Un mondo post-occidentale
«Il titolo del libro “La svolta culturale dell’Occidente” conserva intatta l’urgenza per l’Occidente euro-atlantico di prendere atto che siamo ormai entrati in un mondo post-occidentale e di operare un coraggioso decentramento rispetto alla sua presunta superiorità spirituale riconoscendo la legittimità e la pari dignità delle altre culture. “Svolta culturale” era intesa sia nel senso descrittivo di una constatazione empirica di un mondo globale non più egemonizzato dalla cultura occidentale (come gli Studi Postcoloniali avevano cominciato a dimostrare), sia in un senso normativo, riconducibile alla necessità di una sua assunzione di coscienza e di responsabilità etico-politica. Ciò che da allora appare ancora più attuale è la prospettiva epistemologica che il paradigma del dono offre su questa problematica, che rimane più centrale che mai per costruire una convivenza fondata sulla pace e sulla giustizia.
Riconoscimento della pluralità delle culture
D’altronde, ancora una volta Gramsci e Mauss [Movimento Anti-Utilitarista nelle Scienze Sociali] convergono nel ritenere che nell’età moderna la cultura è indissociabile dall’esistenza delle nazioni, al punto che Mauss è convinto che a partire dalla Grande Guerra viviamo nell’epoca dell’“inter-nazione” e che lo stesso socialismo “è legato all’esistenza delle nazioni”. Questo innesto di Gramsci su Mauss mi consentiva di proporre un approccio non solo economico alla(e) cultura(e), tale da non schiacciarla(e) sulla logica mercantile delle megacorporazioni delle arti, del cinema e dell’informazione, ma tale da proteggere la produzione culturale endogena nella specificità delle tradizioni nazionali (compresa la configurazione ecologica dei territori). Ma soprattutto mi consentiva di legare il tema del riconoscimento delle altre culture, soprattutto dei popoli più poveri che hanno subìto lo sfruttamento del colonialismo e dell’imperialismo, ad un’“obbligazione unilaterale” di generosità nei confronti di questi ultimi da parte dei popoli e degli Stati più avvantaggiati. Anche su questo versante mi sembrava un passo teoricamente fecondo coniugare il concetto di riconoscimento elaborato da Honneth con la “tesi” di Gramsci rivisitata attraverso il dono agonistico di Mauss.
Mi sembrava che l’“offerta di riconoscimento” dell’eguale rispetto delle altre culture da parte dell’Occidente dovesse accompagnarsi con l’adozione di una “clausola antisacrificale” sul piano dei rapporti internazionali nei confronti dei paesi un tempo oppressi dalla dominazione colonialista, cioè con la costruzione di relazioni di dono e di solidarietà almeno fino a quando essi non avessero conquistato una relativa autonomia. Rispetto all’atteggiamento di un’“obbligazione unilaterale” di generosità, che sarebbe stato un segnale di presa d’atto che siamo entrati nel tempo storico di una società planetaria in cui tutte le culture aspirano ad essere rispettate nel loro modo peculiare di stare al mondo, l’Occidente ha preferito proseguire sulla vecchia strada.
Per una nuova Weltanschauung contro-egemonica
Soprattutto nella fase attuale in cui la Weltanschauung dominante è quella del neoliberismo come ideologia del capitalismo finanziario e speculativo, la lotta per l’egemonia si svolge preminentemente sul terreno culturale. Il problema è come far diventare il dialogo culturale complesso di Benhabib o la multiculturalità/interculturalità di Canclini strumenti concretamente efficaci sia sul piano nazionale sia su scala internazionale. Efficaci, naturalmente, lo sarebbero se diventassero idee condivise, si traducessero in movimenti sociali o animassero la strategia di forze politiche nazionali e transnazionali. A questo interrogativo ha cominciato a dare una risposta il Secondo Manifesto Convivialista, che invita a vedere nel neoliberalismo, unitamente ad una trasformazione globale del modo di produzione capitalistico, una “nuova prospettiva culturale” e una “nuova ragione del mondo”, che “esercita su scala planetaria ciò che il filosofo Antonio Gramsci chiamava egemonia, il dominio sulle idee e sui cervelli”. Da Gramsci più che da altri pensatori del Novecento possiamo attingere, dunque, la consapevolezza che per contrastare adeguatamente il neoliberalismo, divenuto l’ideologia dominante in tutto il pianeta, occorre elaborare “un pensiero e una comprensione del mondo alternativi”. In breve, una filosofia politica o una “filosofia della con-vivenza” dal respiro cosmopolitico, in cui possano riconoscersi movimenti, associazioni, forze sociali e politiche che lottano contro le molteplici forme di oppressione e contro le diseguaglianze create dal capitalismo neoliberista, e che lavorano per inventare altri modi di vivere, di produrre, di essere-insieme.
