IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Guerra metafisica alla libertà o conflitto tra potenze?

Il confronto non è fra tirannide e libertà né fra autocrazia e società aperta, ma fra il regime di Mosca, inedita combinazione di bonapartismo orientale, modernizzazione illiberale e neoconservatorismo, e quello di Kiev, in bilico fra democratura oligarchica e populismo mediatico.

Nel dibattito pubblico italiano si addensa sempre più la nebbia deformante di una bolla ideologica. La situazione effettiva del conflitto è trasparente. L’imputazione delle responsabilità giuridiche è chiara. E però, invece che su come superare i dilemmi strategici della “operazione speciale” russa, si discorre nei media ad una sola dimensione soprattutto sulla veltroniana “guerra metafisica contro la libertà”. Che Putin non coltivi un’idea molto positiva della democrazia è risaputo. Che però la guerra preventiva sia la diretta prosecuzione della sua ostilità all’idea liberale è una asserzione più problematica da sostenere. La forma di governo interna a uno Stato non è la variabile esclusiva nelle frizioni che si incontrano nelle odierne relazioni internazionali. Altrimenti la sua implacabile logica di potenza Putin non l’avrebbe affinata verso un sistema autocratico (e le attenzioni verso la Georgia, la Cecenia?), mentre l’Occidente avrebbe dovuto guardare con assoluta indifferenza l’invasione di una nazione non democratica (e le bombe contro Belgrado?).

È normale che le parti in conflitto rivestano le loro aspirazioni territoriali e opzioni strategiche con giustificazioni in certa misura ideali. La formula ideologica utilizzata dall’Occidente è che la lotta attorno a Kiev nasce per la difesa della democrazia, quella diffusa da Putin è che l’invasione è una operazione per la de-nazificazione dell’Ucraina. Sono entrambe costruzioni ideologiche che – indipendentemente dal diverso grado di verità e dal diverso giudizio di valore che si può formulare attorno alle motivazioni escogitate da contendenti assai differentemente collocabili sul terreno giuridico – valgono per costruire consenso, per mobilitare forze. L’analista dovrebbe scavare più in profondità e recuperare lo spirito laico di Alberico Gentili che nella sua opera del 1598 De iure belli esortava a sottrarre la guerra dal rivestimento etico per coglierne le implicazioni politiche e giuridiche, le relazioni di potere e le trame strategiche. L’altro, che ricorre a una guerra offensiva che straccia i principi costitutivi del diritto internazionale, è un nemico che introducendosi in uno stato di eccezione con ambizioni di potenza va combattuto con mezzi militari, economici e politici, non è un semplice criminale che è sprovvisto di ogni valenza etico-politica. È anzitutto la sovranità che è stata violata ed è l’equilibrio geopolitico (non solo) europeo che è stato sconvolto. La Russia va combattuta per questi atti criminogeni molto rischiosi, non è necessario gonfiare di un supplemento etico ulteriore il conflitto contemplando una sorta di jihad democratica globale.

Persino Angelo Panebianco, dopo una rigorosa indicazione dei risvolti più generali della crisi ucraina (ruolo della Nato e difesa europea, ridefinizione dei bilanci in considerazione dei temi della sicurezza), accantona il sobrio linguaggio del realismo per adottare quello dell’ideologia (la narrazione di una santa guerra tra società aperta e autocrazia). È possibile stigmatizzare la strategia aggressiva di Putin senza scomodare le affinità con i baffetti del caporale austriaco? Charles Tilly (La democrazia, il Mulino) ha colto il carattere complesso dell’autocrate russo che nel suo dominio “rafforzò la capacità statale a scapito della democrazia”. Per un verso Putin ha inaugurato un processo di “de-democratizzazione” che restringe gli spazi di libertà persino rispetto ai canoni russi (trucchi elettorali, repressione di forze non governative, contrazione del potere dei media), per un altro, se da un regime parzialmente libero egli passò ad un regime non libero, “è riuscito a neutralizzare e a riportare sotto il controllo dello Stato l’oligarchia capitalista che aveva acquisito una straordinaria autonomia”.

