IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Biglobalizzazione, Ma è proprio così?

Secondo la teoria delle relazioni internazionali nota come realismo (o neorealismo), che ad avviso dello scrivente più di altre consente di decifrare gli accadimenti in corso, protagonista della scena internazionale è lo Stato e il conflitto, politico o militare ne costituisce il carattere dominante. Essendo il potere la posta in gioco, ogni stato mira ad accrescere forza e influenza a danno di altri. Si tratta di una teoria in essenza a-valoriale, che a dispetto dello stupore dissenziente del cosiddetto Occidente non fa distinzione alcuna tra sistemi democratici (liberalismo politico/economia di mercato) e autocrazie o dittature. Secondo tale ermeneutica, i canoni di condotta dei soggetti internazionali sono costanti, a prescindere da tempi e luoghi, i momenti di cooperazione rari e instabili e le difformità da contesto a contesto toccano solo aspetti minori.

In seno a tale scuola di pensiero le leggi identificano le tendenze, le invarianze e le possibili associazioni, mentre le teorie spiegano le ragioni di tali associazioni. Per i realisti, in sostanza, la storia tende a riproporsi ovunque sulla scorta di simili modelli e canoni di comportamento.

Diversamente, per la scuola idealista il mondo procede costantemente in direzione del progresso, come lo storicismo in filosofia. L’essere umano è al centro dell’azione dello stato e la pace perpetua costituisce il fine da perseguire tramite le istituzioni internazionali, l’interazione bilaterale e l’impegno valoriale. Tale obiettivo presuppone l’impegno etico a battersi contro il cinismo e l’indifferenza, anche quando il successo è faticoso e la battaglia un’apparente scelta d’ingenuità.

Entrambe le scuole suggeriscono di sottrarsi a un’esegesi schematica prendendo distanza da ideologismi e pregiudizi, poiché solo uno sguardo candido e consapevole sulla realtà – che resta comunque espressione di molte sfumature di senso – tiene in vita la speranza di costruire una società più umana e priva di alienazione.

Per la scuola marxista (figlia dalla codificazione marxiana di fine secolo XIX), sono la lotta di classe (all’interno) e la rivalità tra i paesi ricchi e quelli poveri (all’esterno) a caratterizzare i rapporti di forza, sia tra gli individui che tra le nazioni. Pur in uno spazio minimo, deve comunque rilevarsi che l’idealismo socialista resta orfano di un coraggioso confronto con la prassi e la teoria. Con l’abbandono della premessa veritativa al servizio dei bisogni essenziali dell’uomo e l’accantonamento di un pilastro fondativo della riflessione del filosofo di Treviri – il cui nocciolo è sintetizzabile in un’antropologia ontologica in tensione verso una comunità universale di libere individualità – il comunismo novecentesco cancella il valore della libertà, giudicato sul fronte ideologico al servizio del capitalismo e su quello della prassi un rischio per l’oligarchia dominante. È su queste obliterazioni che il socialismo reale novecentesco impone l’oblio pregiudiziale di una sfera basilare per l’emancipazione e la lotta al nichilismo; e con la parallela creazione di una classe artificiale incaricata di puntellare la nomenclatura, rinnegherà il nocciolo duro del Marx idealista, ponendo le premesse del proprio tramonto, dopo aver inferto un colpo ferale alle prospettive di un mondo diverso.

Per gli istituzionalisti liberali e i costruttivisti, infine, l’economia e le istituzioni internazionali (i primi) e i tanti soggetti sub-statuali transnazionali sono oggi attori sempre più imprescindibili delle relazioni tra nazioni e popoli.

