In uno tra i più brevi e densi Dialoghi che compongono le Operette morali, quello che si svolge tra la Natura ed un Islandese, Leopardi trova del tutto scontato, senza che si registrino oscillazioni di sorta tra autografi e stampe conclusive, personificare la prima con il continente africano, «nella forma smisurata di donna seduta in terra, col busto ritto, appoggiato il dosso e il gomito a una montagna; e non finta ma viva; di occhi e di capelli nerissimi». Siamo, secondo l’autografo leopardiano, nel maggio 1824 ed è probabile che a Leopardi fossero noti alcuni di quei tanti resoconti avventurosi redatti dai molteplici esploratori, inglesi e francesi perlopiù, che dell’Africa ne annotavano quasi sempre i rigori del clima e del territorio. E le molto sommarie partizioni dell’Africa più interna avvenivano perlopiù su basi orografiche e ideografiche non certo statuali.
Pertanto, non deve meravigliare più di tanto che in quegli stessi anni, sia pure in ben altro contesto culturale, Hegel nelle sue memorabili lezioni di filosofia della storia, quale apporto più originale al suo sistema del periodo berlinese, nel semestre invernale 1830-31 in particolare attribuisca un analogo ruolo esclusivamente naturalistico all’Africa, collocandola di fatto ai margini della «storia universale». Per Hegel la storia del mondo è il grande scenario della vita degli stati, i quali ne sono protagonisti assoluti. Lo Stato è la forma in cui un popolo perviene all’esistenza storica. In questa particolare ottica il filosofo tedesco può arrivare a dire che «l’Africa è una parte del mondo che non ha storia, essa non presenta alcun movimento o sviluppo, alcun svolgimento proprio». Non risuoni, poi, come particolarmente scandalosa quella esclusione anche alla luce del principio enunciato da Hegel nella sua Scienza della logica (1812-16), secondo il quale, a dispetto di quanto sostenuto da Adam Smith appena quarant’anni prima, la ricchezza delle nazioni non risiede nei beni, come erroneamente teorizzato, ma negli strumenti, nei macchinari che servivano a produrli. Da ciò che produce, insomma, e non da ciò che si consuma. Acutamente Hegel coglie che sotto i suoi occhi si sta componendo quella civiltà della tecnica che avrà sempre più voce in capitolo nel farsi del mondo.
Ora, in un contesto geografico e climatico estremo quale quello africano, alla luce di quel parametro tecnico di sviluppo così valorizzato, ne discende come in un teorema geometrico l’irrilevanza dell’Africa nella grande storia, che è poi l’interesse principale del filosofo di Stoccarda. Certo, in Hegel non manca la ripresa di tutta una serie di luoghi comuni e pregiudizi poco gradevoli, fino al richiamo in esplicito dell’immancabile cannibalismo, tipici di una sedimentata ottica eurocentrica. Ma non sono quei pregiudizi a sancire l’esclusione dalla storia che conta, casomai a suffragarla. Detto in breve, per Hegel, l’Africa non ha fatto la storia del mondo – e probabile non la farà mai! – per il suo clima e il suo territorio troppo estremo ed accidentato. Per un filosofo, come si accennava che ripone nello sviluppo dei mezzi produttivi la chiave del benessere dei singoli popoli e della loro incidenza nella storia del mondo, sarebbe un controsenso non escludere dal teatro del mondo un continente che presenta un’eccedenza naturale a fronte di mezzi tecnici pressoché inesistenti.
Non sarebbe pertanto appropriato e in ogni caso poco produttivo mobilitare la categoria di razzismo per il teorico, in epoca moderna, della dialettica «servo-padrone». Del resto è lo stesso Hegel che, nel motivare il suo sostegno incondizionato ai ribelli dell’isola caraibica di Santo Domingo per l’abolizione della schiavitù contro i loro padroni, in un passo delle sue lezioni sulla filosofia del diritto ribadisce che il servo «ha il diritto in ogni momento di spezzare le sue catene: anche se nato da schiavi, anche se tutti i suoi progenitori erano schiavi, il suo diritto è imprescrittibile». Almeno fino a quando sussisterà un’umanità offesa e tagliata fuori in via di principio dai circuiti del riconoscimento.
