L’affossamento dell’accordo UE-Cina sugli investimenti: un successo per il Parlamento europeo e i diritti umani?
Il Trattato di Lisbona ha inserito, nella politica commerciale comune, anche gli investimenti esteri diretti (art. 207.1 TFUE), con ciò producendo ripercussioni sia nei rapporti tra UE e Stati membri (legati da numerosi accordi in materia con Paesi terzi e con la Cina, in particolare), sia nei rapporti tra istituzioni della stessa UE.
Dal punto di vista dell’equilibrio istituzionale, il PE ha pienamente utilizzato i nuovi poteri concessi a suo favore dal Trattato di Lisbona nella politica commerciale comune (art. 207.2 TFUE), mentre in precedenza il suo ruolo non era neppure contemplato. Tale nuovo ruolo offre al PE importanti poteri anche nella negoziazione degli accordi internazionali relativi a tale politica, dovendo la Commissione riferire periodicamente sull’avanzamento dei negoziati non solo al vecchio “comitato 133” (composto dai direttori del commercio estero dei relativi ministeri degli Stati membri), bensì anche al PE (artt. 207.3 e 218.10 TFUE), al quale spetta il potere di approvare la ratifica dell’accordo da parte del Consiglio (art. 218.6 TFUE). Il PE ha fatto uso dei poteri d’influenza derivanti da tale nuovo status costituzionale, pretendendo e ottenendo (nel 2017) che il CAI contenesse un capitolo sullo “sviluppo sostenibile” incentrato sulla tutela internazionale dell’ambiente e dei diritti dei lavoratori (Telò).
Ed è lo stesso parlamento il protagonista, per così dire, delle vicende terminali del CAI, che hanno condotto alla sospensione delle procedure di ratifica a seguito dello scontro a colpi di sanzioni individuali tra Stati europei e UE, da un lato, e Repubblica popolare, dall’altro, sul tema del rispetto dei diritti umani e della repressione nel Xinjiang e a Hong Kong.
Dopo l’approvazione della decisione del Consiglio sul regime delle sanzioni contro le violazioni dei diritti umani del 7 dicembre 2020 (di poco anteriore alla firma del CAI, del 30 dicembre 2020), l’UE si era dotata di uno strumento per colpire singole persone fisiche o giuridiche (divieto di viaggiare, congelamento di beni, divieto di finanziamenti) che di lì a poco sarebbe stato utilizzato per colpire quattro funzionari cinesi di fresca nomina responsabili delle violazioni dei diritti degli Uiguri nello Xinjiang.
La dura reazione di Xi Jinping non si è fatta attendere: la Cina ha colpito alcune entità e individui europei, tra cui alcuni membri dei maggiori gruppi politici al Parlamento europeo e la sottocommissione per i diritti umani di quest’ultimo. Non si sa bene se tale reazione cinese sia stata calcolata o meno, con riguardo alle possibili conseguenze negative sulla “ratifica” del CAI, sul quale doveva pronunciarsi ancora lo stesso Parlamento europeo. Quest’ultimo, già animato da forti dubbi sull’effettività degli impegni siglati dalla Cina in materia di “sviluppo sostenibile”, ha sospeso (con voto quasi unanime) la “ratifica” del CAI, con ciò congelando a tempo indefinito l’accordo Cina-UE.
La vicenda della (provvisoria?) fine del CAI è emblematica per entrambe le parti.
La Cina ha dimostrato il suo prioritario interesse per la tutela della propria sovranità contro ogni ingerenza interna, anche a costo di vanificare anni di trattative con l’UE per un accordo in grado di affermare il suo ruolo di paladina del multipolarismo e di dividere il fronte occidentale (ma c’è il dubbio che il ripensamento fosse calcolato, viste le importanti concessioni in favore dell’UE e il riallineamento degli Stati europei agli imperativi della sicurezza invocati dagli USA, specie nel 5G). Se l’atteggiamento di Pechino è sembrato di difficile interpretazione, esso ha comunque fornito la riprova che «qualsiasi idea di convergenza con le norme liberali un tempo propagandata dalla teoria della modernizzazione occidentale era chiaramente obsoleta» (Tooze, p. 314).
L’UE, dal canto suo, ha dimostrato il paradosso del suo conflitto identitario interno: da un lato, l’esigenza di esercitare, attraverso la contestata chiusura del CAI, la propria “autonomia strategica” rispetto agli USA e il suo sostegno al multilateralismo; da un altro lato, l’esigenza di tener fede ai propri valori “non negoziabili” (la tutela dei diritti umani), come fatti valere dalla società civile e dal protagonismo del Parlamento europeo nella politica commerciale estera che proprio il Trattato di Lisbona ha reso possibile.
L’attualità sembra rafforzare l’esito divisivo delle vicende appena illustrate: nel suo discorso tenuto in occasione del XX Congresso del Partito comunista cinese del 16 ottobre scorso, Xi Jinping ha affermato l’irrinunciabilità del «diritto di usare la forza per la riunificazione di Taiwan», in netta risposta alla Casa Bianca. Per ciò che riguarda la gerarchia dei valori, Xi sembra chiaramente porre la sicurezza, tanto interna che esterna, al di sopra dell’economia.
La reazione dei 27 ministri degli esteri dell’UE nell’incontro del 17 ottobre del Lussemburgo è stata critica, affermandosi l’esigenza di non ripetere gli errori già commessi con la Russia di Putin ed «evitare di ricreare delle dipendenze»; l’allineamento alla strategia degli USA di contenimento della Cina sembra chiaro e la definizione di “rivale sistemico” campeggia ormai nel discorso europeo; resta comunque aperto uno spiraglio per la cooperazione, specie sul clima, posto che, secondo le parole dell’Alto rappresentante Borrell, senza Pechino «i problemi del mondo non si risolvono».
Ma il messaggio più interessante è quello interno: occorre opporsi al divide et impera della Cina. Così i 27 ministri degli esteri, probabilmente preoccupati della (solita) corsa solitaria della Germania verso la cura dei suoi interessi in Cina. Dopo la rielezione di Xi, il Cancelliere Scholz è stato, infatti, il primo leader europeo a recarsi a Pechino per congratularsi, assieme a una delegazione di imprenditori tedeschi. Vedremo se le preoccupazioni di questi ultimi saranno più eloquenti dei richiami all’ordine della debole politica estera dell’UE e se la lettura ‘europeista’ data dallo stesso Scholz a tale visita (sarebbe interesse dell’intera UE non tagliare i rapporti con la Cina) troverà conferma.