IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Guerra e pace in Grozio di Carlo Galli

Nella prefazione a "Il diritto di guerra e di pace" Galli scrive che per Grozio la guerra è un'ombra che trae senso dalla luce della ragione e le dà occasione di rifulgere. Grozio è lontano dal concetto tradizionale di «guerra giusta», dalla persecuzione del nemico in nome della verità del vincitore.

Un rimedio giuridico senza nemico assoluto

«La guerra, a cui è dedicato il libro terzo, non è una smentita della razionalità giuridica universale: non solo non è incompatibile con la religione cristiana ( tesi che Grozio condivide con la tradizione e con la seconda scolastica) ma non lo è neppure col diritto naturale, non è un interruzione della razionalità dell’ umana convivenza, non è un’eccezione: è anzi un indicatore e al contempo un regolatore degli squilibri di questo universale sistema di equilibrio pluralistici, dinamici e plastici. È un’ombra, un’opacità, che trae senso dalla luce della ragione, e che la inquieta senza negarla e anzi le dà occasione di rifulgere, almeno transitoriamente – in un chiaroscuro barocco dai toni non radicalmente drammatici -. Dove non ci sono tribunali a cui ricorrere, tanto i privati quanto le comunità, quando i loro diritti esistenziali e proprietari ( minuziosamente descritti nel secondo libro) sono violati cercano giustizia nel conflitto, tutt’altro che metaforico ( e anzi non privo di crudezza) eppure inidoneo a sfondare la trama razionale giuridica dell’essere sociale, e anzi tendenzialmente riparatore, almeno temporaneamente, delle sue smagliature. La guerra è immersa nel diritto: non è un atto «giustificabile» in base a criteri astratti ed esterni di giustizia, ma è potenzialmente operatrice di giustizia – il chi ha scatenato anche contro Grozio l’ira del Kant della Pace perpetua -. Non si tratta di cinismo, ma della fiducia nella capacità umana di adeguarsi alla trama giuridica dell’essere sociale. La guerra non è estrema né estremistica: è un istituto giuridico centrale. Non si trova in Grozio il nemico assoluto, che invece è presente in Vitoria – la potenza turco-islamica -, anche se per lui è lecita la guerra punitiva contro chi viola in modo particolarmente atroce il diritto naturale.

No alla «guerra giusta»

Grozio è lontano dal concetto tradizionale di «guerra giusta», dalla persecuzione del nemico vinto in nome della verità impugnata dal vincitore: la sua metafisica immanente gli inibisce l’accesso a nozioni assolute di giustizia, e lo porta semmai a una minuziosa casistica. La guerra è un processo di riequilibrio, fatalmente transitorio,  non un sostituto del definitivo giudizio divino.  Nella forma più alta e piena della guerra, il bellum solemne, condotto da poteri politici legittimi, la giustizia, che della guerra è l’inizio (come giustizia violata) e il fine, sta in pratica da entrambe le parti contendenti, in quanto ciascuna è convinta del proprio buon diritto, come appunto due litiganti in tribunale. Quello che in Vitoria era un’ipotesi quasi di scuola, il bellum utrimque iustum, giustificabile solo dalla ignoranza invincibile dei contendenti – ciò che è giusto e ciò che non lo è sono, per il domenicano, nozioni normalmente ben disponibili alla mente umana -, in Grozio appare molto meno improbabile: la guerra per lui è giusta se è inserita in un contesto di regole naturali e internazionali, e la giustezza della sua causa è sì richiesta, ma è molto più complessa da dimostrare e da conoscere, e quindi più facile da fraintendere, di quanto Vitoria concedesse. È giusta ogni guerra che abbia come fine la riparazione di un diritto violato (con esclusione quindi della guerra preventiva), ma la qualità la quantità dei possibili diritti delle, possibili modalità delle violazioni è tale che in pratica la giusta causa di guerra (a questa si riduce dopo tutto il bellum iustum in Grozio) è sempre a disposizione dei belligeranti. Così, è ingiusta soprattutto la guerra condotta da poteri illegittimi, oppure la guerra fine a se stessa, barbarica, avulsa dalla trama giuridica internazionale. Grozio subisce l’attrazione delle logiche sovrane, che catturano la guerra nella statualità e la giustificheranno di lì a breve come guerre en forme, la guerra degli Stati.

