Vent’anni fa, circa, Philip Roth scrisse un romanzo distopico, Il complotto contro l’America, nel quale raccontava una storia alternativa: il famoso aviatore Charles Lindbergh sconfigge alle elezioni presidenziali del 1940 il presidente Roosevelt. Il successo del candidato repubblicano si basa sulla proposta di dichiarare la neutralità degli Usa nel conflitto che intanto sta infuriando nel Vecchio continente. I paesi europei vengono così lasciati al loro destino, mentre l’America firma un’alleanza con la Germania nazista e il Giappone. Lindberg intraprende anche una stretta autoritaria e una politica di discriminazione razziale nei confronti degli ebrei americani. Il tutto sfocia in una guerra civile che apre la strada al ripristino della democrazia.
L’angolo morto della democrazia americana
Il romanzo descrive con toni accorati la persecuzione a cui il governo Lindbergh sottopone gli ebrei americani, ma ignora del tutto il trattamento che l’America di quegli anni riserva ai neri; che, non nella finzione letteraria ma nella realtà, subivano da alcuni decenni un feroce regime di apartheid. A cui negli anni Trenta e Quaranta si aggiungevano alcuni provvedimenti dell’amministrazione Roosevelt. Come la segregazione dei residenti in base alla razza, l’esclusione dai sussidi di disoccupazione e pensionistici e dai programmi per l’istruzione e il credito agevolato destinati ai veterani di guerra. È come se lo sguardo dello scrittore sia affetto da un gigantesco angolo morto, che non gli permette di dar conto, mentre prospetta l’avvento di una odiosa forma di discriminazione antisemita, del razzismo istituzionale di cui è impregnata la società americana. Ma lasciamo per il momento da parte questa curiosa incoerenza. Ci torneremo più avanti perché ci sarà utile per decifrare un’altra ottusità che caratterizza lo sguardo di molti intellettuali oggi.
Per il momento possiamo notare che l’immaginazione narrativa di Roth sembra anticipare quello che, agli occhi di molti europei, sta avvenendo negli Stati Uniti oggi: il tradimento da parte di molti americani dei valori su cui si basa la loro stessa società e nei quali si riconosce l’Europa. In questa chiave non è solo folclorismo politico la richiesta che il liberale francese Raphaël Glucksmann ha rivolto agli Stati Uniti affinché restituiscano la Statua della libertà. Sulla stampa mainstream e sui social si sprecano intanto i parallelismi tra Trump e Putin (il nuovo Hitler), presentati come due minacce parallele e convergenti alla democrazia. E all’autonomia del Vecchio continente. Il cui valore viene riscoperto ora, dopo decenni di subordinazione, anche in campo militare, alle strategie imposte dagli americani attraverso la Nato; ma non per inaugurare un nuovo orientamento, bensì per poter proseguire sulla strada tracciata dalle amministrazioni neoconservatrici e democratiche dopo la fine della guerra fredda. Da qui l’urgenza di dotarsi di una forza militare propria, senza peraltro disporre né di un potere politico riconosciuto e legittimato, né di una politica fiscale, né di una politica estera.
Una crisi inedita
Ciò che abbiamo di fronte è in effetti una crisi inedita nelle relazioni euroatlantiche. Paragonato con quello attuale, il precedente scontro tra gli Stati Uniti e alcuni dei paesi europei in occasione dell’invasione dell’Iraq letteralmente impallidisce. Anche perché, oggi, tra coloro che contestano apertamente la scelta americana di trattare con la Federazione russa la soluzione al conflitto in Ucraina ci sono pressoché tutti i paesi che fanno parte dell’Unione; tra questi l’Italia cerca ambiguamente di distinguersi. E, situazione davvero singolare, perfino il Regno Unito abbandona il tradizionale allineamento con i cugini d’oltre Atlantico e si propone, in barba alla Brexit, come membro effettivo e guida del consesso europeo. Come interpretare questi avvenimenti? Si tratta di una grave divergenza politica, destinata prima o poi a rientrare, o c’è qualcosa di più profondo?
