IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Atomica e “pace perpetua”

Siamo ancora in un mondo governato dalla Carta delle Nazioni Unite? Ci orientiamo ancora tutti su quell’altra bussola guadagnata tempo fa per navigare nel nostro tempo?

Gli annali della NATO-OTAN ci dicono che all’alba degli anni Cinquanta si lavorò molto per trovare un emblema confacente alla nascente organizzazione. Stalin già a fine 1949 aveva fatto deflagrare la prima atomica sovietica, sorprendendo gli americani che avevano pensato di avere un vantaggio strategico di almeno 10 anni nella corsa al nucleare.

Sorpresi dallo sbocciare del fungo mortale e dal quasi contemporaneo scoppio della guerra in Corea, sulle due coste dell’Atlantico ci si affrettò perciò per dar corpo e sostanza militari a quel Trattato del Nord Atlantico firmato a marzo 1949, sotto l’urto del blocco di Berlino e del successivo ponte aereo. Ci volle però un bel po’ per trovare un simbolo adatto. Una idea originaria di Eisenhower si affaticò su un insieme di stellette. Si scontrò con l’obiezione, invero fondata, di variazioni successive nel caso augurabile di un allargamento della platea di nazioni aderenti. E così, dopo varie ricerche e proposte, solo nell’ottobre del 1953 si giunse alla soluzione. Fu Lord Ismay, primo segretario dell’organizzazione a suggerire l’immagine stilizzata di una rosa dei venti o bussola: l’ideale per orizzontarsi nella ricerca della pace. Tutto racchiuso entro un cerchio utile a garantire l’unità dei vari firmatari del patto.

Insomma, fin dagli inizi un emblema, uno strumento progettato per epoche assai tempestose. Allora come oggi necessario per mantenere la rotta tra marosi e burrasche. Un marchingegno di cui si sente un gran bisogno oggi, in altro secolo e millennio, mentre infuria una guerra in cui si fa ormai giornaliero ricorso alla minaccia dell’atomica o d’altre armi assai micidiali.

La decisione di Putin di muover guerra all’Ucraina è stata condita fin dall’inizio dal ricorso a misure ultime: «chiunque tenti di ostacolarci, e ancor di più di creare minacce per il nostro Paese, per il nostro popolo, deve sapere che la risposta della Russia arriverà immediatamente e porterà a conseguenze che non avete mai visto nella storia». Così nell’annuncio fatale del 24 febbraio. Da allora titoli e resoconti di giornali e social-network, così come i lanci di TG e talk show, sono zeppi di ricorsi a scenari catastrofici. Da tempo vediamo moltiplicarsi sugli schermi di computer e TV nubi o funghi malefici. Così come siamo angosciati dal vedere che altrove, in trasmissioni televisive, la minaccia del ricorso alla soluzione finale può  divenire materia diretta per l’intrattenimento televisivo: «I Polacchi debbono sapere che in trenta secondi non resterebbe più nulla di Varsavia», si è gridato nel corso di una diretta di «Rossyia 1».

Il giorno dopo i giornali di tutto il mondo hanno fatto a gara nel rilanciare notizia e interrogativi. Unitario il ricorso alla riproposizione globale dell’interrogativo fatale: “Rethinkink the Unthinkable”? “Ripensare l’Impensabile”? Con tanto di inevitabile rinvio al suo autore: a quel “Thinking the Unthinkable”, dovuto alla penna di Herman Khan, scienziato e ricercatore della Rand Corporation, che per primo e in solitaria aveva pensato a come rendere possibile il ricorso ad un first strike ultimativo, un «primo colpo» al di fuori delle costrizioni della deterrenza nucleare, senza la sicura garanzia dell’annichilimento generale. Sforzo vano, rimasto fortunatamente confinato in un malefico libro dei sogni che ha popolato le biblioteche del mondo e guadagnato all’autore l’immortalità nel capolavoro di Stanley Kubrick: Il dottor Stranamore.