In estrema sintesi, poiché nell’arena internazionale il monopolio della forza non è concentrato nelle mani di un soggetto legittimato e universalmente riconosciuto, è ineludibile che lo stato ponga al centro delle sue preoccupazioni la sicurezza e, a seguire e se ne ha la forza, l’egemonia. E quando interessi politici ed economici entrano in conflitto, sono i primi a prevalere, poiché il valore essenziale – in tal caso – torna ad essere la sopravvivenza. In ogni caso, il filo rosso che intreccia le diverse teorie è costituto dall’interesse a proteggersi ed espandere il potere, seguendo la via bilaterale o quella multilaterale poco importa. La differenza, viene da taluno sottolineato, si colloca nell’etica della moderazione, sebbene anche la via pacifica debba annoverarsi nella categoria della coercizione quando per imporre la sua volontà uno stato ricorre a sanzioni, embargo o altre misure mordenti, tendenzialmente assimilabili all’uso della forza.

Quanto sopra premesso, e tenendo a mente che la storia resta sempre una fonte perenne di sorprese, è possibile azzardare un’incursione, con largo spazio di fallacia, su possibili scenari a venire, con la premessa che anche nel mondo multipolare in gestazione, pur assiologicamente preferibile a quello unipolare Usa o bipolare di un tempo, non mancheranno le insidie, che potrebbero persino essere maggiori.

Secondo una prima ipotesi, in regresso ma alimentata da una potente narrazione mediatica, la superpotenza atlantica rimarrà tale ancora a lungo. Secondo un altro scenario, gli Usa saranno presto (o sono già) affiancati da altri, in una scena cumulativamente multipolare (Usa, Cina, Brics…). Una terza ipotesi – poco frequentata, ma teleologicamente seducente – prospetta un mondo plurale, che potrebbe finanche affermarsi attraverso un graduale recupero di sovranità contro lo svuotamento di democrazia e la destrutturazione istituzionale degli stati-nazione. Un percorso quest’ultimo che richiederà di contenere la mistificazione seduttiva dei raggruppamenti di nazioni (G7, Nato, Ue, Nafta e via dicendo), miranti a instaurare automatismi di sottomissione alla superpotenza imperiale e alle sue onnivore corporazioni. Il recupero di sovranità si porrebbe in tal caso quale baluardo di una recuperata etica dell’armonia nella diversità, ideologica e culturale, a sua volta precondizione di pace, equità e contenimento di ogni prevaricazione egemonica.

Secondo il grande intellettuale vivente, Noam Chomsky, la propaganda sta all’Occidente come il bastone alle dittature. L’imperialismo Usa, nei suoi metodi e obiettivi – irrispettoso di qualsivoglia frontiera e costituzionalmente transnazionale – non è diverso da quelli del passato. Ciò che ne accresce il pericolo è tuttavia la concentrazione in poche mani di ricchezze e potere come mai prima nella storia umana. Tecnologie invasive, disinformazione e propaganda hanno raggiunto livelli senza precedenti. La sorveglianza è capillare e pervasivo il dominio sulle coscienze degli individui.

Oltre alla dimensione politica o geopolitica, sono i conflitti economici e di distribuzione di ricchezza tra stati, corporazioni e individui a muovere le forze che sottocoperta dettano l’agenda ai decisori politici. Nei paesi capitalisti, allo stato (minimo, indigente e impotente) è affidato il compito di tutelare la ricchezza delle classi dominanti, in una cornice di legalità formale e mantenimento dell’ordine pubblico. Le elezioni non hanno alcun impatto, cambia solo l’umore popolare se l’inquilino della Casa Bianca ha lo sguardo pirotecnico di D. Trump o quello senile, ma rassicurante, di J. Biden, entrambi maschere di carattere affatto fungibili: la ricchezza resta comunque concentrata in cima alla piramide. Nei protettorati europei lo sconforto è ancora maggiore. In Italia, poi, la pratica d’asservimento a interessi altrui è tristemente consolidata: destra, centro e sinistra si occupano d’intrattenimento serale, mentre il paese si avvia verso un cupo declino, sociale, culturale e demografico.