Proviamo ad elencare i fatti. Pochi giorni dopo il clamoroso scontro tra Zelensky e Trump alla Casa Bianca, gli inglesi hanno avviato una frenetica attività finalizzata alla creazione di una coalizione di volenterosi per schierare truppe europee in Ucraina. Un’iniziativa che ha chiaramente l’intento di ostacolare le trattative per arrivare all’interruzione dei combattimenti e avviare un processo di pace. Contestualmente la Presidente della Commissione europea ha lanciato un programma di riarmo da 800 miliardi e il Parlamento tedesco uscente ha votato nel giro di pochi giorni una riforma costituzionale e un piano per il riarmo della Germania con risorse pressoché illimitate. Le dichiarazioni che hanno accompagnato queste iniziative insistono tutte sull’esigenza di fronteggiare una minaccia grave e immediata da parte della Federazione russa. Ma in realtà esse sottintendono che il pericolo vero è costituito dalle condotte della nuova amministrazione americana, che non garantirebbe più la difesa dell’Europa da un’eventuale aggressione. Tant’è vero che il presidente Macron ha dichiarato la sua disponibilità a utilizzare l’arsenale nucleare francese per difendere l’Europa, mentre la Polonia ha dichiarato l’intenzione di acquisire a sua volta l’arma nucleare e la volontà di costruire un esercito di ben 500 mila uomini. La stessa Polonia e i paesi baltici hanno deciso di ritirarsi dal trattato che vieta l’utilizzo delle mine antiuomo. Una ventata di panico senza precedenti sembra aver travolto le élites europee, che improvvisamente hanno scoperto di non poter contare più sulla protezione USA.
È come se all’improvviso fossero evaporati i centomila soldati americani di stanza nei paesi europei. E con essi fossero scomparse le centinaia di basi militari statunitensi, gli aeroplani, i sottomarini nucleari, le flotte nel Mediterraneo e nel Baltico, le bombe atomiche B61, consegnate dagli americani nella nuova versione B61-12 giusto due settimane fa. È come se fosse stato abrogato l’articolo 5 del trattato Nato e messo in soffitta tutto l’apparato di intelligence e di comando che ha affrontato con successo la guerra fredda contro un nemico ben più temibile della Russia odierna.
Fine dell’atlantismo?
Qualcosa non quadra, è evidente. Lasciamo stare l’attendibilità dell’allarme sull’imminenza di un attacco russo all’Europa. Anche ammettendo che Putin voglia scatenare un’invasione su larga scala, qualcuno pensa davvero che in questo caso gli americani lascerebbero fare, perdendo in questo modo sia il controllo delle rotte atlantiche sia il Mediterraneo, che costituiscono la chiave di volta della loro talassocrazia? Che cosa rimarrebbe del potere statunitense senza l’Europa? È chiaro che c’è dell’altro in questo improvviso collasso della fiducia tra le due sponde dell’Atlantico. Se le classi dirigenti europee reagiscono in questo modo ciò non dipende soltanto dalla gestione trumpiana della guerra in Ucraina. Basta leggere quello che ha scritto Mario Monti riferendosi al Presidente americano: “è lui ad aver scelto, per altri suoi obiettivi, di abdicare alla posizione di indiscussa leadership delle democrazia liberali, sentendosi più vicino ai regimi autocratici e considerando un inciampo lo stato di diritto”. Insomma, la scelta di ibernare la fallimentare guerra in Europa costituirebbe il primo ma decisivo passo verso la costituzione di un’alleanza tra regimi illiberali, alla quale gli Stati Uniti aderirebbero per affinità ideologica. Non solo: Trump e i suoi più importanti collaboratori – primo tra tutti Musk – stanno sostenendo i partiti della destra europea che insidiano le democrazie del Vecchio continente. C’è un elemento nella denuncia di questa collusione che non deve tuttavia sfuggire: le destre europee che vengono stigmatizzate per l’appoggio che ricevono da oltre oceano sono sempre quelle che hanno posizioni non allineate sulla guerra in Ucraina e sull’ostilità nei confronti della Russia.
