IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Debito e democrazia. Una critica al vincolo esterno

Pubblichiamo un estratto dell’ultimo lavoro di Andrea Guazzarotti. Alla sostenibilità del debito e alla responsabilizzazione delle politiche di bilancio, il vincolo europeo antepone il risparmio privato e attribuisce alla Commissione un potere di indirizzo politico di dubbia legittimazione.

Debito pubblico e deficit spending, in Europa, non hanno goduto di buona stampa per molti anni; almeno fino allo scoppio della pandemia nel febbraio-marzo 2020. È proprio ricorrendo al debito che gli Stati dell’UE hanno fronteggiato i costi delle chiusure forzate imposte dalla crisi pandemica, ed è ricorrendo all’emissione di debito comune del NGEU che l’UE è sembrata rinascere dalle sue ceneri. La scelta dell’UE è apparsa tanto innovativa da far rievocare (impropriamente) l’evento cruciale per la fondazione degli USA, in cui l’allora segretario del Tesoro Alexander Hamilton decise di accollare alla neonata Federazione i debiti che le 13 ex-colonie avevano accumulato nel corso della guerra d’indipendenza contro il Regno Unito. Debito pubblico e fondazione dello Stato (federale) si intrecciano in un abbraccio esistenziale. Non è un caso che i Trattati europei impongano all’UE un bilancio in pareggio e che il diritto derivato applichi questo vincolo in senso rigoroso, al punto che una buona metà del debito del NGEU è stato contabilizzato come entrata fuori-bilancio, proprio per caratterizzarne l’eccezionalità ed esorcizzare il nesso “debito pubblico comune – Stati Uniti d’Europa”.

Debito pubblico e mercati finanziari

A fondamento della formazione statuale non sta solo la spinta derivante dall’esigenza di finanziare, attraverso un efficiente sistema di tassazione e una burocrazia chiamata a gestirlo, le guerre e altre simili iniziative di allargamento del potere (commercio marittimo, imprese coloniali, ecc.), bensì anche l’indebitamento pubblico. Il Settecento non è solo il secolo in cui nasce la tendenza per le costituzioni scritte, ma anche quello in cui il debito pubblico aumenta incredibilmente: come per le costituzioni scritte, si è trattato di un potente strumento per legare le generazioni future alle scelte della generazione presente, introducendo un elemento di secolarizzazione nella legittimazione religioso-dinastica delle monarchie europee. Dal punto di vista istituzionale, si assiste all’organizzazione dei creditori privati dello Stato: nel Parlamento inglese tra XVII e XVIII secolo, i creditori dello Stato (i detentori della maggior quantità di titoli pubblici) erano sovra-rappresentati, così che, se da un lato la tassazione consentiva ai governanti di accedere alla ricchezza privata, dall’altro lato le élite politiche (grazie alla rappresentanza parlamentare) riuscivano a convogliare parte di quella ricchezza al servizio del debito (mitigando l’eventuale avventurismo del monarca e/o spingendo per un sistema fiscale centralizzato ed efficiente). Il controllo parlamentare in capo ai creditori segna il passaggio dalla credibilità personale del monarca (debitore sovrano) alla credibilità delle istituzioni, specie quelle parlamentari, contribuendo per questa via a innescare quel fondamentale moto di spersonalizzazione del potere sovrano e di fondazione dello Stato nazionale moderno.

Stato e capitalismo di mercato

Lo Stato moderno occidentale non è solo quello che, con Max Weber, monopolizza l’uso legittimo della forza e, di qui, garantisce anche la certezza del diritto, bensì anche quello che facilita e stabilizza il capitalismo di mercato. Quest’ultimo non può concepirsi senza mercati finanziari, i quali prosperano grazie alla loro simbiosi con i titoli del debito pubblico. Il debito pubblico, per le sue caratteristiche di sicurezza e liquidità, non vale solo a incentivare il risparmio privato, ma viene utilizzato anche come collaterale nei prestiti, aumentandone il volume e fungendo da benchmark per i titoli più rischiosi, fornendo, così, le basi per la nascita e lo sviluppo dei mercati finanziari. Il passaggio del debito pubblico da mera fonte di entrate erariali alternativa alla tassazione a perno insostituibile del funzionamento dei mercati finanziari è reso possibile dalla creazione della Banca centrale, istituzione cerniera tra potere finanziario pubblico e privato, la cui funzione di garanzia del debito pubblico (acquirente di ultima istanza, per prevenire il crollo del valore dei titoli pubblici) non è un’appendice della sua funzione di emettere moneta e gestire la politica monetaria, bensì è a quest’ultima connaturata. La stessa BCE, incarnazione dell’anomalia di una Banca centrale di un’entità non statuale, costituisce l’eccezione che conferma la regola, posto che, proprio nei momenti di crisi esistenziale dell’Eurozona, essa si è mostrata in grado di creare moneta ex nihilo al fine di stabilizzare il mercato dei titoli di Stato, quasi al pari di altre Banche Centrali. […]

Un debito comune senza Stato?

