Le Relazioni Cina-UE e la logica del divide et impera
Come noto, la Cina ha portato avanti la sua politica di investimenti diretti in Europa attraverso il progetto della “nuova via della seta” (Belt and Road Initiative-BRI), che ha l’ha vista siglare una serie di “Memorandum of Understanding” con singoli Stati, con una logica da “divide et impera”. In cima alla lista degli Stati europei che accolgono il maggior numero di investimenti cinesi, invero, si trovano anche i maggiori Paesi europei che non hanno siglato tali MoU (Regno Unito, Germania, Francia). Ma è solo quando l’Italia del governo Conte uno, nel 2019, ha voluto teatralizzare il suo MoU con la Cina che è scattata la reazione della Commissione a stigmatizzare i rischi di simili partnership col gigante asiatico, probabilmente più per l’antagonismo con il governo euroscettico giallo-verde di allora che per convinta presa di distanza dalla BRI cinese. Si è trattato anche di un allineamento simbolico alla netta avversione espressa dagli USA di Trump a tale accordo Italia-Cina, fra l’altro privo di effetti giuridici vincolanti. È solo la natura di soft law di tali accordi, del resto, che li mettono al riparo dalla violazione delle competenze dell’UE nelle materie da questi toccate, quali, in particolare: coordinamento delle politiche, connettività e infrastrutture, libero scambio, integrazione finanziaria e scambi culturali [Calamita].
In ogni caso, a fronte degli esiti meramente simbolici del MoU siglato dal governo italiano nel 2019, nel 2021 il ben più allineato governo Draghi ha bloccato significativi investimenti cinesi nel campo dei semiconduttori e della robotica, con ben 5 ricorsi al golden power in due anni per inibire incursioni della Cina nell’industria italiana giudicata strategica dal governo Draghi (senza tuttavia giungere a bandire i colossi cinesi del 5G dalle infrastrutture italiane, per non compromettere eccessivamente i rapporti con la Repubblica popolare). Ma va detto che le relazioni Italia-Cina si erano già raffreddate, per impulso degli USA, prima dell’insediamento del governo Draghi.
Da rilevare il dato per cui la BRI cinese è finanziata da una Banca creata da Pechino (l’Asian Infrastructure Investment Bank – Aiib, operativa dal 2016), cui partecipano anche singoli Stati dell’UE (con il 25 % di capitale versato), mentre l’UE ha espressamente rigettato l’opzione di aderirvi.
L’interesse cinese per le infrastrutture portuali nel Mediterraneo è noto da tempo: la Cina controlla dal 2016, tramite la Chine Ocean Shipping Company, il porto del Pireo, con 700 milioni di investimenti. Il tentativo di spingersi a controllare anche l’Adriatico non è, per ora, riuscito: il porto di Trieste è finito sotto il controllo dell’operatore di Amburgo (Hafen und Logistik – Hhla), nonostante l’offerta del colosso cinese China Merchants fosse più alta. Al veto statunitense contro l’espansione cinese si sono aggiunte le mire tedesche, ponendo Trieste al centro del triangolo Washington-Pechino-Berlino [Limes]. Resta ancora vivo l’interesse cinese per Taranto, ove recentemente il gruppo Ferretti, controllato all’85% da un’impresa di stato cinese, ha ottenuto in concessione un’area per realizzare un cantiere e un centro di ricerca. Ma il potenziamento della marina militare italiana e delle Forze Nato a Taranto dovrebbero frenare tali ambizioni cinesi [ibidem]. Oltre a ciò, la Cina ha, nel programma di investimenti per la BRI, acquisito il 5% di Autostrade per l’Italia e il 49.9% del Porto di Vado Ligure.
Nell’ultimo decennio, la Cina ha realizzato l’ingresso nell’azionariato di aziende strategiche italiane, quali Fca, Telecom Italia, Enel, Generali, Ansaldo Energia e Cdp Reti, fino all’acquisizione, nel 2015, della Pirelli da parte di China National Chemical [Ispi]. È di questi giorni la notizia dell’acquisizione da parte della cinese COSCO del 25% di un terminal del porto di Amburgo, assai contestata dal partito tedesco dei Verdi, alleati di governo.