La dottrina del ministro Di Maio (sanzioni-povertà indotta come leva della insurrezione di popolo indispensabile per deporre il despota) contiene elementi di forte rischio. Imponderabili sono sempre le conseguenze dell’acefalia conseguente alla traumatica sconfitta di una potenza nucleare. Il fallimento militare ed economico della Russia decapitata nel suo centro di comando non è un evento così tranquillo come suppongono Di Maio e il vicedirettore dell’Huffington Post: solleva seri problemi geopolitici, dilemmi strategici paralizzanti. Poco meditate sono anche le prediche di De Rita sull’ingresso nell’economia di guerra come una straordinaria occasione per la ricucitura di autentici legami comunitari. Anche se il nemico effettivo di un Putin ciecamente ideologizzato e privo di lucidità strategica fosse per davvero la democrazia in quanto ideale, sarebbe comunque produttivo per chi si oppone alle mire dell’autocrate fare come se ci fosse nelle sue bombe uno spiraglio di calcolo strategico.

 

Il sogno di una potenza smarrita

Il regime di Putin non è quello di un “democratico cristallino”, come lo dipingeva Schröder. Neppure è un epigono di Hitler. Il sistema di Mosca è “totalmente nuovo e ha un carattere complesso e multistrato grazie alla combinazione di bonapartismo, fascismo classico e moderno populismo berlusconiano. Il fatto che il putinismo contenga elementi di questi tre sistemi non significa che Putin abbia consapevolmente costruito il suo sistema a partire da questi elementi, anche se l’influenza diretta di Berlusconi su alcuni aspetti del suo sistema non può essere ignorata” (Marcel Van Herpen, Putinism, p. 203). A parte l’accostamento affrettato a Berlusconi, coglie elementi di verità la descrizione del regime russo come “fascist minimum” che non accarezza una ideologia razzista e non arma una milizia di partito. Accanto a chiusure autocratiche contempla la tolleranza per un pluralismo limitato nei media e nella rappresentanza. Per la sussistenza di una investitura elettorale sia pure manipolata si può parlare di un neo-bonapartismo in salsa orientale che persegue una funzione di modernizzazione dall’alto. Alla componente militare che insegue il sogno di una potenza smarrita si è venuta sempre più ad aggiungere una esaltazione dei valori religiosi nel segno del neo-conservatorismo che saluta la Russia come centro del movimento globale anti-gender e custode della bella tradizione del sacro.

Le ideologie contano come sedimentazioni di sentimenti e credenze ma non sono paradigmi esplicativi. La strada russa della guerra enfatizza come collante un dato reale rintracciabile nella percezione di settori vasti di opinione e nelle credenze dell’élite militare: il sentimento di declino, l’angoscia dinanzi alla perdita di una bella influenza. Uno studioso autorevole di politica internazionale, Bertrand Badie (New Perspectives on the International Order, Palgrave, 2019, p. 64), chiarisce con efficacia i termini sistemici del problema. “La posizione della Russia nel sistema internazionale è stata notevolmente indebolita dall’effetto combinato della scomparsa del bipolarismo, di cui aveva molto beneficiato, e della globalizzazione, che l’ha marginalizzata” (p. 101). La comprensibile volontà dell’Occidente vittorioso di ridimensionare drasticamente una potenza sconfitta ha inciso nella chiusura delle élite e di una parte rilevante dell’opinione pubblica russe. Questo nazionalismo, coltivato con l’ambizione di tornare a contare come una volta, è la matrice del consenso putiniano, non c’entra nel suo “revanscismo molto conservatore” (Badie) la volontà di punire la democrazia come idea che pur rimane straniera. Il principio panrusso, che fa da sfondo al consenso bellico per le imprese di Putin, poggia nella sua volontà acquisitiva su un obiettivo sentimento di marginalizzazione di una antica potenza che pare abbia dimenticato l’evento umiliante della perdita della guerra fredda.

