IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Declino dell’informazione e declino democratico

Mentre si accresce enormemente il nuovo Potere delle Big Tech e attorno al corpo a corpo tra umano e non umano si gioca una partita storica, la politica sembra travolta dall’astuto determinismo tecnologico. Il rischio è l'ulteriore declino del tessuto democratico.

Il villaggio italiano della comunicazione ha per lo meno la febbre, piuttosto alta e foriera di ulteriori malanni. Nella classifica annuale sul tasso di libertà (il Word Press FreedomIndex) stilata da Reporters sans frontières, siamo precipitati in un anno dal 41° al 58° posto. Pesano enormemente i vuoti normativi inerenti ad un sistema alquanto vecchio e concentrato, nonché privo di tutele per croniste e cronisti di fronte al ricorso crescente alle querele temerarie contro chi osa mettere il naso negli arcani del potere. Inoltre, disoccupazione e precariato danno il colpo di grazia.

Il declino non era un destino

Il declino non era scontato. Negli anni sessanta del secolo scorso l’Italia aveva una presenza assai significativa nell’elettromeccanica e i due centri ricerche di Torino della Rai e dell’allora Sip-Stet furono all’avanguardia nella sperimentazione dei satelliti e del digitale. Per non parlare del caso Olivetti, allora azienda di punta nei computer e nell’informatica.
La riprova viene dall’indice introdotto dalla Commissione europea nel 2014 per misurare i progressi dei paesi dell’Unione in materia (DIgital Economy and Society Index –DESI): siamo al 25esimo posto per l’utilizzo della banda larga fissa e terzultimi quanto a competenze. Il crollo delle vendite dei quotidiani è abnorme: dal 2008 ad oggi siamo passati da 6 milioni giornalieri a 1,2/1,3. Persino la televisione generalista è scesa tra il 2020 (c’era, ovviamente, il surplus del lockdown) e il 2022 da 24,4 milioni di audience a 17,8. Si è allargato il consumo cross mediale, è vero, Ma la tendenza prescinde dai device della fruizione.

Dentro le anomalie del caso italiano

Ma facciamo un passo indietro e cerchiamo di addentrarci nel caso italiano con le sue anomalie.
Lo studioso tedesco di scienze politiche Thomas Meyer (2003) parla di “mediatizzazione” della politica, introducendo – senza forse immaginare le conseguenze della sua premonizione- una categoria di analisi quanto mai pertinente per descrivere la situazione odierna.
Proprio nella stagione della radio e della televisione raggiunse la sua epifania il tema media and politics. Il sistema informativo, infatti, era pesantemente entrato nei riti e negli usi del consumo di massa, scrollandosi di dosso il suo sapore elitario. Dall’aristocrazia si passava direttamente alla piccola borghesia. Poi arrivammo direttamente ai populismi.
Una delle teorie sugli effetti dei media, rovello che ha sempre impegnato la communication research, fu non per caso quella cosiddetta ipodermica, coniata dal suo fondatore Harold Lasswell. Come con una puntura il messaggio entra sotto la pelle. La teoria degli anni quaranta del secolo scorso si attagliava agli stati d’eccezione, ma ne ritroveremo tracce – ad esempio- nella stagione dei videomessaggi di Silvio Berlusconi o del vessillifero Emilio Fede.
La medesima impostazione fu corretta (e sminuita), dalle ricerche dello statunitense Paul Lazarsfeld, mentre una compiuta diagnosi degli usi e gratificazioni dei cittadini-utenti fu offerta dai cultural studies nati e cresciuti negli anni sessanta in Gran Bretagna su impulso di Stuart Hall. Alla base degli studi culturali si ha l’encoding/decoding model. Hall individua tre tipi di decodifica: dominante (corrispondente al punto di vista egemone), oppositiva (frutto di un’opposta visione del mondo), negoziale (compromesso attraverso il conflitto). Come si vede, la comunicazione diviene un rapporto negoziale attraversato da lotte ed asperità.
Saranno gli approcci dell’agenda setting e dell’agenda building (secondo gli studi del compianto Mauro Wolf) a meglio chiarire il punto: la comunicazione (classica) non influisce in modo diretto sugli orientamenti delle persone, bensì sulla costruzione del clima e delle priorità. Del resto, lo vediamo tuttora nei grandi quotidiani o nella televisione generalista: un tema sale e scende secondo opportunità extra-mediali. Pensiamo alla pandemia prima e oggi alla guerra.
Naturalmente, stiamo parlando dei media analogici o di quelli digitali derivati a mo’ di copia conforme dai predecessori.
All’origine del declino italiano nei media sta, però, la combinazione tra diversi fenomeni almeno in parte peculiari: l’assenza di veri e propri editori puri; la concentrazione proprietaria figlia dell’assenza di regole reali, la persistenza dolosa dei conflitti di interessi, l’arretratezza delle culture tecnologiche, l’intreccio improprio tra politica e comunicazione.
Con l’offensiva congiunta di Fininvest-Mediaset e Forza Italia il contesto cambiò, fino a rovesciare l’ordine degli addendi: la comunicazione si fece politica e quest’ultima si acconciò ad una simbiosi subalterna con la comunicazione.
Il berlusconismo non è solo e tanto un fenomeno limitato alla sfera politica, bensì un modello di ibridazione tra i due livelli. I videomessaggi superano l’intermediazione giornalistica e costruiscono la relazione tra l’uno e la moltitudine che diventa via via uno stile e un criterio. Con numerosi seguaci e discepoli che oggi troviamo nei talk o nell’utilizzo capillare dei social.

