La de-costituzionalizzazione non è mero disordine
Siamo allora in balia – come suggerito dalle acute letture di Roberto Bin (R. Bin, 2016) e Geminello Preterossi (G. Preterossi, 2019) – di un nuovo stato di natura globale? Siamo regrediti ad una situazione pre-hobbesiana nella quale il Leviatano non riesce a imporsi, domina l’anarchia e viene, così, alla luce il volto duro e brutale del potere che pone rimedio al disordine e al caos? Per certi versi sì, per altri no. Siamo, piuttosto, in una situazione di interregno, avrebbe detto Gramsci (A. Gramsci, 2014). Una condizione nella quale nuovi poteri costituenti sono da tempo all’opera e convivono con i vecchi poteri costituiti, condizionandoli in forme opache.
La de-costituzionalizzazione non è, tuttavia, mero disordine, livellamento senza gerarchie. È il portato di una sempre più esplicita opera di ri-costituzionalizzazione. All’origine della de-costituzionalizzazione non ci sono forze magiche, ma nuovi poteri consapevoli della loro forza costituente. Non siamo di fronte ad un golpe, ad una frattura dell’ordinamento costituzionale esistente, bensì alla colonizzazione del vecchio ordine ad opera di un altro ordine.
Questi nuovi poteri stanno certamente minando i fondamenti dello Stato costituzionale e della costituzione dell’ordinamento internazionale. Vengono trasfigurate le nozioni di sovranità, territorio, popolo, cittadinanza, rappresentanza. Cresce la marginalità del medium legge. Sfuma la distinzione tra normatività e fatticità. Vengono esternalizzate funzioni di garanzia delle libertà e i soggetti che si incaricano del loro bilanciamento. Sorgono giurisdizioni alternative nelle quali la soluzione dei conflitti non è più affidata al diritto oggettivo, al diritto soggettivo, al diritto dei contratti, bensì a quei vincoli fluidi e informali evocati dal libro di Balaguer. E il simbolo per eccellenza di questi poteri – ha ragione il giurista spagnolo – sono le imprese multinazionali e, segnatamente, le grandi imprese digitali private e le loro piattaforme (Facebook, Apple, Amazon, Netflix, Google). Poteri senza responsabilità. Il completo ribaltamento delle virtù del costituzionalismo per il quale legittimi sono solo i governanti che rispondono del loro operato ai governati.
La rete in cui operano questi soggetti privati ricorda da vicino il “grande spazio” di Carl Schmitt (C. Schmitt, 1991; G. C. Feroni, 2020), un luogo immateriale e universale, popolato da utenti (cittadini digitali) immersi in flussi perpetui e cangianti. E malgrado si tratti di soggetti privati, senza un apparente territorio, le Big Tech si autorappresentano come Stati negli Stati e, persino, come soggetti del diritto internazionale. Meta-Stati a base societaria e non più sociale (A. Venanzoni, 2020).
I social ne sono il fondamentale veicolo di penetrazione nella smarrita cittadella della ‘vecchia politica’ e delle istituzioni. Queste appaiono sempre più impallidite di fronte all’immenso patrimonio informativo delle piattaforme digitali che batte, per dettaglio e aggiornamento, quello delle amministrazioni fiscali, sanitarie e statistiche degli Stati. Oggi il flusso informativo ha sopravanzato la banca-dati. Il software, sempre più sofisticato ed intelligente, è in grado di intercettare dinamicamente variazioni altrimenti impercettibili nelle vite, abitudini, gusti e tendenze che, a differenza di quanto avviene con i governi, gli utenti condividono spontaneamente. Cosicché, ai soggetti privati che detengono tali flussi informativi, gli Stati sono sempre più spesso costretti a ricorrere per la gestione, il supporto e l’operatività dei server di polizia, difesa, sanità, previdenza, fisco, sanità. E, soprattutto, a scendere a patti con loro, stipulando accordi e convenzioni per servirsi delle loro imprescindibili, insurrogabili, attività.
Anche gli sviluppi più recenti confermato la vocazione costituente, ordinamentale, delle piattaforme digitali. Sempre più tentate dal configurarsi come ‘Stati paralleli’, ormai fatturano Pil a livello degli Stati nazionali (ma senza debiti), si preparano a battere moneta digitale, mirano a crescere senza regole, se non quelle stabilite da loro (E. Morozov,2017). Il tutto sapientemente accompagnato da una campagna che dipinge gli Stati nazionali come ossificati, decadenti. Vetusti, lenti, antiquati, senza aderenza alle istanze di cittadini che apprezzano, invece, l’attenzione delle piattaforme alle richieste dei consumatori/utenti/navigatori della rete, la loro responsività persino quando i processi decisionali di queste grandi imprese appaiono palesemente opachi e poco trasparenti. E altrettanto martellante è la narrativa che rappresenta come totalmente impotenti e inutili le istituzioni ‘costituzionali’ dell’ordine globale del ventesimo secolo. Sempre più screditate a causa della vistosa distanza tra l’astratto “dover essere” delle carte dei diritti e il concreto “essere” del diritto internazionale. La generosa battaglia per costituzionalizzare il digitale e digitalizzare la costituzione a cui ci invita il libro di Balaguer appare, a chi scrive, assai ardua se altri poteri costituenti, di natura alternativa e antagonista a quelli dell’economia digitale, non scenderanno presto in campo.