La rivalità tra il corporativismo americano – aggrappato agli esorbitanti privilegi di cui gode dalla fine del secondo conflitto mondiale – e i paesi sfidanti, con Cina e Russia in prima fila (insieme ad altri) è centrata sulla diversità istituzionale dei rispettivi sistemi di controllo della ricchezza: in America, gli asset economici e sociali sono in mani private, mentre nei contender states essi sono vigilati dalle classi di stato (seppure secondo intensità e forme diverse da paese a paese). Davanti al pericolo che tale modello possa esondare oltre frontiera, l’oligarchia americana è preda di un’angoscia dolorosa e pericolosa.

A sua volta, il peso dei Brics e della Sco (Shanghai Cooperation Organization) è in espansione e un numero crescente di paesi chiede di aderirvi. Conflitti e prese di distanza occorsi nei decenni scorsi hanno accelerato la transizione dal momento unilaterale americano, indifferente ai valori della pace e della sovranità altrui, a un multipolarismo sostenuto da paesi ormai poco disposti a chinare la schiena, anche se le 800 basi militari Usa nel mondo costituiscono tuttora una minaccia che non può essere ignorata. Nato o G7 riflettono, tuttavia, una rappresentazione di potere, militare, politico o economico, le cui caratteristiche appartengono al passato.

La Nato, in particolare, sorta nell’emisfero atlantico e con intenti difensivi (in realtà la sua genesi ha radici diverse, ma non è questo il tema), è divenuto col tempo uno strumento offensivo, globale e operante senza riscontro democratico. Popoli e parlamenti dei paesi membri, ad esempio, non sono stati consultati del cambiamento di strategia che pone la Cina, non solo la Russia, al centro di fabbricate preoccupazione di sicurezza prive di logica e consistenza. Questa nuova, pericolosa agenda di priorità viene imposta dallo stato profondo e permanente del paese-guida dell’Occidente, a protezione dei suoi interessi imperiali e quelli della sua industria militare, senza che nessuno tra i paesi membri faccia sentire almeno un alito di dissenso.

La Nato avrebbe acquisito un grande merito se fosse stata sciolta nel 1991 insieme al Patto di Varsavia, ponendo le premesse di un percorso di pacificazione e interazione strategica tra tutte le nazioni dell’Eurasia, una prospettiva che l’Europa avrebbe potuto percorrere in parallelo, non in alternativa, alla tradizionale vocazione atlantica, rafforzando le aspettative di pace e prosperità nel territorio euroasiatico. L’impero statunitense, tuttavia – che in quanto tale vive di guerre infinite (solo 16 anni di pace in 250 anni di esistenza) e che in quel caso si sarebbe scoperto ai margini del nuovo baricentro del potere mondiale – non lo ha consentito. Oggi la Nato si propone quale strumento (fallace per di più) di soluzione di problemi che non esisterebbero se non esistesse la Nato medesima.

Gettando uno sguardo ai numeri, altresì, emerge che al 31 dicembre 2022 il Pil complessivo dei paesi G7 è stato di $ 43.538 mld in potere d’acquisto internazionale (PAI) e di $ 49.186 mld in potere d’acquisto interno (PPP). Per i paesi Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa), i dati sono rispettivamente $ 26.227 mld in PAI, ma $ 51.117 mld in PPP, dunque già superiori. Se poi al gruppo Brics si aggiungono i paesi che hanno già chiesto di farne parte – vale a dire Argentina, Algeria, Iran, Arabia Saudita e Turchia, senza considerare quelli che entreranno in futuro – il Pil di costoro raggiunge (sempre al 31 dicembre 2022) i $ 29.500 mld in PAI e di $ 60.000 mld in PPP. Certo, se al G7 si sommano le altre nazioni occidentali medio-piccole, la ricchezza del mondo sviluppato resta maggiore, ma le distanze si accorciano ogni anno che passa, poiché i paesi emergenti hanno tassi di crescita più elevati.