Da allora i richiami alla possibile mutua distruzione dell’umanità come conseguenza di azzardi nella vicenda ucraina si sprecano. Conditi però ora da molteplici enumerazioni di ben altre fatali occorrenze. Che succede nel caso si usi – come sembra già accaduto e per più volte – il fosforo bianco? E se si fa ricorso ad altri composti chimici? Qualcuno potrebbe pensare ad armi batteriologiche? E se queste sfuggissero da questo o quel laboratorio?

Il tutto accompagnato da tante avvertenze sulle soglie già varcate, sul fatto che i russi sono stremati: la situazione sta loro sfuggendo di mano, non vi sono più apparenti vie d’uscita. Si paventa ormai anche la possibilità che, nel tentativo di trovare una rapida soluzione, una scorciatoia, vengano azzardate mosse estreme: e se provano infine a passar parola all’atomica? Non quelle micidiali proiettate all’altro lato del mondo dai vettori intercontinentali. Magari si sgancia qualche bomba “tattica”: un multiplo modesto – per dir così – dei funghi sbocciati su Hiroshima o Nagasaki …

E via alla giostra su giornali e TV. La parola passa subito agli esperti. Vi è bisogno di orizzontarsi seriamente. È l’ora delle stellette, degli strateghi d’ogni indirizzo e cultura. Il tutto però tradotto nel linguaggio immediato dei talk show, condito magari e ad intermittenza da lazzi e lanci pubblicitari. Lo spettatore o il lettore comune fa fatica ad orizzontarsi, a destreggiarsi con cartine e mappe complicate, sigle astruse. Poi all’improvviso cade la menzione per qualche venticello fatale. E allora anche il termine più astruso, più strambo – “spill-over” – si illimpidisce e rivela i suoi risvolti mostruosi. Che succede e dove se nell’attimo fatale in cui si sgancia un composto chimico, batteriologico o atomico – “tattico”, per carità – su qualche angolo di Ucraina, il vento spira da Ovest?  E se non è Tramontana, con strascichi sul Mar Nero, ma Libeccio? O Ponente? Tutto rischia di tornare indietro, di rivoltarsi contro, verso la casa di chi ha sganciato?

Allora anche il lettore meno acculturato, lo spettatore meno smaliziato comprende, trasale e rabbrividisce. Alle nostre latitudini, nel Mezzogiorno, ne abbiamo già fatto esperienza. In buona parte d’Europa abbiamo già conosciuto questi venti e questi annunci col disastro di Chernobyl. Vietato andare per boschi a raccogliere funghi. Meglio lasciar perdere verdura e finocchi. Sui campi è calata una nebbiolina di incerta natura. Meglio esser prudenti. In Francia si si ricorda ancora dello scandalo e dei brutti quarti d’ora rimediati allora da Chirac e Sarkozy per colpa dei servizi metereologici nazionali. Sicuri avevano annunciato che la nube radioattiva non aveva valicato le alture francesi. Ancora oggi grava il peso delle accuse e dei dubbi del tempo.

Non vi sarebbe spazio adesso se non per malinconici o mesti sorrisi. Solo che a turbare ora i nostri sonni stanno news assai inquietanti. A infoltire la chiacchiera usuale ci si sono messe le notizie dalle riunioni dei Grandi riuniti in consessi emergenziali. Sono stati giorni di sfilate e discorsi memorabili ai vertici di Nato, Unione Europea e Gruppo dei 7. Dai retrobottega in gran fermento di quei meeting sono venute notizie assai allarmanti. Ci dicono che si è pensato di modificare i paragrafi dei documenti relativi alla cosiddetta “postura strategica”. Insomma, si sarebbe pensato a quali risposte brandire nel caso qualche malaugurata nube chimica, radioattiva o atomica superi il confine ucraino e raggiunga terre “atlantiche”? Magari in Polonia o sul Baltico? La risposta sembra vaga. Perciò assai inquietante: “Ogni utilizzo da parte russa di armi chimiche o biologiche sarebbe inaccettabile e provocherebbe severe risposte … Stiamo accelerando la trasformazione della Nato rispetto ad una situazione strategica più pericolosa … rafforzando la nostra capacità di deterrenza»: queste le parole adoperate nel comunicato ufficiale pubblicato alla fine del vertice NATO Insomma, adesso non è più solo Putin a minacciare il ricorso a misure estreme. Lo si contempla ormai da ogni versante.