Lo scarso o scarsissimo ricorso all’indebitamento dell’UE fino all’“evento” del NGEU era coerente con la “costituzione materiale” dell’UE (nel senso mortatiano del suo “fine politico fondamentale”), ossia, con l’ispirazione originaria che ha mosso gli Stati fondatori all’integrazione. La logica della federazione (intimamente diversa dal processo federativo verso un futuribile Stato federale) era e resta quella di unire le forze degli Stati membri al fine di preservare la propria statualità, non di cederla a un nuovo soggetto sovrano, sia pure nella forma dello Stato federale. La mutualizzazione del debito, con i conseguenti effetti redistributivi, era (e assai probabilmente resta) fuori da questa “costituzione materiale” dell’UE. Dopo aver assistito – negli anni della crisi dell’euro e dei commissariamenti della Troika – ai perniciosi effetti causati dall’azzardo di una politica monetaria accentrata in assenza di un bilancio minimamente federale, con il NGEU e con le insistenti proposte di stabilizzare il potere di emettere debito pubblico europeo entriamo in una fase nuova, altrettanto pericolosa: un debito pubblico comune senza Stato federale. Si ripete l’illusione funzionalista di anteporre gli effetti alle cause, di confidare che dalle epifanie della statualità federale possa prodursi la materialità di un popolo solidale?

La finanziarizzazione dell’economia

L’insegnamento dell’istituzione di una Banca senza Stato dovrebbe metterci in guardia contro simili illusioni: in quel caso si pensò che i mercati si sarebbero fatti carico, grazie alla libera circolazione dei capitali innescata dall’euro, di creare ex post le condizioni necessarie per il varo di un’area monetaria ottimale. Ma la verità fu che i mercati pensavano e pensano solo al loro guadagno immediato, non certo alla costruzione di un popolo europeo. Con il debito comune le cose rischiano di andare storte allo stesso modo. I beni pubblici europei – tra cui spicca la difesa – dovrebbero essere raggiunti dagli Stati membri attraverso investimenti elevatissimi. E tuttavia il nuovo Patto di stabilità varato nella primavera del 2024 conserva anacronisticamente gli stessi vincoli posti all’indebitamento degli Stati membri all’epoca di Maastricht, apportando revisioni di facciata che non cambiano la sostanza delle cose. Ci si potrebbe illudere che il mantenimento di quei vincoli serva proprio a rendere inevitabile il ripetersi dello “stato d’eccezione” di un nuovo indebitamento comune europeo, come accadde con la pandemia. Ma l’ipotesi più plausibile – al pari dell’euro – è quella di un pregiudizio favorevole alla finanza privata: limitare il debito pubblico degli Stati vale a dirottare il risparmio sui grandi investitori privati, uno per tutti, il mega-fondo d’investimento francese Amundi. Lo schema sembra ricalcare il modello del c.d. Wall Street Consensus (D. Gabor) in cui il ruolo dello Stato si riduce a quello di garante degli investimenti privati in progetti destinati a servizi pubblici gestiti, però, secondo logiche di profitto. Anziché avere uno Stato (democratico) che, grazie all’imposizione progressiva e al debito pubblico con interessi calmierati da una Banca centrale, investe in servizi e infrastrutture da fornire ai cittadini al di fuori del mercato, abbiamo una finanza privata oligopolistica che, in parte o in toto, percepisce le tariffe pagate dagli utenti a seguito di investimenti a tutela dell’ambiente o del clima, la cui rischiosità è però garantita dagli Stati. […]

Il conflitto infra-generazionale non inter-generazionale

Il nuovo Patto di stabilità dell’UE non ha smentito le logiche dell’austerità e dello stigma del debito pubblico, che oggi continua a fondarsi sulla retorica del conflitto intergenerazionale (l’onere di cui verrebbero gravate le generazioni future) assieme a quella per cui l’eccesso di debito pubblico condurrebbe a un calo della crescita. L’esperienza italiana mostra piuttosto altro.

