IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Forme del declino. Da Draghi al draghismo

Il declino italiano è il tema apparentemente inattuale di questo numero quattro di fuoricollana.it. Da qualche tempo non se ne occupa più (quasi) nessuno. Un’ottima ragione, dunque, per parlarne. Non tanto per andare in direzione ostinatamente contraria al dilagante sentimento collettivo (questo, lo sanno bene i nostri lettori, è nel nostro Dna), quanto per capire le ragioni di questa sciagurata rimozione. La principale delle quali porta oggi il nome di un anestetico, draghismo, neologismo entrato a pieno diritto nei dizionari della lingua italiana. Già nel 2021, l’Enciclopedia Treccani gli dedicava una voce, magnificandone «la natura terzista, la sua tendenza a muoversi in uno spazio centrale tra i due schieramenti» e a incarnare i valori della buona borghesia (europeismo illuminato, acritica fede nelle virtù delle competenze, del merito, dell’innovazione; e naturalmente del mercato). Ma il Governo Draghi, nato ufficialmente per far uscire il “bel Paese” dall’emergenza pandemica ed economica (con risultati che si stanno rivelando assai modesti su entrambi i fronti), sta diventando qualcosa di più inquietante. L’icona, al di là di quello che sarà il destino personale dell’attuale Premier, di un “partito trasversale” senza radicamento sociale nelle classi popolari e senza progetto etico-politico, se non quello inquietante dell’“io speriamo che me la cavo”. Da Draghi al draghismo, un moltiplicatore del declino della nazione, a dispetto dell’applauso all’unisono riservato al “Salvatore della Patria” dai media e dalla politica già da prima che il Presidente della Repubblica imponesse al Parlamento, con un ardito gioco di prestigio costituzionale, la nomina del supertecnico a premier.

La storia di Draghi si presta bene a questo progetto. Supermario, come ha ricordato il giornalista inglese Ben Judah in un lungo, gustoso e corrosivo articolo di qualche tempo fa, si è fatto a Roma. Non la città da vecchi che è oggi, ma quella del miracolo economico, delle agitazioni del mondo del lavoro, dell’ascesa del partito comunista e delle gioie della gioventù. Ma mentre la sua generazione era ribelle, Draghi era mansueto e gravato dalle responsabilità, un outsider nel maggio del ’68. E impara presto la prima lezione della politica italiana: trovare sempre il mentore giusto. Il suo è il keynesiano Federico Caffè che lo presenta a Franco Modigliani, l’economista italiano del MIT che lo accetta come studente. Ma doveva ancora completare la sua tesi. Era sulla moneta unica e conclusi che la moneta unica era una follia, ha detto Draghi, in un evento in onore del suo mentore. Tuttavia, a differenza dei suoi mentori, l’economia di Draghi non si è mai fissata in una teoria. A 40 anni era ormai un direttore della Banca Mondiale. E nel febbraio 1992, è a Maastricht quando nasce l’euro, consigliere chiave di Giulio Andreotti. Gli italiani partono con condizioni così dure che sorprendono persino i tedeschi. La decisione di firmare è sua, uno dei due italiani con l’autorità finale sulla valutazione dei termini. Aveva consigliato al primo ministro di procedere con quella che nella sua tesi considerava una “follia”, un’unione monetaria senza un’unione politica ed economica. Perché? Perché la sua visione neoliberale e “depoliticizzante” contemplava la possibilità di una decadenza della nazione, della sua autonomia, della sua democrazia.

A capo del Tesoro dal 1991, è qui che il giovane funzionario aveva già fatto tutto il necessario: regolare le banche italiane, gestire il debito e privatizzare oltre 100 miliardi di euro. Non c’era scuola migliore di Roma per la politica dell’euro, era già un gioco per politici deboli e tecnocrati potenti. Un quadro astratto italiano è appeso, ricorda Ben Judah, sopra la sua scrivania al Palazzo delle Finanze. Nel frattempo fuori, la “prima Repubblica” cade a pezzi. A tenere insieme il paese i tecnici finanziari guidati dal primo ministro tecnocratico del Paese, Carlo Azeglio Ciampi. Draghi è perfettamente a suo agio. L’adesione all’euro alloca le leve fondamentali della macroeconomia (le politiche fiscali e monetarie) al di là della politica interna. Ed invero l’Italia, grazie a questo nuovo vincolo esterno, sembra veramente nei primi anni novanta andare bene. La sua economia è più grande di quella della Gran Bretagna; gli standard di vita si avvicinano a quelli tedeschi. Il vino toscano soppianta quello francese negli Usa, mentre Gucci e Prada vanno alla conquista del mondo.