Grozio converge quindi con Hobbes nello spostare il baricentro della guerra sul soggetto della guerra, lo Stato, più che sulla sua causa? Sì e no. Sì, di fatto, anche se con minore nettezza e assolutezza: la guerra solenne fra gli stati si allontana dalla guerra giusta. No, per quanto riguarda la via, il metodo attraverso i quali i due autori giungono a questo risultato:  Hobbes porta la guerra dentro la politica spostandola sull’utilità (una causa di guerra che per Grozio non dà origine alla guerra giusta), Grozio dentro il diritto.  Hobbes fronteggia lo svuotamento del mondo, dal quale la giustizia è naturalmente del tutto assente, concentrata e confinata com’è soltanto nelle molteplici sovranità di origine patrizia, l’una contro l’altra armata e minacciose; Grozio al contrario erode solo in parte i fondamenti metafisici tradizionali e li sostituisce con una bulimia giuridificatrice, che gli consente di affacciarsi su un mondo riempito ed infinite fattispecie, di differenze, di contingenze non nichilistiche ma tutte soppesabili, valutabili, mediabili razionalmente in una rete in cui i nodi, di fatto, sono oggi gli Stati, mentre in linea di principio possono essere anche soggetti privati (le compagnie commerciali europee e i loro rapporti con le remote realtà extraeuropee, sono le prime indiziate). Chiunque abbia diritti può anche fare guerra in una visione del mondo tanto irenica (se esiste una trama giuridica e razionale dell’essere,  allora la pace è possibile) quanto conflittuale (se esistono i diritti allora devono necessariamente esistere i tribunali e anche le guerre, per decidere le cause che i tribunali non possono definire). La guerra è una decisione non decisionistica ma giudiziaria, proprio come la politica non soltanto è la forma unitaria della società ma una manifestazione della sua giuridicità plurale e differenziata.

Una spazialità “plurale”

La guerra solenne non esaurisce le fattispecie della guerra, che sono numerose: nella guerra si manifesta la pluralità dei soggetti e del mondo, ovvero si dimostra che se la dimensione della storicità è in Grozio orientata al presente, la spazialità è invece articolata col suo portato di conflittualità e di differenziazione interna all’Europa, nonché tra Europa e resto del mondo. Se le varie forme della guerra da una parte non sfondano in modo definitivo la trama giuridica dell’umana coesistenza, dall’altra ci rivelano che il suo universalismo non è un monistico formalismo normativistico sovra-politico, né è un’ipotesi di potestas directa universale, dell’Impero o della Chiesa, ma allude a un intima giuridicità della vita concreta, spazialmente dilatata – una giuridicità che prende le forme anche della guerra-. Quella di Grozio non è una hobbesiana insocievole anarchia internazionale, ma è una società internazionale anarchica perché priva di centro, ma non di un minimo di interna relazione.

Come non c’è universalismo monistico così non c’è decisionismo in Grozio – in Hobbes invece è almeno possibile ipotizzarlo-: la sua non è una teologia politica culminante nella decisione sovrana, quanto piuttosto una teologia giuridica. La lacerazione della coscienza europea, lo sfondamento moderno delle basi dell’ordine, sono affrontati da lui attraverso un deismo esile ma tenace resiliente che supporta tanto la pace quanto la guerra, senza rotture radicali senza fondazioni inconcusse.»

[Ugo Grozio, Il diritto di guerra e di pace, a cura di Carlo Galli e Antonio Del vecchio, Scuola di Pitagora, 2023]

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