Il tutto mentre all’ONU appaiono bloccati tutti gli strumenti di intervento. La Russia si fa forte del suo voto in Consiglio di sicurezza ed esercita spregiudicatamente il cosiddetto «potere di veto». Non rimane spazio che per solenni ma inconcludenti risoluzioni dell’Assemblea generale, dimidiate ulteriormente dal ricorso all’astensione di realtà fondamentali: prime fra tutte, Cina e India. E allora diventa inevitabile interrogarsi sul tempo che viviamo, su questo XXI secolo.

Siamo ancora in un mondo governato dalla Carta delle Nazioni Unite? Ci orientiamo ancora tutti su quell’altra bussola guadagnata tempo fa per navigare nel nostro tempo? Su quell’altra regola, su quel comandamento supremo solennizzato alla fine del secondo conflitto mondiale? «Salvare le future generazioni dal flagello della guerra»?

Per noi Italiani, intanto vale ancora? Come ci muoviamo? Ci riconosciamo ancora, anche noi, in quel Trattato di non proliferazione nucleare firmato nel 1968 e finora ratificato da quasi 190 stati sovrani? Non ci siamo forse anche noi impegnati (in base all’articolo II) a non accettare il trasferimento sul nostro suolo di qualsiasi arma nucleare? E allora perché mai ospitiamo nelle basi di Aviano e Ghedi tra 70 e 90 atomiche cosiddette “tattiche”, marchiate a «stelle e strisce», nell’ambito del programma di condivisione della deterrenza nucleare NATO?

Ancora: perché mai – assieme a tutte le potenze atomiche e a quella aderenti alla Nato e poche altre – anche noi Italiani non abbiamo ancora firmato il Trattato per la proibizione delle armi nucleari? Non è stato forse sottoscritto già da 129 nazioni e 7 organizzazioni internazionali? Non è forse già entrato in vigore il 22 gennaio 2021? È così che rispettiamo quel «ripudio della guerra» sancito nell’art. 11 della nostra Carta fondamentale?

Sarebbe forse il caso allora di mettere a frutto una lezione che ci è stata impartita proprio dall’Ucraina. Un precedente purtroppo relegato in qualche libro di storia (anzi, non in molti libri di storia e soprattutto dimenticato oggi nelle cronache quotidiane dei nostri giorni terribili). Pochi ricordano che gli Ucraini, sia pure divisi da lingue e culture diverse e qualche volta contrapposte, hanno saputo in frangenti difficilissimi assumere decisioni esemplari. Oggi sono sommersi da fuoco e ceneri micidiali. Sarebbe veramente assurdo se questa catastrofe fosse la risposta alla decisione presa nel 1991 quando l’Ucraina, nel dar vita assieme a Bielorussia e Federazione Russa alla CSI (Comunità degli Stati Indipendenti), rinunciò, con l’aiuto logistico e finanziario degli USA, a migliaia di ogive e vettori nucleari. Furono allora tutti ceduti alla Russia di Eltsin o utilizzati come combustibile nelle varie centrali atomiche nazionali. È il caso di non dimenticare mai che quel micidiale armamentario, ereditato dalla dissoluzione dell’URSS, costituiva allora il terzo arsenale atomico del mondo per numero di testate e potenza. Ancor oggi farebbe dell’Ucraina un pilastro della deterrenza globale.

Forse è il caso di disporsi con ben altra disponibilità ad apprendere da questi passaggi fondamentali di vicende relegate in angoli remotissimi di una memoria troppo spesso tribalizzata da una comunicazione frettolosa e strumentale. È in questi frangenti che la storia torna ad esser utilmente maestra.

(Una anticipazione, assai più breve, di questo contributo è stata pubblicata sulla «Gazzetta del Mezzogiorno» del 27 marzo 2022)

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