Sebbene dunque la prima economia al mondo restino gli Stati Uniti, tuttora anche la prima potenza militare, la Cina segue a ruota, media potenza militare ma già grande potenza economica e in ottimi rapporti con la Russia, a sua volta media potenza economica (forse più che media per via dell’energia), ma grande potenza militare. Inoltre, la maggioranza dei paesi al mondo (in rappresentanza dell’85% degli abitanti), pur condannando l’invasione russa, si è dissociata dalle sanzioni unilaterali dell’Occidente contro Mosca, dando corpo all’intento di prendere le distanze da un Occidente sempre meno attraente.

La multipolarità ha già una sua forma, mentre l’Occidente a guida Usa opera su binari che vanno dileguando nel fiume della storia, illudendosi di poter mantenere in eterno i propri privilegi. Persino nelle Americhe, al Centro e al Sud, si rafforza il gruppo di nazioni resistenti alla bulimia imperiale. Il Brasile è divenuto attore fondamentale della costellazione Brics, cui ora intende aderire anche l’Argentina, seconda economia di quel continente. Russia, India e Cina sono membri dei Brics e della Sco, che insieme all’Unione Economica Euroasiatica e ad altri raggruppamenti, l’Unione Africana, l’Asean e via dicendo stanno edificando la roccaforte della resistenza antimperialista.

Tuttavia, prima di accogliere il verdetto che il mondo si stia de-occidentalizzando, occorre definire ermeneutica e contorno di tale supposto percorso, per comprenderne portata e plausibilità. L’occidentalizzazione – vale a dire lo sversamento planetario di occupazione, valorazioni e tecnologia europee prima, statunitensi poi – è stato un processo secolare di dilatazione pervasiva, che insieme alla più recente globalizzazione (intreccio di economie, culture e valori, imposto dalla grammatica di valori e interessi Usa) ha tuttavia generato una palingenesi fatta di mescolanze e dipendenze, di cui allo stato attuale appare arduo immaginare la reversibilità. L’interconnessione dei sistemi produttivi, tecnologici, di capitali e altro è quanto mai profonda. È ragionevole assumere un potenziamento bilanciato della sua governance, ma non la sua soppressione. Del resto, non vi sono segnali che il globo si stia deglobalizzando, per tornare a una frammentazione foriera di deterioramenti per tutti. Il palcoscenico internazionale è oggi più complesso di un tempo e il mondo non va come dovrebbe. Né l’Occidente (the West), né il Non-Occidente (the Rest) sono però in grado di alzare muri invalicabili senza danneggiare profondamente e pericolosamente se stessi. Cambieranno gli equilibri, dunque, ma non le dinamiche d’interazione. È verosimile che il futuro ci riservi tensioni, contenziosi e controversie, nuove e acerrime, ma nulla che si avvicini alla soglia di una cesura antiglobalizzazione.

Il mondo sarà un’arena a più voci, dove anche le nazioni povere e sottomesse potranno aspirare a una vita migliore, guardando semmai al Beijing Consensus, plastica evidenza della possibilità di uscire dal sottosviluppo, e non al Washington Consensus, la cosiddetta via capitalistica allo sviluppo, che in cambio di sottomissione politica ed economica non ha mantenuto le promesse. L’avvenire, in ultima analisi, resta frutto della sofferenza e delle aspirazioni di tutti noi, perché il cielo e la terra, come ricorda la saggezza taoista, sono indifferenti al destino dell’uomo.

[Alberto Bradanini è un ex-diplomatico. Tra i numerosi incarichi ricoperti, è stato Ambasciatore d’Italia a Teheran (2008-2012) e a Pechino (2013-2015). È attualmente Presidente del Centro Studi sulla Cina Contemporanea. È autore di saggi e ricerche. Ha inoltre pubblicato “Oltre la Grande Muraglia” Ed. Bocconi 2018; “Cina, dall’umanesimo di Nenni alle sfide di un mondo multipolare”, Ed. Anteo, 2023 e “Cina, l’irresistibile ascesa”, Ed. Sandro Teti, 2022]

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