L’Ucraina è paradigmatica agli occhi di Mosca non in quanto un fulgido modello di democrazia ma perché, come scrive Badie, “è un paese la cui definizione etno-nazionale è soggetta a controversie e divisioni”. Su queste dinamiche conflittuali e sulla difficoltà ad operare una scelta di campo fa leva la politica di Putin. Il rapporto del 2014 di Robert Nalbandov (Democratization and instability in Ukraine, Georgia, and Belarus, Strategic Studies Institute. U.S. Army) parla di “un dualismo politico inerente alla cultura politica ucraina” e segnala che la Nato è una questione molto divisiva, soprattutto nelle parti orientali del paese. Secondo il vecchio sondaggio riportato da Nalbandov, il 61,9% degli ucraini non è favorevole all’allargamento della Nato. Il 44,5% degli intervistati ritiene inoltre che l’Ucraina dovrebbe abbandonare i piani di adesione all’alleanza militare. Il redivivo spirito panrusso che sfida la dominanza politica dell’Occidente non nasce da una cattedratica battaglia delle idee contro la democrazia ma da un calcolo di potenza relativo ai confini.

Come avverte Bertrand Badie, con i tentativi di mobilitazione della popolazione di lingua russa nei paesi baltici, con le manovre di riconquista avviate in altre aree considerate come il ventre molle dello spazio post-sovietico “Mosca intende recuperare una forte presenza sui suoi confini perché, come tutti gli imperi, la Russia è ossessionata dalla gestione della sua periferia”. La credenza di avere incamerato una maggiore forza rispetto a quella del 1991 spinge Mosca alla rottura dello status quo con il recupero delle forme pre-giuridiche di contesa quale strumento di mutamento dei rapporti vigenti nell’ordine mondiale. Alle domande russe di un più rilevante coinvolgimento nella governance mondiale (formulate nel discorso del 2015 di Putin all’Onu) la risposta è stata negli anni di sostanziale chiusura. Il multipolarismo è stato respinto come semplice camuffamento per un ritorno russo sulla scena. Secondo Badie “la reazione occidentale alla riaffermazione del potere russo è stata senza dubbio pesante. Invece di definire il quadro per rinnovare l’associazione della Russia alla governance mondiale, ha pensato solo ad escluderla. Il G8 è tornato ad essere il G7 nel 2014, e l’affare ucraino è stato trattato dall’Occidente in modo piuttosto irrilevante” (p. 121). È impossibile non rimarcare il peso di questo scontro tra differenti logiche di potenza entro la governance mondiale per ridurre la controversia di oggi alla condivisione o meno del paradigma democratico.

 

Zelensky fra fiction e normalizzazione autoritaria

Dinanzi ad un nemico che dispone di un potenziale distruttivo totale il ritrovato bellico non può essere accarezzato come decisivo, e colpisce che Enrico Letta si rammarichi per non potere andare oltre la fornitura di armi e perché l’Ucraina non sia già da tempo nella Nato. Il cervello in politica “purtroppo” è sempre meglio dell’elmetto. Al difetto di razionalità politica di Putin, che ricorre ad antiche e distruttive logiche di potenza, corrisponde una caduta di razionalità politica anche tra gli avversari che vedono nelle sue scelte solo una furia ideologica ostile al liberalismo e per questo non imboccano con determinazione la via della mediazione. Una Ucraina garantita nella sua sovranità, assicurata nel suo difficile processo di transizione alla democrazia, avviata nella sua integrazione economico-culturale europea non è in contrasto con il mantenimento di un territorio neutrale su cui confidava la Russia quando ha reagito alla perdita di prestigio con una sfida inaudita e illegale all’ordine giuridico vigente. Il nome “Ucraina” nei dialetti slavi orientali significa “al limite”, evoca cioè la “terra di confine” tra aree, imperi, culture. Nel suo nome potrebbe esserci anche il suo futuro.

