Per quanto riguarda il secondo driver liberista, la regolazione dei mercati, le sedimentazioni del conformismo culturale nella sinistra ufficiale sono imponenti e il terrore di essere scomunicati come “sovranisti” paralizzante. Concentriamo l’analisi sullo spazio economico dell’Ue. Viene trascurato o è completamente ignorato che esso mette in competizione non le aziende e le capacità imprenditoriali, ma i sistemi di welfare. Da quando l’area dei “liberi” movimenti di capitali, merci, servizi e persone è stata allargata, senza filtri protettivi, dagli Stati della “vecchia Europa”, a tassazione e welfare maturi e contratti di lavoro solidi, agli Stati dell’Est Europa, dove il lavoro costa poche centinaia di euro al mese e la tassazione delle imprese e il welfare sono miseri, il mercato unico europeo ha colpito incessantemente il lavoro. È diventato una forza di gran lunga più potente delle visibilissime manovre di finanza pubblica “lacrime e sangue”. L’ulteriore estensione dell’Ue ai Balcani, all’Ucraina, alla Georgia e alla Moldavia aggraverebbe le condizioni di lavoratori e lavoratrici e piccole imprese. Gli effetti corrosivi determinati dall’ordinario funzionamento del mercato unico sono stati drammaticamente potenziati da direttive specifiche. Esemplifico: la Direttiva Bolkestein, promotrice e garante del principio di “libertà di stabilimento”, ossia la possibilità per un’impresa di un determinato Stato di potersi stabilire ed operare in ogni altro Stato dell’Ue; la Direttiva sui lavoratori dislocati (“posted workers”), a tutela del principio dello “Stato d’origine”, attraverso il quale si consente ad un’impresa proveniente da uno Stato a welfare minimo e retribuzioni pari ad un quarto o un quinto dei livelli contrattuali conquistati al di qua del muro di Berlino di venire a produrre nelle nazioni a welfare maturo e contratti nazionali dignitosi e di portarsi dietro le dirompenti normative e retribuzioni di casa. Il combinato disposto delle due Direttive ha messo in moto una devastante macchina di svalutazione del lavoro, di allargamento delle disuguaglianze e di impoverimento dello Stato sociale nella “vecchia Europa”. Senza poter qui entrare nel merito (rinvio al mio “Il mestiere della Sinistra nel ritorno della Politica”, pubblicato qualche mese fa da Castelvecchi), oltre alla dimensione economica e sociale, rilevo una questione giuridica decisiva: la radicale contraddizione tra la nostra Costituzione ed i Trattati europei. Ne scrive accuratamente Cesare Salvi, in una eccellente riflessione su “Capitalismo e diritto civile” (Il Mulino, Bologna, 2016). Salvi ripercorre tre sentenze analoghe prodotte nel 2007 dalla Corte di Lussemburgo. Ad esempio, nella sentenza “Laval”, la Corte di Giustizia europea condanna le azioni dei sindacati svedesi, nonostante siano previste dalla loro legislazione nazionale e dalla loro Costituzione. Sono azioni finalizzate a contrastare l’applicazione ai dipendenti di un’impresa operante in Svezia, ma con sede legale in Lettonia, delle condizioni lavorative e salariali lettoni, ovviamente peggiori di quelle garantite ai lavoratori svedesi. In sostanza, commenta Salvi, “la tutela della concorrenza diviene così non garanzia della parità di trattamento tra imprese nazionali e imprese di altri Stati, ma garanzia della libertà dell’impresa di scegliere l’ordinamento giuridico che consenta le condizioni migliori per essa (e peggiori per i dipendenti): concorrenza tra ordinamenti, non tra imprese. (…) Che la libera prestazione dei servizi rientri nel novero delle libertà economiche garantite dal Trattato non è in discussione. Ma l’interpretazione che ne dà la Corte di giustizia non è conforme ai principi della Costituzione italiana. In base a tali principi, infatti, non solo non dovrebbe essere considerata violata la libertà economica se uno Stato ritenga di applicare le norme interne a tutti i lavoratori operanti su proprio territorio, quale che ne sia la nazionalità e quale che sia lo Stato nel quale ha sede sociale l’impresa che li utilizza; ma anzi dovrebbe giungersi alla conclusione opposta, del contrasto cioè con le norme costituzionali di una disciplina che preveda tutele differenziate per i lavoratori, in base alla loro nazionalità.”