Insomma, ciò che si teme da parte di molti osservatori europei è la formazione di un partito autocratico internazionale, costituito da movimenti, forze politiche e Stati, il cui scopo sarebbe quello di rovesciare le élites liberali e distruggere le società aperte europee. Le quali, legittimamente, dovrebbe ricorrere alla popperiana intolleranza verso gli intolleranti e alla forza, “in casi estremi”.
Sennonché questo allarme non è affatto inedito. Da molti anni, anzi, non si fa che leggere autorevoli ammonimenti nei confronti della debolezza che la democrazia mostrerebbe di fronte ai più svariati nemici. Interni ed esterni. Questi nemici possono di volta in volta essere i terroristi, i migranti o gli ambientalisti. In tutti i casi sono accusati di sfruttare le virtù della democrazia che, per potersi difendere, deve armarsi. Insomma, la democrazia o è in guerra o non è. Questa postura emergenziale e militarizzata ha prodotto nel tempo le più svariate pratiche repressive, di cui si trovano ampie tracce sia nella legislazione penale sia nella criminalizzazione del fenomeno migratorio. E che ha finito per spostare sempre più a destra l’asse politico.
Le posizioni ora richiamate hanno però un fondo di verità. Davvero la democrazia occidentale è debole ed esposta a rischi di involuzione autoritaria. Ma la causa di tutto ciò sta nel progetto che il neoliberalismo ha perseguito: la spoliticizzazione dei fenomeni sociali ed economici e la conseguente radicale passivizzazione della società. Eliminato il conflitto per garantire il comando alle oligarchie burocratiche e finanziarie, si è devitalizzata la democrazia. Che oggi viene guardata con apatico cinismo se non con ostilità da parte di quei settori della popolazione che hanno imparato a riconoscervi nulla più che un sistema di potere indifferente al loro destino.
La debolezza della democrazia ha qui la sua radice vera: nel non essere più vissuta come una pratica di libertà, di giustizia, di autonomia personale. Il che ovviamente la espone alle insidie autoritarie, a cominciare da quelle di chi non trova altro modo per fronteggiare la crisi di legittimazione che accentuare la verticalizzazione dei processi di governo, invocare logiche emergenziali e cercare di creare una mentalità di guerra contro il nemico di turno. Ricorrendo sempre più spesso alla menzogna e alla propaganda. Il che non fa che riattivare il circolo vizioso.
Ma la rappresentazione dello scontro tra le oligarchie delle due sponde dell’Atlantico non sarebbe compiuta se mancasse di considerare la versione americana.