La Plenitudine digitale

Ma, nel frattempo, è svanita anche la cornice stessa della modernità, per entrare nel territorio ambiguo che il condirettore del Wesley Media Center, Jay David Bolter (2020), chiama “Plenitudine digitale”, ovvero – secondo la sua descrizione- “un universo di prodotti (dai social media ai videogiochi, dalla tv al cinema, e così via) e pratiche (la realizzazione di tutti questi prodotti insieme al loro remix, condivisione e critica) tanto vasto e vario che non può essere descritto come un insieme coerente: la plenitudine accoglie facilmente, anzi ingloba, le forze contraddittorie della cultura alta e popolare, dei vecchi e dei nuovi media, delle opinioni sociali conservatrici e radicali. I media digitali oggi forniscono un ambiente ideale per questa pienezza. Per la nostra cultura mediale flat in cui ci sono molti punti focali ma nessun singolo centro”.
In verità, l’ambiente digitale non è un mero salto tecnologico, bensì una antropologia culturale, forse il vero avvio della post-modernità.
Ecco, l’Italia – al di là della posizione bassissima in Europa sulla diffusione della banda larga e ultralarga- sembra davvero in affanno, In declino, appunto.

Assenza di strategia e PNRR

La Rai non ha una strategia pubblica e l’ex monopolio delle telecomunicazioni Telecom rischia ora una crisi definitiva. L’ipotesi in corso di “rete unica” è gestita come una svendita, piuttosto che come un’effettiva opportunità.
Eppure, il Piano Nazionale di Rilancio e Resilienza (PNRR) destina al digitale (termine che ricorre 143 volte nel testo) cospicue cifre, più di 40 miliardi di Euro. Ma il quadro non sembra modificarsi se non nella superficie.
Gli algoritmi dominano le strutture di calcolo, moltiplicandole all’infinito. Big Data, profilazione divengono le parole magiche. Chi controlla? In verità, siamo una colonia dei cosiddetti Over The Top (da Apple, a Google, a Facebook, ad Amazon, a Microsoft) e persino il Cloud della pubblica amministrazione sarà gestito dagli oligarchi della rete.
La politica è trasmigrata nelle recenti modalità di comunicazione. Spesso acriticamente. E si accresce enormemente il nuovo Potere, quello delle Big Tech, i gruppi più ricchi e finanziarizzati del reame: vere meta-nazioni, con bilanci superiori a molti paesi occidentali.
Una costante delle varie ere mediali e post-mediali è stata ed è la scarsa cognizione di causa della politica.
In simile assenza si è insinuata la logica prepotente della sorveglianza di massa, descritta chiaramente dalla ormai notissima docente della Harvard Business School, Soshana Zuboff. Riconoscimenti facciali, costruzione controllata dei “gemelli digitali” sono entrati nella quotidianità.
Siamo, così appare almeno, all’apice di un processo che – come in una miscela tossica – ha assommato ignoranza e sottovalutazione, con maldestri tentativi di “occupare” i new media secondo i calchi precedenti.

Se la politica non torna grande

E già, perché la politica sembra aver abdicato alla proposizione di strategie adeguate. Smart working, smart cities, didattica a distanza meritano approfondimenti non transeunti, cercando di delineare comportamenti non effimeri, sorretti da visioni e pensieri lunghi.
Naturalmente, la prolungata assenza di regole aggiornate e adatte allo scenario digitale ha comportato inaudite fioriture di storture, mischiate ad atteggiamenti criminosi: dalle fake news, alla violenza simbolica, all’odio diffuso. E, in termini complessivi, sono cresciute ulteriormente le concentrazioni.
Mentre, attorno al corpo a corpo tra umano e non umano (robot, algoritmi, Intelligenza artificiale), si gioca una partita storica, nella quale servono creatività culturale e rinnovate culture giuridiche.
Insomma, se la politica non torna grande, non solo soccombe, ma si spegne travolta dall’astuto determinismo tecnologico. E le tecniche, senza una scienza democratica che le guidi e contenga, possono diventare pericolosissime. Ce l’hanno spiegato Norbert Wiener, Alan Turing o Marcello Cini.
Servono scelte forti e impegnative. Perché declina, altrimenti, il tessuto democratico.

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