Più grave piuttosto è l’uso violentemente ideologico che si farà di questa esclusione, per alimentare un immaginario collettivo scopertamente razzista a sostegno della colonizzazione tardo-ottocentesca dell’Africa. Quando l’ulteriore vertiginoso sviluppo tecnologico al traino delle rivoluzioni industriali susseguitesi, avrebbe consentito, se opportunamente condiviso con quel continente, una emancipazione da quella condizione di minorità ambientale e climatica. Viceversa, nel quadro complessivo di un consolidamento del sistema capitalistico, via via che si scopre il valore degli africani e dell’Africa come merce, si procede per dirla con Nancy Fraser a razzializzare quelle popolazioni. Il crescente disprezzo per i neri dell’Africa da parte degli europei diviene allora un prodotto dell’imperialismo europeo, che trovò in narrazioni come quelle di Hegel, che nascevano in ben altri contesti e con differenti finalità, il precedente illustre per costruire un immaginario compatto di più lunga durata, coerente sul piano simbolico con le conquiste imperialiste che si succedevano in un crescendo di svalutazione e disumanizzazione. Detto altrimenti, via via che si faceva azione concretissima il discorso della potenza degli stati mediante l’ampliamento del proprio spazio territoriale a scapito di quello altrui, venivano reimmessi in circolo impianti discorsivi e categoriali che erano serviti a giustificare sul piano ideologico la tratta atlantica degli schiavi nel Sei-Settecento. Anche l’esclusione della storia del mondo dell’Africa teorizzata su basi filosofiche discutibili da uno dei più grandi filosofi della modernità è finita per confluire in quell’unica narrazione, mirante a giustificare dapprima la riduzione in schiavitù e più tardi, con l’avvento del colonialismo imperialista di fine Ottocento, la sottrazione dell’autodeterminazione politica.
Come si diceva, si è fatto uso della categoria critica di razzializzazione messa a fuoco da Nancy Fraser, che assieme ad ulteriori tre presupposti rappresentano, a suo dire, le condizioni di possibilità non economiche del capitalismo in tutte le sue varie fasi di sviluppo. Per dare innanzitutto giustificazione morale a se medesimo, ma soprattutto garantirsi sul piano pratico, a danno dell’ecosistema e dell’umanità, la propria riproduzione senza misura. Sia consentito a conclusione riportare in forma sintetica le quattro condizioni non economiche, comprensive della razzializzazione (che qui abbiamo adoperato):
«La prima è una quantificabile sacca di lavoro non remunerato intento alla riproduzione sociale e include il lavoro domestico, mettere al mondo e crescere i figli; la cura degli adulti, inclusi i lavoratori salariati, degli anziani e dei disoccupati, ovvero tutto ciò che è volto a creare e supportare un essere umano. […]
La seconda condizione non economica indispensabile per un’economia capitalista è una grande riserva di ricchezza espropriata alle persone sottomesse, in particolare per motivi razziali, ovvero razzializzate. […]
Una terza condizione non economica indispensabile per un’economia capitalista è una grande quantità di doni e/o contributi a basso costo provenienti dalla natura non-umana, che costituiscono l’indispensabile sostrato materiale della produzione capitalista. […].
Quarta e ultima condizione non economica indispensabile per un’economia capitalista è la grande quantità di beni pubblici forniti dagli Stati o da altri poteri non privati».
In questo modo ci si ricollega ai grandi teorici dei limiti del mercato: non solo perché esso non è in grado di autoregolarsi, come sostenuto da Karl Polanyi, ma soprattutto perché non è autosufficiente e come un parassita è costretto ad attingere da ambiti non suoi, in quanto il suo fondamento risiede altrove: negli ambiti per l’appunto della riproduzione sociale, dei beni pubblici e soprattutto della ricchezza sottratta alla terra e risorse minerarie espropriate a interi popoli e continenti come l’Africa, considerati inferiori e nella migliore delle ipotesi bisognosi di assistenza. Poco c’entra Hegel in tutto questo, moltissimo le convulsioni tragiche del medio e tardo- capitalismo.
Se il capitalismo ha assunto la configurazione di una compiuta civiltà del denaro, a sua volta quantitativo e astratto, che a seconda delle convenienze del momento attribuisce statuti di inferiorità e disumanità, appoggiandosi e distorcendo all’occorrenza il contenuto delle tradizioni di pensiero, per facilitare ovviamente la depredazione e lo sfruttamento, il pensiero critico che ne prospetta il superamento dovrà a sua volta avere la massima ambizione di ripensare radicalmente la società nel suo complesso. Rivelatrice in proposito una frase della Fraser nella quale è ben condensato il principio ispiratore di ogni società socialista futura: «dove le società capitalistiche subordinano l’imperativo della riproduzione sociale ed ecologica alla produzione di merci, di per sé destinate all’accumulo, i socialisti devono capovolgere l’ordine: trasformare il nutrimento delle persone, la salvaguardia della natura e l’autogoverno democratico in priorità sociali massime, che battono efficienza e crescita».
Bibliografia minima
- Fraser, Cosa vuol dire socialismo nel XXI secolo? Roma 2020.
G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della Storia, Bari 2013.
G.W.F. Hegel, Propedeutica filosofica, Firenze 1977.
- Leopardi, Operette morali, Milano 1986.