Proviamo allora a riavvolgere il nastro degli avvenimenti per cercare di avere un quadro completo. Partendo dal discorso del Vicepresidente Vance alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco. È un testo che andrebbe letto integralmente, perché contiene a sua volta una clamorosa e violenta accusa di tradimento rivolta alle classi dirigente europee. Quale tradimento? Lo stesso che gli europei rivolgono agli Stati Uniti: quello nei confronti della democrazia e della libertà. Vance arriva a dire che la minaccia più grande nei confronti dell’Europa non è la Russia, non è la Cina, non è nessun altro attore esterno, bensì la stessa Europa che si sta ritirando “da alcuni dei suoi valori più fondamentali: valori condivisi con gli Stati Uniti d’America”. Per la verità, sostiene Vance rivolto ai suoi interlocutori, traditori non siete soltanto voi europei: anzi le azioni più gravi contro la democrazia sono quelle compiute proprio negli Stati Uniti da parte della amministrazione Biden. Ora però “c’è un nuovo sceriffo in città” (Trump) e la libertà verrà ripristinata. Tuttavia, se si guarda agli esempi di comportamenti antidemocratici con cui egli avvalora le sue accuse si nota agevolmente che essi si riferiscono alla repressione, reale o presunta, di opinioni e correnti politiche riconducibili alla destra nazionalista, al fondamentalismo religioso, al tradizionalismo etico ed etnico. Cioè alcune delle componenti basilari del brodo di cultura del trumpismo. In questo elenco non compaiono invece altri episodi, che pure avrebbero meritato una menzione. Come il divieto d’ingresso in Germania all’ex ministro greco Varoufakis e l’espulsione del rettore dell’Università di Glasgow, Abu Sittah, entrambi rei di denunciare il genocidio dei palestinesi. La perorazione di Vance in favore della libertà di parola e della democrazia appare ancora meno credibile alla luce della repressione delle opinioni sgradite da parte dell’amministrazione a cui si vanta di appartenere. Quella che si presenta a prima vista come una arringa in favore del pluralismo e della libertà di parola si rivela essere un discorso a senso unico, del tutto speculare rispetto ai comportamenti che a parole denuncia.
Sarebbe davvero molto stupido se, per odio o sfiducia nei confronti delle oligarchie europee, si prestasse ascolto alle sirene trumpiane. La risposta di Trump alla crisi sociale del suo paese è chiaramente regressiva. Con un supplemento di crudeltà esibita, come si vede dal trattamento riservato ai dissidenti pro-pal e agli irregolari. Forte con i deboli e debole con i forti, come nella migliore tradizione parafascista, Trump si trova a suo agio a trattare da pari a pari senza alcun imbarazzo con Putin, mentre deride in modo disumano la sofferenza dei gazawi.
Anche qui ci troviamo di fronte a un’idea della democrazia di guerra. I nemici sono in questo caso i fautori della mondializzazione, che ha distrutto non solo la struttura industriale americana, ma ha manomesso il tessuto connettivo dei valori tradizionali con le sue idee liberal e le sue avanguardie Woke. Aprendo con ciò la strada all’anomia e alla disgregazione sociale.
Anche in questa denuncia c’è del vero. Il malessere dell’America profonda non è solo il riflesso paranoico di una manica di redneck. Ma la risposta a questa tragedia richiederebbe un totale sovvertimento del potere delle oligarchie finanziarie e del modello di sviluppo e non, come invece vuole Trump, un avvicendamento nei suoi gruppi di potere. Mantenendo e addirittura accentuando la spinta predatoria nei confronti delle aree del mondo più esposte al ricatto americano.
La radici strutturali del conflitto
Che cosa ci dice questo scambio di accuse? Si tratta soltanto di un espediente retorico con il quale si cerca di conferire dignità ai conflitti di tipo geopolitico ed economico? Non credo. Certo, il conflitto interno al capitalismo finanziario americano e gli intenti aggressivi della fazione vincente legata a Trump sono molto seri e concreti. E ciò spiega le mosse che Draghi suggerisce per rifinanziarizzare l’Europa e far rinascere la manifattura bellica. Come sostiene giustamente Alessandro Volpi, il piano della Von der Leyen per il riarmo è anche un modo per gonfiare una nuova bolla finanziaria appetibile per le Big Three, che fanno parte dello schieramento del capitale finanziario americano legato al partito democratico, prima che le mosse dei vari David Sacks, Peter Thiel ed Elon Musk riescano a sgonfiare la bolla su cui hanno finora prosperato le Big Three. Per non parlare poi della guerra commerciale che gli americani minacciano contro le merci europee. Si tratta di novità importanti, che però non fanno che accentuare uno scontro avviato da tempo – con le politiche protezionistiche inaugurate da Obama e le misure