Putin si presenta come il salvatore della nazione, l’uomo del destino che mitizza la grande Russia e con la “Unione eurasiatica” si scontra con le minoranze colte, secolarizzare e metropolitane, le Ztl russe con il sogno di Occidente. Dal 2015 le “operazioni belliche” (la parola “guerra” è bandita dal lessico) vengono giustificate dalla necessità di portare soccorso all’etnia locale oppressa da odiose milizie naziste. Ricorrendo alle tecniche della post-verità, Putin lancia continue accuse di una penetrazione di gruppi con ideologia nazista che insieme ad “un granello di verità” contengono “vere e proprie invenzioni” come gli attacchi armati antisemiti (Moisés Naím, The Revenge of Power). L’Ucraina va appoggiata, ma come paese sovrano aggredito, non come la culla della società aperta. Tutti gli indicatori istituzionali e culturali invitano alla cautela sui tempi di una integrazione nel laboratorio europeo di un sistema politico contraddittorio, con miglioramenti parziali e fasi di regressione. Rispetto al quadro del 2013 di Andreas Schedler (The Politics of Uncertainty. Sustaining and Subverting Electoral Authoritarianism, Oxford University Press), l’Ucraina non è del tutto uscita dal novero delle “autocrazie competitive” con un incerto ordinamento costituzionale definito con il passaggio dal partito unico al presidenzialismo assoluto sfuggente a limiti e controlli.

Il disarcionamento dei vertici del regime oltre che al voto viene affidato alla insubordinazione di piazza, all’impeachment e agli arresti, con l’irruzione di “guardiani dell’integrità pubblica” che rimuovono gli avversari con pretesti legali e la messa fuori legge dei partiti sgraditi. Il sistema di governo “assolutistico-competitivo” solo parzialmente è stato corretto negli anni più recenti. Il rapporto annuale “Freedom in the World 2021” segnala la rilevanza dello scontro istituzionale tra il presidente Zelensky e la Corte costituzionale nel corso del quale il capo dello Stato ha tentato di sciogliere la Corte dopo alcune sue sentenze in materia di leggi anticorruzione. Taluni membri della Corte sono stati perseguiti penalmente con l’accusa di sedizione. La politicizzazione di organi tecnici e istituzionali, oltre che dei servizi di sicurezza, rende ancora debole la cornice dello Stato di diritto e molto significative sono le discriminazioni varate contro rom, gay, minoranze di lingua russa. Il ruolo degli oligarchi incide nel funzionamento delle istituzioni, nella contesa elettorale, nella restrizione dei diritti sindacali.

Il radicamento della destra radicale e delle formazioni paramilitari è indubbio anche se non nelle dimensioni denunciate dai russi, che nel 2014, dinanzi a 37 deputati e 3 ministri (compreso il vicepremier) espressi da Svoboda, parlarono di una deriva nazista. Roger Griffin (Faschismus, 2020) nomina Svoboda come segno di “un’importante sottocultura neofascista e populista di destra radicale”. Nondimeno “l’ascesa del paramilitarismo nazionalista”, accolto tra le file dell’esercito ufficiale e sottoposto agli addestramenti esteri, è stata poi orientata verso istanze che “funzionano più come temi dei movimenti della destra radicale populista, e talvolta solo della destra populista, piuttosto che come movimenti di nazionalismo rivoluzionario”.

Come spiega la politologa Lenka Bustikova (Extreme Reactions. Radical Right Mobilization in Eastern Europe, Cambridge University Press), “i valori anti-establishment, omofobi, etnocentrici, antisemiti e xenofobi della destra sovranista sono evaporati perché in gran parte riassorbiti dalle forze più grandi che si sono radicalizzate (nelle elezioni del 2014 Svoboda ha perso metà dei voti e va al di sotto del 5%). Poiché i potenti partiti mainstream adottano politiche simboliche, linguistiche e redistributive ostili al segmento russo della popolazione e si ribellano alla inversione di status per la nazionalità dominante la polarizzazione ridimensiona Svoboda quale partito anti-occidentale, anti-liberale e anti-UE” (p. 161). Non c’è una deriva nazista anche se proprio da esponenti di questa area (il presidente della Camera) viene l’impulso per la riforma costituzionale del 2019 che stabilisce l’ingresso nella Nato. E però, quanto alla suggestione di Bernard-Henri Lévy di nominare sul campo Zelensky come il padre della nuova Europa, la cautela sarebbe necessaria.