Nel 2002, Draghi è vicepresidente di Goldman Sachs. Berlusconi, è di nuovo premier dal 2001. E allora? E allora niente. Ingabbiate dal vincolo europeo, le mani di Berlusconi sono lontane dalle vere leve del potere. L’Italia aveva accumulato un grande debito nazionale negli anni ’80 a causa degli alti interessi che aveva imposto anche per abbassare l’inflazione. L’imminente boom lo avrebbe sicuramente eroso e trasformato i banchieri centrali da tecnici regolatori del capitalismo in gestori politici di crisi. Draghi, si unisce a questi nuovi Superman. Prima uno scandalo di corruzione gli apre le porte come governatore della Banca d’Italia. Di lì a poco, il capo della Bundesbank, da tempo atteso come successore del francese Jean-Claude Trichet alla guida della BCE, si dimette. Con Berlino senza un candidato, il posto alla BCE si apre per un altro banchiere centrale di un grande stato. Draghi supera le diffidenze tedesche e ne ottiene nel giugno 2011 la guida. Aiuterà Berlino a inserire l’austerità nel cuore dell’UE. Nell’agosto firma una lettera segreta al governo italiano che sollecita tagli e riforme del lavoro. Roma è inorridita, Berlino è contenta. Segnalando che Francoforte è pronta a mettere la sua liquidità solo dietro un certo tipo di politica, apre la porta alla sostituzione di Berlusconi con un governo tecnocratico. A Francoforte, Draghi padroneggia pienamente le tre forme del potere unionista: il carismatico (la politica della persuasione) con cui rivendica il ruolo della Bce; il tecnico (la politica delle regole) con cui sarebbe diventato l’esecutore dell’UE in Grecia; l’analitico (la politica dei numeri) con cui avrebbe vinto la battaglia per guidare i flussi di capitale con il quantitative easing.

È questo il fascino della Draghipolitik, condensata nella celebre frase pronunciata mentre gli investitori scommettevano contro l’euro, quando Draghi, guardando in faccia le telecamere, “convince” i mercati a muoversi nella direzione opposta: «All’interno del nostro mandato la BCE è pronta a fare tutto il necessario, whatever it takes, per preservare l’euro. E credetemi, sarà sufficiente». Quei sedici secondi, si è detto, contengono tutto. «Se ascoltate attentamente, prima c’è il tecnocrate. Lui dice: all’interno del nostro mandato. Poi, c’è il politico, qualunque cosa sia necessaria. E dopo, c’è l’autorità carismatica, e credetemi, sarà sufficiente». Il giorno dopo Hollande e Merkel hanno confermato. Aveva aperto la strada alla BCE per sostenere i mercati del debito sovrano. La sua autorità carismatica aveva convinto i mercati che dietro l’euro c’era il potere. Usando il minimo indispensabile. Ma fare il minimo indispensabile per garantire la stabilità, non è fare ciò che è necessario per crescere. Per tutta la vita, è la tagliente conclusione di Ben Judah, le scommesse personali di Draghi hanno pagato. Ma vista dall’Italia, la scommessa più grande, fare agire il vincolo esterno per arginare il declino, è fallita. È fallita la componente geopolitica: non ha aiutato a gestire la potenza tedesca. È fallita la componente economica: l’Italia ha mantenuto uno dei regimi fiscali più duri, con un avanzo primario quasi ogni anno dal 1995 mentre il paese diventava sempre più povero. Nel 2000, il suo tenore di vita medio era il 98,6% di quello tedesco. Oggi, il reddito pro capite italiano è del 20 per cento inferiore a quello d’oltralpe. Sono le conseguenze dell’austerità, dell’euro che rende le esportazioni non competitive. Il debito pubblico ha continuato a crescere, “la lunga scivolata”, secondo la felice immagine di Giorgio Rodano che apre questo nostro numero, non si è arrestata. Altro che “austerità espansiva” di montiana memoria. L’Italia è un paese per vecchi. L’industria italiana, il calcio italiano, il cinema italiano sono in declino. Una generazione intera di italiani ambiziosi è tornata ad emigrare o a lavorare, ancora peggio, in smart working al servizio di grandi imprese multinazionali.