introdotte da Biden per attrarre le industrie europee negli Usa; a tacere della sottomissione energetica dell’Europa ottenuta con la guerra in Ucraina – senza che però si generasse un conflitto ideologico. Pur in presenza di interessi obiettivamente divergenti, l’”Occidente collettivo” era riuscito a mantenere un bagaglio dottrinale e propagandistico abbastanza uniforme nel suo sforzo di preservare il primato e fronteggiare le conseguenze drammatiche, in termini economici ma anche sociali e umani, della finanziarizzazione e della deindustrializzazione. A loro volta generate dalla globalizzazione fondata sull’unilateralismo americano e dalla sua crisi.L’illusione che il libero commercio – peraltro mai esistito realmente – avrebbe unificato il mondo sotto l’egemonia occidentale e assicurato un nuovo secolo americano si è rovesciata infatti nel suo opposto, con l’emergere di nuovi protagonisti mondiali, a cominciare dalla Cina, che sfidano in molti campi il vecchio egemone. La strategia di contenimento di questi nuovi soggetti ha portato ad una sovra estensione della potenza americana, sempre meno compatibile con le fragilità strutturali della sua economia. Da ciò la prospettiva di un mondo multipolare. Che però non ineluttabilmente è un mondo pacifico. Né sarà necessariamente un mondo più capace di valorizzare le differenze culturali in un contesto di reciproca tolleranza. In assenza di un nuovo ordine economico che sani gli enormi squilibri esistenti e di una nuova architettura della sicurezza vi è il rischio invece che si vada in direzione di un crescente disordine e di nuovi conflitti.
La nemesi dell’unificazione occidentale del mondo
Trent’anni fa circa Samuel Huntington prevedeva che nel mondo multipolare del post-Guerra fredda le bandiere e gli altri simboli di identità culturale avrebbero avuto grande importanza. Egli immaginava appunto un’era multipolare dominata dallo scontro di civiltà. Quello a cui stiamo assistendo è però anche uno scontro nelle civiltà. I conflitti economici sono, come sempre del resto, innervati nelle strutture politiche e ideologiche. Per questo il conflitto di valori tra le due sponde dell’Atlantico è tutt’altro che un teatro retorico. Intanto, banalmente, perché, le due fazioni finanziarie che si fronteggiano sono strettamente legate alle fortune delle rispettive aree politiche. Le quali hanno ormai assunto una fisionomia transnazionale. All’internazionale liberal-globalista – che aveva fino a novembre scorso il suo fulcro nel partito democratico americano fortemente orientato in politica estera dal pensiero dei neoconservatori – si contrappone ormai un’internazionale liberal-nazionalista che ha il suo leader in Trump. È uno scontro anche di visioni del mondo che risultano sempre meno conciliabili. Uno scontro vero, dunque. Tanto più vero, paradossalmente, in quanto entrambe le fazioni partono dall’assunto di una democrazia in guerra contro un nemico interno-esterno, che sfrutta e distorce le libertà costituzionali e mina le basi della convivenza civile. E contro il quale è legittimo ricorrere ad ogni misura.
Non a caso la categoria della guerra civile (strisciante) viene da tempo impiegata per descrivere il conflitto ideale e politico che divide la società americana. Una divisione che sembra estendersi anche all’Europa. Ma la guerra civile è la guerra dei traditori. È la guerra dei fratelli che hanno rinnegato il fondamento della comune appartenenza a una comunità – sia esso etnico, religioso, culturale, politico – e conseguentemente non riconoscono più come valide le norme che ne regolano la vita. In una guerra civile tutti vengono trattati come traditori. Anche coloro i quali vorrebbero rimanere neutrali. In un certo senso è sempre una guerra di religione. Nella quale la rottura avviene rispetto ad un patrimonio di valori e di verità che entrambe le fazioni rivendicano. Come si vede benissimo negli esempi che abbiamo citato che si richiamano ai medesimi principi – la democrazia, la libertà – declinandoli però in sensi del tutto inconciliabili. Paradossalmente, la rottura non fa che evocare l’unità. Come perdita e come imperativo categorico. Da realizzare e da imporre all’ostinato rifiuto di riconoscere il bene. Per questo il nemico nella guerra civile è sempre hostis iniustus La guerra civile è perciò anche e soprattutto una guerra per l’identità. E quindi anche una guerra per la memoria e per il controllo dell’educazione. Quando una comunità civile si spezza si spezzano anche le istituzioni, si formano più statualità, che reclamano in esclusiva la legittimità. Come abbiamo visto ad esempio in occasione dell’assalto a Capitol Hill. Questo vale sia nel caso di un conflitto armato, sia nel caso, che in genere lo precede e lo prepara, di uno scontro ideologico e propagandistico.