Un fresco volume di Olga Baysha (Democracy, Populism, and Neoliberalism in Ukraine) analizza l’ascesa del comico Zelensky, ovvero come un capo di stato televisivo si trasforma in presidente reale. L’oligarca proprietario dei media registra come partito il nome della serie televisiva “Servitore del popolo” e destina ingenti risorse per la campagna elettorale. Il comico, il 31 dicembre del 2018, annuncia la candidatura e nell’aprile del 2019 trionfa al secondo turno come profeta dell’antipolitica e vendicatore della società contro i corrotti. Subito dopo ottiene anche la maggioranza dei seggi con facce nuove, senza alcuna esperienza politica e per questo educate in fretta in un corso celere di formazione tenuto entro un complesso alberghiero. Avvalendosi della serie tv come una solida piattaforma, il comico sostituisce lo scarno programma di 1601 parole per uno “Stato smartphone”: i 51 episodi che lo vedono protagonista sono il suo vero programma dettagliato, oscillando così tra reale e virtuale nel pervasivo linguaggio dell’odio che mette in scena la caduta di Putin e la sparatoria contro la classe politica.

La trovata più eclatante della comunicazione con allegorie armate si ha quando nello show “il presidente Holoborodko non avendo più fiducia nella possibilità di riforme anti-corruzione all’interno del sistema di potere esistente, scatena la sua furia con le mitragliatrici, massacrando i deputati proprio nella sala del palazzo parlamentare. Non tutti gli spettatori hanno visto la sparatoria come una semplice fantasia” (p. 57).

Giocando tra finzione e progetto, il presidente ha sorretto una strategia di “normalizzazione autoritaria” ingaggiando una lotta contro l’assemblea e la Corte costituzionale.

Alla riduzione della rappresentanza a simulacro presto aggiunge corpose politiche di privatizzazione delle terre sottratte ai poveri e preda di appetiti (anche) criminali. L’esperienza reale non si presta a illusioni: Zelensky è un leader della semplificazione, che non apprezza opposizioni e controlli di legalità, ripudia la rappresentanza per affidarsi allo schema del Male (politico-oligarchico) versus utopia della positività assoluta liberata dalla politica. “La società perfetta di Holoborodko – un paradiso artificiale con condizioni di vita ideali – era sterile, non infettata dalla politica. A costo di una straordinaria semplificazione, l’intero sistema di potere integrale, creato da Zelensky in vista della positività assoluta, ha spinto il reale verso la totalità e l’unificazione, un sogno totalitario” (p. 102). Zelensky merita il sostegno come presidente di un paese occupato, non è però possibile proporre la sua immagine di esperto della multi-modalità nella produzione di significati come simbolo della nuova Europa. Il suo show evocava un governo autocratico (con “l’imprigionamento degli oligarchi e la confisca delle loro proprietà senza processo; gli ufficiali inchiodati senza neppure una udienza in tribunale; il ricatto, la minaccia e l’intimidazione dei politici corrotti”) nel segno della stanchezza verso la democrazia e lo Stato di diritto.

