È possibile uscire dalle chiusure asfissianti solo accettando il rischio di ferirsi e di sporcarsi, permettendo alle nostre asfittiche sicurezze di confrontarsi con la realtà che richiede di essere ascoltata e messa in forma. C’è un tempo per morire e un tempo per risorgere, insegna un Cristo umano, storico, quando rivolgendosi ai discepoli ricorda loro che «chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita (…) la salverà». Far morire tutto ciò che è angusto, velleitario, senza prospettive. Per rinascere autenticamente.
“Morire per risorgere”. Al contrario, Von der Leyen pretende di “rinascere” – via (forse) guerra commerciale agli Usa – senza prima “morire”. L’Unione sta facendo ciò che sa fare meglio, fuggire in avanti con operazioni di marketing. A partire dal ReArm Europe, simbolo dell’assenza di una politica di difesa europea, come scrive il costituzionalista spagnolo Francisco Balaguer Callejón (“Aziende tecnologiche e politica, da Zuckerberg a Musk”). E questo proprio mentre un inconsapevole Donald Trump offre all’Unione la straordinaria opportunità di mettersi alle spalle lo sciagurato modello di crescita degli ultimi decenni fondato esclusivamente sulle esportazioni, sulla compressione dei salari e dei consumi, sulla destrutturazione dello Stato sociale (Gabriele Guzzi).
E invece no. Non c’è più tempo, dicono da settimane. L’importante è agire, rapidamente. Mister Draghi si è spinto fino ad affermare che non è essenziale sapere cosa fare, l’importante è fare qualcosa. Subito. Esageriamo? No. Si legga con attenzione il suo intervento, si leggano le dichiarazioni delle più alte cariche dell’UE e si ritrovano gli stessi retorici toni allarmati e la stessa retorica urgenza. Si continua, anzi, ad alimentare una narrazione auto-assolutoria, che riguarda non solo il passato remoto (coloniale) e prossimo (neocoloniale), ma anche gli esiti del progetto europeo dopo Maastricht.
Allora, alla fine della guerra fredda, prevalse l’astorica l’idea che si fosse di fronte alla possibilità di omologare a sé, tramite l’espansione del doux commerce, il resto dell’umanità. Salvo scoprire ben presto che la “storia non era affatto finita” e che l’unificazione irenica dell’umanità stava producendo esiti del tutto opposti, a cominciare dal riemergere di spinte e rotture identitarie e oggi persino di una potenziale “guerra civile” all’interno del campo Occidentale.
C’è, qualcosa di “primitivo” negli oblii delle classi dirigenti dell’Unione, nelle loro “prese di posizione”, nella spregiudicata improvvisazione che le caratterizza. D’altronde, anche “prestigiosi” intellettuali hanno dato vita nelle scorse settimane a manifestazioni pre-politiche il cui unico scopo era quello di “dare sfogo alle nostre frustrazioni”. Salvo poi servilmente affidare all’establishment economico-finanziario che ci ha portato all’attuale disastro la decisione sulla direzione da intraprendere, con il probabile ritorno delle politiche di austerità di cui ci parla Ilenia Massa Pinto (“Chi è il nemico?”)
“Morire per risorgere”. Noi restiamo fedeli al compito che ci siamo dati: comprendere le ragioni profonde dei conflitti in atto, le loro radici storiche, economiche e culturali. Senza questo sforzo di analisi ogni programma mancherebbe di vero realismo. Non il “regno di Utopia”, non è risorgere dalle proprie ceneri come l’araba fenice, ma un partire dalla Storia con la S Maiuscola e dalla Politica con la P Maiuscola. L’Europa della quale parliamo “da sempre” nel nostro web magazine, sin dal numero zero del marzo 2022. “Morire per risorgere”. Sulla base di un “programma fondamentale” fatto di pochi, inequivocabili, non negoziabili, punti.