Quella che abbiamo di fronte è una sorta di guerra civile nel campo liberale, prodotta dall’acutizzazione e dall’allargamento del conflitto economico, politico e ideologico all’interno delle elité globali che si trovano a fronteggiare gli esiti della crisi della globalizzazione capitalistica fondata sull’unilateralismo americano e il primato delle società occidentali. L’emergere di un mondo multipolare, nel quale declina il primato occidentale, sta generando infatti una frattura sempre più profonda nei legami sociali e nell’identità civile. In una sorta di paradossale nemesi, il progetto dell’unificazione occidentale del mondo si rovescia in una profonda spaccatura culturale dell’Occidente.
La guerra civile, infine, non è quasi mai una guerra circoscritta all’interno di una comunità, ma è quasi sempre collegata ad un conflitto più ampio, che chiama in causa forze esterne che sostengono l’una o l’altra fazione. È quasi sempre una guerra interna e internazionale, tra schieramenti ideologicamente e politicamente omogenei. Anche se non sempre allineati. Qualcosa di simile sta con ogni probabilità succedendo ora tra le due sponde dell’Atlantico. Le élites europee, specie quelle inglesi, non stanno agendo in modo del tutto autonomo dalle sollecitazioni che provengono dagli apparati del Deep State americano minacciati dalla nuova amministrazione. D’altra parte, la morte cerebrale del partito democratico concede al nuovo Presidente americano un ampio margine d’azione in patria; e se si escludono le mosse di alcuni poteri giudiziari americani, la vera resistenza a Trump è quella della componente europea dello schieramento liberale-globalista.
È possibile, tuttavia, che questo conflitto ideologico lasci spazio per tregue e compromessi. D’altra parte, ci sono molte concrete ragioni che militano a favore di questa ipotesi. E avendo fatto del pragmatismo e dell’opportunismo morale dei feticci ideologici, come dimostrano ampiamente i doppi standard e la sistematica violazione del diritto internazionale, le classi dirigenti neoliberali potrebbero benissimo scoprire più conveniente un approccio meno esasperato.
Ancora un lato oscuro
L’aspetto più paradossale di questa situazione è però rappresentato dal fatto che nessuno dei due schieramenti riesce a vedere il proprio lato oscuro. Come nel romanzo di Roth che non vede il razzismo realizzato nella società democratica e paventa solo quello potenziale importato con il nazismo, oggi la minaccia interna alla libertà viene attribuita all’altro campo. La fede cieca nella verità della democrazia di guerra impedisce di vedere che in nome delle esigenze di sicurezza, di una crescente intolleranza nei confronti del pluralismo politico e culturale, e del permanere di un diffuso suprematismo culturale e antropologico, molte società occidentali stanno da tempo introducendo limitazioni alla libera organizzazione ed espressione del pensiero, attraverso una sempre maggiore violazione dei principi dello Stato di diritto.
Trump e i suoi seguaci europei spingeranno questo processo verso gli esiti più estremi. Ma ciò non può impedire di vedere come quella strada sia stata aperta e percorsa molto prima dell’avvento del trumpismo.