Da “pensionato” Draghi si è (quasi) subito offerto alla politica italiana (e a medio termine a quella europea), rappresentando sé stesso come soluzione al problema che lo stesso vincolo esterno ha alimentato e alla sfida della drammatica caduta del Pil determinato dalla pandemia. Ancora una volta una politica debole che avendo da tempo ‘dismesso’ gli strumenti e le ricette per far ripartire la crescita si è mostrata felice di poterlo usare delegandogli le riforme per far ripartire il Paese (il PNRR e la politica di bilancio), mentre nel contempo essa si dedicava a velleitarie e propagandistiche “politiche dell’identità” che giungeranno al loro culmine quanto più le elezioni del 2023 si avvicineranno. Il draghismo della (quasi) totalità della politica è un mix di rassegnata e miserabile accettazione che “there is no alternative” al declino e allo svuotamento, in primis, della democrazia rappresentativa. Una democrazia pilotata da élite potenziate con elettori alienati, come evocato nei contributi di Michele Prospero e di Isidoro Mortellaro. Un ulteriore vincolo, una sorta di vincolo interno auto-imposto per, andreottianamente, “tirare a campare”. Nella speranza, nell’illusione, che l’allineamento del draghismo alla Bidenomics e la postura atlantica di Governo, Parlamento e sistema mediatico verranno ricompensati dall’“amico americano”. Con il cappello in mano. Nella lotta tra due imperialismi l’Italia ha scelto quello statunitense, introducendo pesanti sanzioni che penalizzano marginalmente la Russia e massacrano ampi settori della sua economia. Ultima tappa, al momento, del declino italiano.

Con questa servile rassegnazione non flirta nessuno dei contributi contenuti in questo numero. Le forme del declino italiano vengono esaminate spietatamente e da diverse prospettive (da Vincenzo Comito, da Andrea Guazzarotti e Federico Losurdo, da Vincenzo Vita, da Tommaso Montanari, da Alessandro Montebugnoli), ma nella comune convinzione che non siamo di fronte ad un destino ineluttabile. Quando tutto pare perduto, bisogna rimettersi all’opera, ricominciando dall’inizio. Nessuna concessione ad un rassegnato e qualunquistico declinismo e catastrofismo. O, all’opposto, ad un preconcetto e supponente anti declinismo e anti catastrofismo. Questo numero nasce da un sentimento autenticamente gramsciano, dalla profonda insoddisfazione per come la sfida del declino (non solo italiano) è usualmente rappresentata dalla storiografia, dalla letteratura specialistica (non solo quella economica), dalla pubblicistica corrente. È, in questo senso, un “discorso contro” le spiegazioni unilaterali, mono causali, fenomenologiche, della “lunga scivolata” del nostro Paese. Ma vuol essere, allo stesso tempo, un “discorso per”. Un discorso che ambisce a fornire una visione d’insieme, collocando la lunga scivolata nella più generale “stagnazione secolare” della civiltà occidentale, una stagnazione non solo economica. Per coglierne le specificità (esiste un caso italiano) ma anche per sottolinearne i nessi con un processo più universale (la neoliberale modernizzazione senza civilizzazione). È il nostro specifico e provvisorio contributo (altri numeri seguiranno) tanto alla comprensione del circolo virtuoso che nel primo trentennio ha caratterizzato, sia pur tra formidabili ostacoli e progetti di restaurazione, la vita della Repubblica, quanto alla comprensione del circolo vizioso in cui questa è precipitata nel secondo trentennio della sua storia. Con il fine dichiarato di invertire la rotta. Rinascita e declino, con l’auspicio che una seconda Rinascita, all’insegna del programma fondamentale della società italiana, la Costituzione Repubblicana, è alla portata del nostro Paese. Pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà, ancora una volta.