Va da sé che sarebbe un errore fatale se questa nuova Weltanschauung ricalcasse le orme delle grandi ideologie della modernità: il liberalismo, il comunismo, il socialismo o l’anarchismo. Giustamente il Secondo Manifesto afferma che esse “non ci hanno detto nulla sul rapporto auspicabile degli esseri umani con una natura che evidentemente non è inesauribile; né ci hanno detto nulla di decisivo sui rapporti tra gli uomini e le donne; e ancor meno su come pensare in positivo la diversità delle culture”. Il rapporto con queste ideologie non può che declinarsi nei termini della hegeliana Aufhebung e non di un rifiuto pregiudizievole, che sarebbe palesemente antistorico. Solo un atteggiamento (ri-)costruttivo ci consentirebbe di ereditare sia la tradizione maussiana del socialismo, sia il nocciolo non congiunturale della filosofia gramsciana della praxis, e al contempo fare fronte alle sfide che il nuovo tempo storico ci impone.
L’unificazione del genere umano
Per concludere vale la pena evidenziare che cosa le identità culturali, al di là delle loro differenze specifiche, hanno in comune, e di cui dovrebbero prendere coscienza per non cedere alla tentazione di rinchiudersi autoreferenzialmente in stesse e, quindi, distruggersi in conflitti sanguinosi. In primo luogo, ciò che esse hanno in comune è il pianeta in cui vivono, ormai devastato dalle illusioni di onnipotenza dell’homo faber, a cui le ideologie della modernità hanno sacrificato la natura, i territori e i paesaggi sull’altare del mito di un progresso considerato di per sé benefico e risolutivo di tutti gli effetti perversi da esso derivanti. Mettendo a frutto la lezione di filosofi, antropologi e scienziati sociali (da M. Merleau Ponty a G. Anders, da H. Jonas a A. Gorz), il Secondo Manifesto ha enunciato come primo principio di una politica legittima quello della comune naturalità, poiché “gli esseri umani non vivono in un rapporto di esteriorità con una Natura di cui dovrebbero diventare “signori e padroni”. Come tutti gli esseri viventi, ne fanno parte e sono con essa in una relazione d’interdipendenza. Hanno la responsabilità di prendersene cura. Se non la rispettano, mettono in pericolo la propria sopravvivenza etica e fisica”. È superfluo sottolineare quanto l’ideologia del “Prometeo scatenato” (Jonas) abbia permeato l’autocoscienza della modernità in tutte le sue varianti, compresa l’edificazione della società socialista sia nell’Unione sovietica che nella Cina post-rivoluzionaria. E come il corollario più importante per contrastare la tendenza al no limit del capitalismo neoliberale (in tutte le sue versioni) sia il controllo della hubris, del desiderio di onnipotenza, della smania di possedere sempre di più costruendo, come accennavo, forme di vita post-neoliberali.
La concretizzazione dell’eguaglianza
Reinterpretando le Tesi su Feuerbach di Marx, Gramsci specifica che la sostanza concreta che scandisce il processo di unificazione del genere umano è l’eguaglianza reale, da intendersi, si badi, sia come una ‘spiritualizzazione’ della “natura umana”, sia come organizzazione dell’ordine sociale e politico.
“Nella storia – egli afferma – l’‘uguaglianza’ reale, cioè il grado di ‘spiritualità’ raggiunto dal processo storico della ‘natura umana’, si identifica nel sistema di associazioni ‘private e pubbliche’, esplicite e implicite, che si annodano nello ‘Stato’ e nel sistema mondiale politico: si tratta di ‘uguaglianze’ sentite come tali tra i membri di un’associazione e di ‘diseguaglianze’ sentite tra le diverse associazioni, uguaglianze e disuguaglianze che valgono in quanto se ne abbia coscienza individualmente e come gruppo. Si giunge così anche all’eguaglianza o equazione tra ‘filosofia e politica’, tra pensiero e azione, cioè ad una filosofia della praxis”38.
L’assunto di Gramsci è che l’“essenza umana” si dispiega storicamente e il suo grado di incivilimento (di “spiritualità”) si misura dalle forme che assume il processo di concretizzazione dell’eguaglianza.
Il criterio del valore dell’eguaglianza è il metro con cui valutare il grado di incivilimento nelle relazioni tra gli Stati, ma anche la qualità dei rapporti sociali interni ad ogni singolo Stato. Detto altrimenti, sia i rapporti interni alle società nazionali, sia le relazioni interstatali sulla scena mondiale vengono percepiti dai rispettivi associati, si tratti degli individui o dei gruppi di appartenenza, in termini di eguaglianza/diseguaglianza, vale a dire secondo relazioni di riconoscimento reciproco e di redistribuzione delle risorse, o, nel lessico di Gramsci, secondo relazioni egemoniche tra dominanti e dominati, tra dirigenti e diretti, tra governanti e governati. In questa prospettiva, la lotta per l’unificazione del genere umano si identifica con la lotta per conquistare forme sempre più avanzate di “eguaglianza reale”, cioè di incivilimento della «natura umana» o, come anche si esprime Gramsci, di «società regolata».
[F. Fistetti, La svolta culturale dell’Occidente. Dall’etica del riconoscimento alla cultura del dono, Morlacchi editore, 2024]