Dal pacifismo a Papa Francesco
Non si rifletterà mai abbastanza sul fatto – peraltro ormai da tempo non più sorprendente – che chi non vuole rinnegare la sua appartenenza a quella che è – o era una volta – la sinistra non trovi, alla fine, altra voce concorde che non sia quella di Papa Francesco (cfr. pp. 194-196). È da anni che nessun’altra voce forte e credibile solleva questioni decisive circa il progresso e l’emancipazione dell’umanità. C’è molto da interrogarsi su questo, e anche da vergognarsi, direi. Perché non mancherebbe di certo un patrimonio culturale e ideale laico a cui riferirsi, e Cantaro non intende dimenticarlo: “Il pacifismo può tornare ad essere una potenza planetaria, come lo è stato in certi frangenti della storia anche recente, solo se supportato da una cultura capace di prendere congedo tanto dalla ‘tirannia’ dei valori quanto dalla ‘dittatura’ delle leggi eterne della geopolitica e della geoeconomia. La pace è frutto di costruzione, di riconoscimento dell’altro, non di imposizione unilaterale e unidirezionale. Anche nell’odierna civiltà planetaria l’universo è – e deve essere – un pluriverso. Ciò che oggi è di ostacolo alla pace non è […] la mancanza di un’unica leadership globale, ma, al contrario, l’assenza di una condivisione globale della leadership. Premessa e condizione politica e costituzionale indispensabile affinché la maggior parte della popolazione mondiale, dopo secoli di umiliazioni, possa compiutamente uscire da una stazione chiamata sottosviluppo e avanzare in direzione di una stazione chiamata sviluppo, progresso, piena ed eguale dignità” (pp. 198-199). Faccio volentieri mie queste parole, senza illudermi che, nell’immediato, possano essere vincenti. Ma questo non impedisce che siano le parole giuste.
L’ottocento, un secolo lunghissimo
Una piccola notazione critica, in conclusione. In questo libro si parla poco, troppo poco, di Ucraina. Non è sorprendente, non la conosciamo, non siamo abituati a confrontarci con una nazione che non sappiamo ben distinguere dai suoi vicini, tra Polonia e Russia, oppressa nei secoli da Polonia e Russia (e Austria-Ungheria, e Impero ottomano…). Una nazione che sta combattendo adesso la sua guerra di indipendenza, cioè sta vivendo il suo mito fondativo. E già questa è una definitiva sconfitta per Putin, quale che sia l’esito della guerra. Non è una vittima passiva, l’Ucraina. È un protagonista, anche scomodo, esigente, invadente. Ci costringerà a un’idea diversa di Europa, di Nato, di Occidente, di mondo. Già adesso è più autrice che non destinataria o vittima dei progetti strategici che la coinvolgono. E non illudiamoci: in un’Europa futura – sempre che ci sia un futuro dell’Europa, e un futuro tout court – sarà un partner difficile. Con una mitologia patriottico-guerriera che a Putin fa comodo chiamare nazismo, ma naturalmente non lo è. È nazionalismo romantico-eroico di puro stampo ottocentesco. Di riflesso, forse, come atto di resistenza e non come scelta originaria. Alla fine si assomiglia al proprio nemico. È inevitabile. Specie quando, come in questo caso, è un nemico fratello. Non so se sia vero che il Novecento sia stato il “secolo breve”. Ho l’impressione, piuttosto, che sia l’Ottocento ad essere un secolo lunghissimo. Tanto lungo da rischiare di essere il secolo della fine del mondo.