IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

C’eravamo tanto amati? Il fallimento dell’accordo del secolo Cina-UE

La sigla dell’accordo globale sugli investimenti esteri tra Cina e UE è giunta dopo 7 anni di negoziati: lo stallo attuale è frutto dell’irrigidimento di entrambe sulla questione dei diritti umani in Cina e segnala un parallelo conflitto identitario interno. La guerra in Ucraina e la rielezione di Xi ha ulteriormente allontanato il miraggio di un’intesa pragmatica, riallineando l’UE agli USA

La Cina ha, dunque, per lungo tempo preferito trattare bilateralmente con gli Stati dell’UE, anziché con le istituzioni europee, per la gestione della BRI e dei suoi investimenti diretti, in generale.
Dal punto di vista giuridico, gli Stati membri sono tuttora vincolati ai singoli Bilateral Investment Treaties (BITs) a suo tempo conclusi con Pechino, almeno finché non entrerà in vigore il Comprehensive Agreement on Investment (CAI), di cui si dirà a breve e nonostante il recente Regolamento che istituisce un quadro per controllo degli investimenti diretti esteri nell’Unione (Reg. UE 2019/452). Per l’Italia, si tratta del BIT Italia-Cina siglato a Roma nel 1985 e in vigore dal 1987 [Calamita].
Sebbene le istituzioni europee abbiano fin qui criticato i protagonismi degli Stati membri nei rapporti economico-commerciali con la Repubblica Popolare, per l’indebolimento degli sforzi dell’UE di presentarsi come attore unico sulla scena internazionale, non è chiaro quanto ciò rappresenti una postura “di facciata”, stante l’atteggiamento di Paesi-guida come Francia e Germania e dello stesso Lussemburgo dell’ex Presidente della Commissione Junker.

Il Comprehensive Agreement on Investment tra Cina ed Unione europea

UE e Cina, dopo l’illusorio tentativo di una Strategic Partnership nel 2003, hanno concluso il 30 dicembre 2020 il Comprehensive Agreement on Investments, in esito a un negoziato durato 7 anni, con ben 35 cicli di trattative (l’accordo UE-Messico è stato concluso in soli 7 cicli). Si tratta di un accordo mirante a realizzare plurimi obiettivi, tra cui spiccano quello, cruciale per l’UE, di garantire l’accesso senza discriminazioni agli investimenti stranieri, nonché quello di uno sviluppo sostenibile in termini di rispetto dell’ambiente e dei diritti dei lavoratori. Oltre a ciò, l’accordo mira a introdurre elementi di trasparenza rispetto agli aiuti di stato per le imprese in mano pubblica: diversamente da altri accordi sugli investimenti diretti, l’enfasi è meno sulla tutela degli investimenti già in essere, quanto sulla garanzia del c.d. «level playing field». L’UE ha da tempo aperto il suo mercato unico agli investimenti stranieri, senza discriminazioni, cosa che la Cina si è fin qui rifiutata di fare, imponendo condizioni e restrizioni notevoli alla penetrazione di imprese straniere nel suo enorme mercato, specie nel settore dei servizi. Lo testimonia l’aumento degli investimenti cinesi in Europa e il calo di quelli europei in Cina degli ultimi anni.
L’accordo punta a rendere più verificabili ed eventualmente effettivi alcuni vincoli teoricamente già contemplati dal WTO, i quali però non sono mai stati davvero rispettati da parte cinese, così come a impegnare la Repubblica popolare a siglare le convenzioni OIL contro il lavoro forzato e il diritto di associazione dei lavoratori.
Le fasi decisive del negoziato dell’accordo Cina-UE sono coincise con la Presidenza Trump e la guerra commerciale di questo contro la Cina, mentre la tempistica della conclusione del CAI ha coinciso con l’insediamento della Presidenza Biden. Proprio per la mancata attesa delle possibili interlocuzioni tra la nuova Presidenza USA con l’UE sull’accordo, il Governo e parte della stampa USA hanno manifestato tutta la loro irritazione per la vittoria strategica concessa alla Cina da un’UE ‘auto-interessata’ e responsabile di dividere il ‘fronte occidentale’ nella lotta contro l’autocrazia cinese.
In effetti, se per entrambe le parti si è trattato di lanciare un segnale di contrasto alle tendenze di de-globalizzazione in atto, per la Cina il CAI rappresenta un’importante occasione per confermare la sua asserita visione pluralista delle relazioni internazionali, contro l’unilateralismo statunitense, che tradotto in termini più prosaici corrisponde all’obiettivo di separare l’UE dagli USA (Telò). Mentre l’UE ha avuto gioco facile a ribattere all’amico americano che non è stata certo concordata la guerra commerciale di Trump così come il ben più risalente boicottaggio degli USA al multilateralismo del WTO (il CAI è stato negoziato negli anni di paralisi del Development Doha Round del WTO). In effetti, le clausole del CAI sembrano concepite non solo per tutelare gli interessi strategici di UE e Cina, ma anche per rafforzare gli accordi del WTO, le Convenzioni OIL e gli impegni ambientali della COP 21.
Per l’UE si è trattato, inoltre, di mettere in pratica quello che il Trattato di Lisbona metteva sulla carta, ossia la possibilità di agire, in materia di investimenti esteri, come un unico soggetto, contrastando la strategia divisiva attuata dalla Cina nei confronti degli Stati europei.
Considerando il diverso grado di apertura agli investimenti esteri degli ordinamenti degli Stati membri dell’UE, il CAI ha comportato vincitori e vinti, con le imprese tedesche collocate sicuramente tra i vincitori (Telò). Tale asimmetria non ha però impedito alla Commissione di ottenere l’unanimità dei 27 governi rappresentati nel Consiglio. Sulla carta, invero, il CAI rappresenta un ribilanciamento delle posizioni in favore dell’UE, oltre a una mossa strategica per contrastare il nascere di una nuova guerra fredda contro la Cina che danneggerebbe gli interessi europei.

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