. Il fiscalismo moderno, il cui perno è costituito dalle imposte sui mezzi di sussistenza di prima necessità (quindi dal rincaro di questi), porta perciò in sé stesso il germe della progressione automatica. Dunque, il sovraccarico d’imposte non è un incidente, ma anzi è il principio».
Ditelo ai nostri governanti, sovranisti o keynesiani che siano. E, siccome, faranno finta di non sentire ditelo ai loro elettori.