Il conflitto sotteso dall’indebitamento non è intergenerazionale, bensì infragenerazionale. All’origine dell’accumulo del debito pubblico italiano sta il disallineamento avutosi tra aumento della spesa sociale (a partire dai primi governi di centro-sinistra dell’inizio degli anni Sessanta del Secolo scorso) e (mancato) aumento delle entrate fiscali. Il ritardo nell’introdurre le riforme tributarie necessarie a finanziare in modo efficiente un moderno Stato sociale è stato colmato dal ricorso al debito pubblico. Per molti anni i pericoli derivanti dal ricorso al debito pubblico quale equivalente funzionale della tassazione sono stati esorcizzati grazie al potere del governo italiano di gestire, assieme alla Banca d’Italia, il servizio del debito in modo da calmierare il costo per gli interessi. In assenza di libera circolazione dei capitali e di assoluta indipendenza della Banca centrale, era possibile “costringere” i risparmiatori titolari di debito pubblico a cedere allo Stato una quota del loro risparmio investito nei titoli pubblici per via degli interessi reali negativi che lo Stato pagava loro. Un esito iniquo solo in apparenza, se si considera che, come per il resto del patrimonio privato, anche i titoli del debito pubblico sono concentrati in poche mani e che quella concentrazione di risparmio privato potrebbe essersi formata proprio a seguito della tolleranza dell’evasione fiscale e del mancato adeguamento della tassazione. Grazie a quel fenomeno apparentemente iniquo dei tassi d’interesse negativi sul debito pubblico, la collettività incarnata dallo Stato riusciva, più o meno surrettiziamente e in ritardo, a far contribuire alla spesa sociale coloro che erano restii a farsi tassare (forse in quanto restii agli stessi principi costituzionali dello Stato sociale e della progressività delle imposte). L’affrettato divorzio tra Banca d’Italia e Governo (1981) ha condotto all’esito regressivo dell’impennata degli interessi sul debito: la concentrazione dei titoli pubblici in poche mani faceva sì che i salariati pagassero con le imposte la rendita alla classe posta al vertice della piramide. I vincoli di Maastricht e la trasformazione di una parte cospicua del debito interno in debito esterno (grazie alla liberalizzazione dei capitali) avrebbero solo aggravato questo circuito regressivo. Quei vincoli addossarono (e addossano) l’onere della riduzione del debito prevalentemente sulle spalle dei salariati, ricorrendo al taglio della spesa sociale. Il debito esterno rese definitivamente preclusa la strada della c.d. repressione finanziaria attuata per il tramite della tassazione progressiva dei rentiers (A. Barba).

Il mito delle “occasioni mancate”

Per ciò che riguarda la correlazione tra debito pubblico elevato e bassa crescita, non è mai stato dimostrato l’autentico rapporto di causazione: la mancata diminuzione del rapporto tra debito e Pil potrebbe essere dovuto proprio alla bassa crescita italiana, a sua volta causata dalle politiche di austerità varate per l’ammissione all’euro e protratte fino a oggi (S. Cesaratto, G. Zezza; L. Baccaro, M. D’Antoni). Il messaggio che traspare da molte letture della giuspubblicistica italiana dell’indebitamento e dei vincoli interni ed esterni attivati per disciplinarlo è quello delle “mancate occasioni”, ossia, dell’incapacità di trovare nell’ordinamento nazionale gli strumenti per costringere e indirizzare significativamente la politica e le politiche pubbliche da questa prodotte. L’esito inevitabile è quello di sostituire al vincolo interno quello esterno. Questo approccio sembra attribuire un eccessivo ruolo alle regole e alle istituzioni, quasi a intravedervi un rapporto causale con il (buono e il) cattivo corso delle finanze pubbliche. Una visione alternativa con cui occorre confrontarsi è quella degli economisti meno omologati che ritengono che la stagnazione economica italiana sia imputabile al prematuro abbandono di un modello di crescita fondato sull’economia mista e il sostegno della domanda interna. Qui a contare davvero non è la prospettiva dei vincoli giuridico-costituzionali interni sulle decisioni di spesa e indebitamento e della loro mancata attivazione tempestiva, bensì proprio quella dei vincoli esterni ed europei, e della loro prematura attivazione. […]

[Andrea Guazzarotti, Debito e democrazia. Per una critica del vincolo esterno, Milano, Egea, 2024]

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