Questa è una “guerra infame”, per diverse ragioni. I media ci hanno mostrato quelle più tragiche (i morti e le violenze sui civili) e alcuni, troppi, ne hanno voluto subito distillare una morale (il bene delle democrazie contro il male delle autocrazie di cui parla La lama di Michele Prospero). Fuoricollana, in questo numero tre, indaga le retrovie della prima linea dell’indignazione collettiva, per illuminare le crepe in cui si radicano i mali accresciuti dalla guerra, quelle più profonde e antiche del regime putiniano. La crisi di lungo periodo dell’egemonia statunitense e il disperato tentativo di perpetuarla in chiave di dominio (come ci ricorda anche Alessandro Montebugnoli).
Il protrarsi della guerra, impensabile senza il sostegno finanziario e bellico dell’“Occidente” all’Ucraina, produce effetti gravissimi sulla crisi alimentare nel Sud del mondo e, in particolare, in Africa. Ci si può anche illudere che tali conseguenze possano essere vendute alle opinioni pubbliche del continente africano in modo da screditare la Russia, piuttosto che l’Occidente. Il Sud del mondo, come testimoniato dal voto all’Assemblea delle N.U. contro l’invasione dell’Ucraina, non è contro Putin. La stessa guerra che agli USA e ad alcuni Stati occidentali appare come l’occasione per annientare l’intera struttura socio-economica russa, ai due terzi del mondo rappresentato all’Assemblea generale delle N.U. potrebbe apparire come l’occasione per riaffermare multipolarismo e riscossa contro lo strapotere statunitense. A Fuoricollana è apparsa invece l’occasione questa una occasione per dar voce alle ragioni del pacifismo e del mai svanito pericolo della catastrofe nucleare, ragioni colpevolmente rimosse negli ultimi trent’anni dal discorso pubblico dell’Occidente. Per Luca Baccelli, pace internazionale e capacità dell’Europa di assumere un ruolo indipendente dagli USA nel Medio Oriente e in Asia stanno assieme, mentre per Donato Caporalini, l’autodistruzione nucleare della specie umana è il grande rimosso del nostro tempo, innominata e innominabile. Di Luigino Bruni, infine, ripubblichiamo un pezzo appassionato sul diffondersi, tra i vertici delle aziende ma anche dei partiti, del modello culturale manageriale ispirato alla logica bellica e militare.
V’è poi la crepa profonda della crisi alimentare. Non considerare il punto di vista dei due terzi del mondo significa perdere la prospettiva di una crisi di struttura, di sistema, del modo di produzione e del modello di consumo, ben anteriori alla guerra in Ucraina. La globalizzazione neoliberale ha fragilizzato la sovranità alimentare di molti Paesi, grazie anche ai brevetti sui semi dei cerali hi-tech delle multinazionali e al deterioramento della crisi climatica ampliato dal colpevole ritardo nell’invertire le politiche energetiche. Tutti fenomeni difficilmente riconducibili alla Russia degli ultimi trent’anni. La governance globale patrocinata dall’Occidente, in cui le regole dovrebbero prevalere sulla volontà autocratica e i diritti umani sull’equilibrio delle forze, non ha condotto il mondo verso nuovi e migliori orizzonti. Dietro la facciata dell’etica c’è sempre in agguato lo sfruttamento delle regole da parte dei poteri economico-finanziari, per i quali non è difficile dotarsi di un certificato di sostenibilità rilasciato da società private “indipendenti”, come non era difficile per le grandi banche ricevere la tripla A allo scoppio della crisi dei subprime.
Della crisi alimentare e delle sue radici anteriori alla guerra parlano Vincenzo Comito, che ci ricorda il ruolo della speculazione finanziaria e delle sanzioni economiche occidentali nell’impennata dei prezzi, ed Elena Viganò, per cui occorrerà andare ben oltre lo sblocco dei porti ucraini e abbandonare il deleterio modello produttivista dell’agricoltura industriale e dell’allevamento intensivo.
Ma la crisi alimentare del Sud del mondo e specialmente dell’Africa ha anche radici geopolitiche e storiche: come ricorda Federico Losurdo, chi si illude che possa essere usata per screditare la Russia, ignora la storia della decolonizzazione e sottovaluta il ruolo che in essa ha avuto l’URSS. L’emancipazione dell’Africa che figurava, subito dopo la pace, tra gli obiettivi della Dichiarazione Schuman, non è più da tempo una priorità per l’Unione europea, la quale, all’inizio del conflitto, chiedeva all’Unione africana un impegno congiunto sulla transizione ecologica e digitale, glissando sulla questione alimentare e sul diritto al cibo.
Morire di fame è più orribile del morire in guerra, perché per i morti per fame non c’è neppure la pietas che riserviamo ai caduti di tutte le guerre: così Antonio Cantaro, proponendo un monumento in ogni città all’“affamato ignoto”, ci ricorda un grande rimosso culturale, che è poi il rimosso dei nostri giorni, in cui le radici socio-economiche dei mali sono oscurate dagli imperativi della “guerra giusta”.
È tempo di lavorare ad un manifesto politico-costituzionale per la radicale revisione della globalizzazione neoliberale, che si ispiri a multipolarismo e smilitarizzazione. Noi di fuoricollana, nel nostro piccolo, siamo pronti.