In un saggio (The 2019 Presidential Election in Ukraine: Populism, the Influence of the Media, and the Victory of the Virtual Candidate) Olga Mashtaler ricostruisce il profilo di Zelensky come esemplare di un “populismo algoritmico”. Attorno ad una celebrità televisiva un’abile strategia costruisce il messaggio per sfondare tra i cittadini sedotti dalla narrazione più inverosimile. Quando Zelensky si candida la narrazione costruiva l’immagine di un outsider, persona semplice ed estranea ai giochi dei potenti. Veniva così camuffata, ma fa parte del gioco dello storytelling, la reale sua condizione di “ricco milionario, produttore generale al canale televisivo Inter, il cui proprietario era l’oligarca ucraino Firtash. Aveva anche stretti legami d’affari con l’oligarca Kolomoyskyi, il proprietario del canale televisivo 1+1”. In un passaggio dall’altoparlante ad Instagram, dai soviet all’algoritmo, dall’apparatchik al “politainment”, dalla terra ai social il comico giustiziere si avvale delle più sofisticate tecnologie della comunicazione digitale per conquistare il potere. Archiviato Facebook come archeologia che con un supporto testuale troppo complesso si adatta solo ad un segmento vecchio e scolarizzato di elettori, predilige Instagram con le sue forme brevi ed emozionali di comunicazione interattiva, con video e live-stream, cioè contenuti visivi piuttosto che testuali. Con influencer, fake news, eserciti di “trolls” per denigrare i politici al potere, anche Mosca ha guardato con interesse alla sua ascesa in un’ottica di minor danno rispetto all’altro candidato che era più marcatamente antirusso. I media russi e i leader separatisti si sono schierati per Zelensky il quale nel manifesto elettorale non menzionava l’UE e rinviava la “figa adesione” alla Nato ad un successivo referendum popolare. Il cavallo su cui puntava l’Occidente era Poroshenko, che arrestava gli attivisti e però allestiva una coalizione internazionale antimoscovita, organizzava sanzioni e siglava l’accordo di associazione con l’UE. Gli appoggi della Nato per la ricostruzione dell’esercito ucraino che si ritrovava letteralmente sbandato dopo il 2014 sono stati davvero cospicui.

All’immagine monumentale di Poroshenko, che da capo sovranista si scalda con enfasi contro il nemico esterno, Zelensky contrappone l’ironia del comico privo di ogni trasporto patriottico e capace di vendere immagini virtuali (anche attraverso selfie destinati a smartphone) per colpire ridendo il nemico interno (“il vecchio sistema politico”). Nel dibattito tra i candidati svoltosi in uno stadio “Poroshenko inizia a cantare l’inno nazionale con la mano sul cuore. Zelenskyi invece sorride urtando i suoi fan con le dita in segno di vittoria, più come una star del cinema che come un leader nazionale” (p. 147). Adattando il messaggio al mezzo e senza ricorrere a comizi, conferenze, viaggi, talk show o giornali Zelensky con un “costrutto algoritmo” riesce a coprire con logiche settoriali i vari segmenti del pubblico “unito dalla negazione dello stato reale delle cose” e quindi sedotto dall’invito a mandare tutti a casa. La sua immagine nei social (ha un canale You Tube) cura più la abilità di un corpo sportivo che la postura di un patriota. La palestra, più che la trincea, sembra il suo luogo prediletto.

Diversamente da quello del presidente allora in carica, artefice di leggi contro la lingua russa, creatore della nuova Chiesa ortodossa unificata dell’Ucraina, il populismo di Zelensky non assume curvature etniche e non demonizza minoranze, culture. Recupera anche tra i suoi consiglieri le vecchie élite politiche messe al bando da leggi repressive per lo scioglimento di partiti prima al governo. Per questo fu etichettato come il cavallo di Troia di Mosca. Rispetto al conservatorismo nazionalista-identitario-religioso del presidente uscente, che invocava un secondo mandato con lo slogan “Un esercito protegge la nostra patria. Una lingua protegge il nostro cuore. Una chiesa protegge la nostra anima”, il comico rifiuta la retorica patriottarda. E cavalca una immaginazione antipolitica e antiburocratica incentrata sul sogno iperdemocratico e sul valore della inesperienza politica. Olga Mashtaler ha rilevato che nello stile comunicativo interattivo e partecipativo, nella retorica del sito web come luogo di selezione del nuovo personale di governo e nel coinvolgimento degli utenti della piattaforma alle decisioni si possono “vedere analogie con Beppe Grillo e il M5S italiano”. Alla frattura Est-Ovest riesce così a sostituire la dicotomia vecchio-nuovo, politici-gente comune che è la grammatica preferita del populismo. La retorica di Zelensky è incentrata sul sogno dello Stato-smartphone (avviare un’impresa in un’ora, ottenere il passaporto in 15 minuti, votare alle elezioni in un secondo grazie ad Internet), sulla promessa della abolizione della povertà, sul trionfo della onestà grazie alla rete (“un computer non accetta tangenti”).