Il primo di questi è che oggi non si può rispondere all’inedita crisi delle relazioni euroatlantiche dotandosi, comechessia, di forza militare, senza prima disporre di un potere politico riconosciuto e legittimato dai popoli europei, senza disporre di un’autonoma politica fiscale, senza disporre di una politica estera che parli di tutto e con tutto il mondo. Chi lo propone, ignora – ricorda Donato Caporalini (“Democrazia di guerra”) – la profondità di ciò che sta accadendo. Una guerra di civiltà entro il campo occidentale alimentata dall’acutizzazione del conflitto economico e ideologico tra le élite globali, una sorta di estensione all’Europa della strisciante guerra civile americana: una guerra economica e tecnologica, già avviata dalle precedenti amministrazioni, per imporre i costi del risanamento dell’economia USA al resto del mondo.
Il secondo punto è un fondamentale punto di verità, limpidamente evidenziato da Alessandro Volpi (“La nuova bolla finanziaria del riarmo”). L’attuale piano di riarmo europeo finanzierà ben poco l’economia europea. Oltre la metà delle annunciate polizze, conti deposito, cartolarizzazioni, riduzioni fiscali si tradurranno in acquisti di armi prodotte negli Usa. La nuova economia e società di guerra violenterà il Welfare europeo e alimenterà odi nazionalistici destinati a distruggere ulteriormente il già compromesso senso di convivenza collettiva.
Il terzo fondamentale punto è come rispondere nel breve, nel medio e nel lungo periodo alle velleitarie e, tuttavia, quantomai distruttive pretese di dominio della globalizzazione avanzate dall’America di Donald Trump. Ne ha già parlato nel numero 25 di fuoricollana l’ex ambasciatore italiano in Cina Alberto Bradanini (https://fuoricollana.it/lalba-di-un-nuovo-equilibrio-globale/). Ne parlano i contributi di Vincenzo Comito (“L’Unione contro tutti, l’Unione contro sé stessa”) e di Federico Losurdo (“La mossa del cavallo, aprire ai Brics”) Aprire strategicamente alla Cina e ai Brics, negoziare da subito con Pechino un trattato su commercio e investimenti. E poi, urgenza delle urgenze, aprire un nuovo e diverso rapporto con la Russia – l’altra parte dell’Europa, larga parte dei nostri intellettuali lo ha sciaguratamente dimenticato – sul tema della sicurezza e della cooperazione. Tutto il resto è noia. Peggio, complicità (Antonio Cantaro, “L’Europa ieri, oggi domani”).
Sappiamo bene che il nostro “programma fondamentale” non è dietro l’angolo. E, tuttavia, è quello suggerito dal buon senso e da chi coltiva ancora un sano principio di realtà. È questo l’orizzonte sul quale continueremo a lavorare e sul quale chiediamo ai nostri collaboratori e lettori di intervenire nei prossimi numeri. Il tempo stringe. Gli altri – non solo il Padrino, Donald Trump – non stanno ad aspettarci. Non è scritto in nessuna tavola della legge che il mondo abbia ancora eternamente bisogno di noi. Una Storia senza l’Europa non è più una prospettiva remota. È sempre più attuale la constatazione dei ragazzi tunisini delle primavere arabe. L’Europa sta invecchiando, un’evidenza demografica. E sta invecchiando male, aggiungevano quei ragazzi.
L’identità europea, a cui impropriamente si appellano le attuali classi dirigenti, è stretta in un nodo di contraddizioni da cui è impossibile venire a capo senza assumerle nella loro interezza. Senza preservare una memoria autentica che non può essere quella caricaturale e strumentale di tante, troppe, sciagurate delibere delle istituzioni dell’Unione.
La memoria come rimozione della storia, la memoria in funzione dell’oblio. Un paradosso presente già all’inizio del processo di integrazione europea e che ha conosciuto nell’ultimo decennio e dopo l’esplosione del conflitto russo-ucraino un’ulteriore pericolosa escalation. Chi gioca con la storia avvelena anche Te che in questo momento ci stai leggendo. Digli di smettere. Noi continueremo, testardamente, a farlo. Faremo quel che si deve qui ed ora, poi accada quel che può. In doveroso e non formale omaggio a quell’ethos illuministico aborrito da Trump e dimenticato dalle attuali classi dirigenti dell’Ue.