Il tema del declino italiano non è, invero, nuovo; è una costante della storia nazionale, dell’immagine del “bel Paese”. In Patria e all’estero. A partire dal XVII secolo, quando i Paesi Bassi settentrionali e l’Inghilterra svilupparono le loro attività manifatturiere e armatoriali su scala e con metodi nuovi e i loro prodotti si affermarono sul mercato internazionale (come nitidamente emerge dalla lezione d’autore di Braudel). Allora l’Italia grazie a una favorevole congiuntura riuscì a mascherare i suoi problemi, benché stesse slittando da una posizione di avanguardia a una di marginalità. I prodotti italiani non riuscivano più ad essere competitivi, né sui mercati internazionali né su quelli domestici. E la nostra Penisola, da primaria potenza economica, da culla del logos economico-mercantile, divenne per molti secoli un Paese poverissimo a causa dello spostamento del centro dell’economia-mondo dal Mediterraneo al nord dell’Europa. L’uso strumentale, al limite del caricaturale, di questa perspicua ricostruzione sulla fine del primato italiano e del nostro “lungo Seicento” è parte del problema che abbiamo di fronte. Coloro che, con banale regolarità, colgono nelle parole del grande storico dell’economia Carlo Maria Cipolla un severo monito per il presente lo fanno, troppo spesso, per sublimare le ricette neoliberali, il globalismo neoliberale. Per perorare la tesi che c’è un solo modo per contrastare gli ultimi quarant’anni di stagnazione e un tasso di crescita medio annuo tra i più bassi al mondo: colmare il gap di produttività del nostro sistema economico a danno dei salari, del lavoro, delle sue tutele. La chiamano pomposamente e retoricamente innovazione, salvo dover periodicamente registrare che il declino si perpetua e si aggrava di decennio in decennio, se non di anno in anno. Anche perché vengono completamente obliterate le pesanti responsabilità delle élite illuminate: dalla distruzione della grande industria e della pubblica amministrazione al mancato sostegno alla Ricerca e Sviluppo e al trasferimento delle innovazioni tecnologiche alle PMI (Colpe che, invece, sono lucidamente indicate nelle lezioni d’autore di Barca, De Cecco e Gallino). E alla stessa sorte – temiamo di essere facili profeti – andrà incontro quel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza che dai suoi fautori ed estensori è stato negli scorsi mesi rappresentato come l’ultima salvifica occasione per arrestare il declino e riesumare il mitico periodo del “miracolo economico” degli anni cinquanta e sessanta dello scorso secolo (in nome ovviamente delle generazioni future, mentre le condizioni dei giovani di oggi e le loro prospettive continuano a declinare inesorabilmente).

Non meno unilaterale del paradigma tecnocratico-economicistico è il paradigma moralistico-culturale. L’idea, altrettanto diffusa, di una risalente e incurabile decadenza morale degli italiani, ontologicamente refrattari, per abitudini, mentalità, carattere, ad assumersi la responsabilità delle proprie scelte. Un popolo non soddisfatto della propria vita, che ne desidera una nuova dove le cose funzionino per bene, che vuole vivere meglio, e vuole vivere meglio ora, senza mai mettersi in discussione, senza mai ammettere di aver cercato scorciatoie. Un popolo accusato di voler la moglie ubriaca e la botte piena, di privilegiare la soddisfazione immediata a discapito di quella a lungo termine che richiede sforzi e fatica, nell’illusione che l’unica spinta motrice della nostra economia e della nostra società possa essere l’inerzia.
C’è, infine, una terza interpretazione del declino, più articolata e raffinata, fautrice di una sorta di sintesi tra il paradigma tecnocratico-economicistico e il paradigma moralistico-culturale. Una interpretazione lato sensu repubblicana che imputa l’origine del declino alla mancata modernizzazione delle nostre istituzioni statali e pubbliche, al torpore conservatore di una classe dirigente incapace di adeguarsi alle trasformazioni di un mondo globalizzato che reclama più ricerca e sviluppo, meno educazione e più capitale umano, ed esige a tal fine che le nazioni si liberino delle cosiddette istituzioni estrattive, dai vincoli soffocanti di una burocrazia pesante e vischiosa, della corruzione, del malaffare, dalla giustizia lenta e farraginosa, dall’evasione fiscale di massa. Insomma, una schumpeteriana “distruzione creatrice” che ponga fine al divario tra regole scritte e regole effettive, all’assenza di una sfera pubblica vitale in grado di far sì che le ragioni difensive delle masse, individualmente razionali, non prevalgano sull’interesse comune e collettivo e comprimano così le potenzialità di crescita della società nel suo insieme in direzione di un superiore equilibrio affidato ad illuminate élite, meglio se non elette dal popolo.

I limiti e le ambiguità ‘politico-ideologiche’ delle tre interpretazioni richiamate non devono far velo sul fatto che esse ci consegnano comunque la convinzione, da noi condivisa, che il declino non è un destino inevitabile. Non esiste, tuttavia, un unico punto di Archimede su cui appoggiarsi per “cambiare il mondo”. È il nesso tra le diverse istituzioni pubbliche, private, dell’economia e della società civile, investite dal declino che esige di essere primariamente e pazientemente indagato ed esaminato. L’Italia è in queste settimane a secco, letteralmente (non solo a causa del mutamento climatico ma anche a causa della drammatica carenza di infrastrutture adeguate). Interrogarsi sulle origini, lontane e vicine, del suo declino, è un dovere nazionale, repubblicano, democratico. Ed è anche il modo migliore per mettere con i piedi per terra la discussione sul perché e come stare in Europa e in Occidente. Certamente non con Erdogan, il Pinochet del Bosforo. Buona lettura con questo numero doppio di fuoricollana.it particolarmente denso e corposo. E, naturalmente, buone vacanze!

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