Il primo atto del presidente è stato quello sulla sovranità del popolo e prevede la centralità del referendum, la democrazia diretta, il decentramento amministrativo, la digitalizzazione, la partecipazione on line. Molto poco post-moderna è invece la cultura dei diritti individuali. Il partito di Zelensky ha proposto di emendare il codice penale per criminalizzare la propaganda dell’omosessualità e transessualità. “Mentre Zelensky ha ripetutamente dichiarato che la sua strategia di politica estera include l’integrazione europea, i funzionari statali sembrano ignorare l’uguaglianza di genere e di orientamento sessuale come valori fondamentali dell’Unione cui sostengono di aspirare ad aderire” (M. Shevtsova, LGBTI Politics and Value Change in Ukraine and Turkey, 2021, p. 174).

 

La deriva apocalittica della “guerra giusta”

Se si pensa che la guerra alle porte di Kiev sia il semplice inizio di un contrasto metafisico irriducibile, tra potenze della società aperta e criminali di guerra, la proposta di Zelensky non ha alternative: tra bene e male non si negozia. A Kiev si combatte per l’Europa libera e quindi mettersi l’elmetto è una risoluzione contro le potenze del male assoluto. L’allarme di Zelensky che si sente già nella terza guerra mondiale sembra poco realistico dinanzi ad un esercito con una dotazione tecnologica non molto sofisticata (persino rispetto agli arsenali ucraini) e ad un paese con un isolamento internazionale pesante e una prospettiva tangibile di fallimento economico-finanziario. Alla minaccia, al momento solo ipotetica, del satrapo orientale che intende diventare il sovrano d’Europa è rischioso rispondere con l’opzione, essa sì reale, di una guerra nei cieli destinata ad accelerare l’allargamento del fronte bellico, in un contesto dove basta il classico incidente per scatenare l’irreparabile. Chi in nome della resistenza infinita ricorre al monito che fu anche kantiano “fiat iustitia et pereat mundus” dovrebbe tenere in considerazione l’obiezione che Hans Jonas formulava verso di esso: associare la distruzione del mondo all’assolutezza di una doverosità etica incondizionata non ha propriamente nulla di morale. Non esiste una obbligante etica della convinzione che comporta la distruzione delle cose della natura, degli altri.

Che in nome della libertà ucraina affidata alle armi si possano sacrificare i dati economici, come ha sostenuto Letta, è una formulazione retorica che se presa sul serio trascura i costi insostenibili per la democrazia e la libertà europea di un collasso dell’apparato produttivo. Che Turchia e Israele abbiano scelto una condotta più sobria di quella europea dimostra che opzioni diverse sono possibili pur nella chiarezza della collocazione. Il problema non è quello di invitare l’Ucraina alla resa ma di avere la forza politica per scongiurare chiusure, ripristinare le minimali condizioni dell’ordine e della sicurezza internazionale. In questo campo, più che sul capo che conduce una politica di guerra, occorrerebbe confidare sul comico che fece il pieno dei voti con la promessa di una risoluzione politica della conflittualità armata.

Rischioso è per le democrazie europee seguire Zelensky, oltre che nell’umana comprensione di un interprete della tragedia di una nazione che per trattare deve prima combattere, anche nella copertura politica che egli dà alla resistenza. Utilizzando le metafore di una guerra civile mondiale, con la richiesta di vietare ai russi le località di vacanza, egli evoca scenari del tutto apocalittici.

