IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Crisi politica dell’Europa e “deoccidentalizzazione”

La guerra sta svelando il volto di un’Unione europea con l’elmetto della Nato, una presenza senza voce, emarginata e subalterna. Un’Europa che si appresta a inaugurare una politica di austerità militare per conto degli Stati Uniti.

La lotta di classe dall’alto

Ebbene, una soluzione di questo genere sarebbe stata impensabile nel “glorioso” trentennio (1945-1975) keynesiano imperniato sugli Stati, sostenuti da partiti e sindacati, che avevano tutti per obiettivo la piena occupazione e il controllo politico del movimento dei capitali. Non a caso nei primi anni Settanta il capitalismo occidentale segna la sua crisi più drammatica, che corrisponde ad un crollo verticale del saggio di profitto e una fase economica di prolungata stagnazione nella crescita e simultanea esplosione incontrollata dei prezzi – quel fenomeno che nei manuali di storia è riportato con l’espressione «stagflazione». Tra i fattori scatenanti va annoverata la sciagurata e infinita guerra in Vietnam con tutto il suo strascico di squilibri finanziari, dovuti agli incontrollati quantitativi di dollari stampati e immessi nel sistema valutario per fare fronte alle necessità militari. Circostanza che il mainstream si guardò bene dal denunciare in quanto era funzionale al nuovo corso che si intendeva avviare e che Gallino ha racchiuso opportunamente nella formula della «lotta di classe dopo la lotta di classe».  Il nuovo modello economico che prende forma e che orienta sin dall’inizio il progetto europeo è impostato non più sull’obiettivo strategico della massima occupazione, ma il nemico diventa l’inflazione, esplosa effettivamente a seguito della grave crisi petrolifera del ’73; lo scopo diventa quello di ricostituire ed ampliare il «tasso naturale» di disoccupazione, di cui abbiamo traccia evidente ancora nel relativamente recente Trattato di Lisbona (2007).

Old economy e new economy

Lo sviluppo economico, in base a questo nuovo paradigma via via dilagante, prima nell’anglosfera e poi in Europa, è inteso come una oggettività, matematicamente misurabile e dimostrabile – tanto che in luogo della parola economia nei vari dipartimenti di economia e cancellerie di Stato si preferisce quella di econometria (per segnalare la stretta parentela con la matematica e la statistica, più che con la politica), con una sua propria logica interna di equilibrio nella formazione dei prezzi e allocazione di merci e capitali, liberi questi ultimi di muoversi per ottimizzare i profitti e «delocalizzare» ovunque. Con le quattro sacre libertà scolpite nei vari Trattati europei, a partire da quello programmatico di Roma del ’57, della «libera circolazione di capitali, servizi, merci e persone» si ponevano le basi per un progressivo disimpegno dall’industria manifatturiera, la Old Economy, a favore della New Economy, tanto decantata non a caso a quei tempi dal laburista inglese Tony Blair. Mentre la prima, infatti, assicurava occupazione stabile e redditi dignitosi, la seconda creava colossi tecnologici che svettavano, per redditività, nei listini di Borsa. Non è dunque frutto del caso che nel 2019, a consuntivo di una stagione economica sciagurata, mentre in Germania la quota della manifattura era del 20% del PIL, in Cina aveva raggiunto il 28%. In Italia era scesa al 15%, in Francia al 10% e in Gran Bretagna addirittura al 9%. Ma per un paradigma economico deflattivo e dove soprattutto la disoccupazione non era più un problema, la Old Economy rappresentava, con i suoi bassi profitti oltretutto su tempi lunghi, per la nuova oligarchia finanziaria nel frattempo egemone, solo un vecchio arnese da accantonare. Le Big Tech e soprattutto la finanza hanno contribuito a concentrare al massimo i capitali, perché i profitti sono elevati e istantanei (il tempo di un click), mentre tutta la struttura intermedia costituita da centinaia di migliaia di professionisti tende a sparire risucchiata dagli sviluppi informatici.  Il che ha creato in neppure troppo tempo un diffuso disagio sociale che ben presto si è trasformato in protesta politica di segno per lo più regressivo. In un contesto di individualismo spinto ed assenza di soggetti collettivi organizzati, nel frattempo rasi al suolo, non poteva essere altrimenti.

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