Se non si vuole imboccare la fatale strada nichilistica verso la quale conduce ogni tarda ideologia della guerra giusta, lo sforzo della comprensione degli accadimenti non può essere sospeso con una ovazione sentimentale. Sul “Foglio” è stata riportata una intervista del prestigioso storico Robert Service, che la vicenda russa la conosce per davvero. La sua diagnosi è che la follia strategica di Putin, che si getta in una sciagurata impresa di annientamento, marcia insieme all’altro “enorme errore strategico” commesso il 10 novembre del 2021, quando Usa e Ucraina hanno firmato il Charter on Strategic Partnership, che Service non esita a definire “la goccia che ha fatto traboccare il vaso”. In effetti, il documento contiene passaggi molto forti, di quelli che sembrano scritti con la polvere da sparo (assistenza piena per una “solida formazione ed esercitazioni”) e destinati a scatenare nell’avversario delle risposte rabbiose che rasentano l’azzardo. In un crescendo di sfida verso il ruolo geopolitico russo, la dichiarazione congiunta richiama il comunicato del vertice Nato di Bruxelles del 14 giugno 2021 e ribadisce il sostegno alle legittime “aspirazioni dell’Ucraina a entrare nella Nato”. Per scansare ogni equivoco interpretativo la carta scandisce: “gli Stati Uniti sostengono gli sforzi dell’Ucraina per massimizzare il suo status di Nato Enhanced Opportunities Partner per promuovere l’interoperabilità”. Il nesso causale (che non significa in alcun modo legittimazione della guerra) tra la impresa criminogena della Russia e il reclutamento di Kiev in una alleanza militare ostile parrebbe evidente.

Anche le imprese belliche non legittime devono pur trovare una soluzione politica. E Zelensky non sembra sentirci su questa dimensione della mediazione che segue il conflitto, aspirando, più che ad essere espressione di una preoccupata visione europea, a trasformarsi nel megafono di Biden, che tra le immani distruzioni non spegne l’incendio ma rincara la dose dichiarando Putin un “dittatore omicida”.

Il rischio della condotta di Biden quale “combattente non attivo”, che dopo le ricognizioni aeree elettroniche invoca nuove armi a più sofisticata elaborazione tecnologica, è quello di sbarrare il tempo della politica. Questo calcolo americano di un prolungamento delle ostilità per accompagnare la Russia in un pantano disastroso non può coincidere con gli interessi europei. Con la sua durezza della strategia del logoramento Biden ottiene per l’America due vantaggi strategici. Il primo, di vedere il suo nemico strategico-militare (la Russia) strattonato con una fornitura di assistenza tecnica, di intelligence che rende sul campo assai micidiali quelle che una volta erano le sbandate truppe ucraine.

Il secondo, di osservare il suo competitore economico-tecnologico (l’Europa) mentre deve sostenere l’onere di sanzioni, embarghi, spese per gli armamenti e l’accoglienza di milioni di profughi che rallentano la ripresa e la capacità competitiva nei settori dell’innovazione. Dichiarando che Putin è “un criminale di guerra” Biden non fa nulla per spegnere il fuoco e giungere ad una soluzione negoziata. L’Europa ha tutto da perdere da una condotta intransigente che nelle fiamme rischia in ogni momento di spingere la contesa in una terra di assoluta incertezza entro cui la possibilità di un razionale controllo dei mezzi e dei fini sfugge irreversibilmente di mano agli attori. La Russia non può vincere tra le macerie fumanti di una nazione offesa senza con ciò accrescere l’insicurezza geopolitica europea. E neppure può perdere oltre un certo limite senza che la sua catastrofe si abbatta sino a sconvolgere equilibri mondiali delicati. I vantaggi di una umiliazione dell’orso moscovita sarebbero inferiori ai costi incalcolabili conseguenti alla sua destrutturazione economico-militare che accompagna la perdita dello status di grande potenza.

La pochezza strategica dei democratici americani ha una lunga tradizione e non stupisce una certa intransigenza. Inedita è invece l’afonia dell’Europa che passiva sembra assistere ad un duello tra una Russia sempre più costretta, per piegare una resistenza imprevista nella sua pervasività, a incrementare la potenza di sterminio delle bombe e una America che lascia che in bocca al ventriloquo di Kiev oltre alle immagini delle sofferenze entrino provocatorie parole di guerra. Le formule di Mario Draghi, schiacciato sullo schema ideologico della guerra democrazia-tirannide, sui tempi lunghi della entrata nella Ue sembrano percepire che l’Ucraina tolta alla Russia segni un colpo micidiale alle velleità neo-imperiali di Mosca, ma anche un fardello per l’Europa costretta ad accollarsi i costi politici, culturali e sociali di un’altra democratura orientale che alterando i principi fondativi restringe i diritti individuali e le conquiste del lavoro.

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