IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Stefano Fassina: I motori del liberismo UE

Quali sono i fattori di più intenso segno liberista nell’impianto di politica economica dell’Unione europea? Il senso comune batte e ribatte sulle politiche di bilancio imbrigliate dal Patto di Stabilità e Crescita, dal Fiscal Compact, da regolamenti cardinali come il Two Pack e il Six Pack. Senza dubbio, l’austerità scritta nel codice genetico ed attuata nell’Unione europea e, in particolare, nell’eurozona ha tagliato il welfare e spinto alla recessione fino all’autolesionismo: attraverso programmi formalizzati della Troika, il consesso costituito da Commissione europea, BCE e Fondo Monetario Internazionale (come nel caso della Grecia a guida Alexis Tsipras) oppure senza programmi ufficiali (come per Italia del premier Mario Monti). Senza dubbio, la cosiddetta revisione della governance economica europea in corso e la “riforma” del MES confermano e aggravano la vigente disciplina di finanza pubblica, come è ben argomentato negli interventi di autorevoli economisti e giuristi in questo numero. Tuttavia, troppo spesso il senso comune si ferma alla superficie, alla variabile di politica economica più visibile, l’unica rimasta, almeno nell’allocazione di risorse sempre più scarse, nella disponibilità dei decisori politici nazionali.

In realtà, la politica di bilancio è variabile dipendente. Nell’Eurozona e nell’Ue, le variabili indipendenti, i drivers liberisti più potenti per gli effetti di svalutazione del lavoro e di impoverimento del welfare universalistico, operano sotto la superficie, al riparo del dibattito pubblico, anzi proibiti (“Il dibattito proibito” è il titolo di un illuminante saggio scritto da Jean Paul Fitoussi del 1997 per analizzare la politica economica europea). Sono due. Primo, la politica monetaria affidata alla Banca Centrale Europea, una tecnocrazia “indipendente”, interprete di uno statuto limitato al contrasto all’inflazione, totalmente indifferente alle condizioni dell’occupazione, mutilato, quindi, finanche rispetto al mandato della Federal Reserve e della Bank of England, istituzioni pur forgiate nei due epicentri dell’offensiva liberista partita negli anni ‘80. Secondo, la politica di regolazione “interna” e “esterna” dei movimenti di capitali, merci, servizi e persone (le 4 sacre libertà): da un lato, lo european single market, leva potentissima di dumping sociale e fiscale in quanto esteso a Stati caratterizzati da salari a 300 euro al mese, tassazione da paradisi fiscali e assicurazioni sociali minimali e, dall’altro, gli accordi di “libero” commercio internazionale.

La politica monetaria. Sorprende la permanente disattenzione alla politica monetaria, nonostante la sua rilevanza emersa, prima, nel contesto del Covid-19 e, ora, nell’economia di guerra conseguente all’invasione russa dell’Ucraina. Nel 2020 e nel 2021, i bilanci pubblici, già piagati dal crollo dell’attività economica, quindi dal collasso delle entrate e dall’impennata della spesa per gli “stabilizzatori automatici”, sono andati in un rosso ancora più intenso per affrontare spese vitali (per dispositivi di protezione, assistenza ospedaliera, terapie intensive, vaccini), per dare un minimo di reddito a lavoratori e lavoratrici bloccate dal lockdown e per accollarsi le garanzie del credito alle imprese. Nell’eurozona, l’indebitamento netto medio è saltato dallo 0,6% del 2019 al 7% e al 5,1% nel biennio successivo. Il debito pubblico è rimbalzato, in media, di 13 punti percentuali di Pil. Eppure, anche per gli Stati più indebitati, come l’Italia, i tassi di interesse sui Titoli “sovrani” sono andati sottozero per gli strumenti a breve e poco sopra a zero per i prestiti di lungo periodo. Perché? Perché la BCE, dopo aver salvato l’eurozona dall’implosione con il whatever it takes e l’Asset Purchase Programme, varava un poderoso (1850 miliardi di euro) Pandemic Emergency Purchase Programme (PEPP) per acquistare, sul mercato secondario, le valanghe di titoli emessi da ogni Stato per finanziare le voragini di finanza pubblica. Improvvisamente, non solo deficit enormi e debiti pubblici in rialzo erano “buoni”, ma erano anche sostenibili.

L’incomprensione della rilevanza della politica monetaria o la rassegnazione ad una verità amaramente colta dal compianto Alfredo Reichlin (“la finanza decide, i tecnici amministrano e i politici vanno in televisione”) ha portato l’intera classe dirigente della sinistra ufficiale e tutti i governi dell’Eurozona a “prendere atto” del comportamento deciso dalla BCE dopo il 24 febbraio 2022. Eppure, è paradossale quanto avviene. Siamo in un’economia di guerra. L’inflazione è totalmente importata. Arriva attraverso l’acquisto di energia e beni alimentari essenziali scambiati in mercati dominati dai giochi della finanza e dai monopoli pubblici e privati della distribuzione, gonfi di extraprofitti. Le retribuzioni perdono potere d’acquisto. Ma a Francoforte chiudono i rubinetti del credito: aumentano i tassi di interesse e accelerano la conclusione del PEPP. Certo, l’inflazione va fermata. Ma per fermare la dinamica esogena dei prezzi, si sarebbe dovuto intervenire, a scala europea e nazionale, con politiche dei redditi, puntellate da sgravi fiscali a lavoratori e imprese, sostenuti da deficit finanziati dagli acquisti di titoli da parte della BCE. Invece, la BCE e le altre Banche Centrali (BC) “normalizzano” la politica monetaria in uno scenario di escalation militare e di crescente spesa per la Difesa e di aiuti al popolo ucraino. Insomma, le BC puntano ad alimentare la recessione per ridurre l’occupazione, il potere d’acquisto dei lavoratori e, in ultimo, la domanda interna, come esplicitamente indicato dalle loro comunicazioni ufficiali agli operatori di mercato. Un unicum storico: la politica economica, monetaria, quindi di bilancio, pro-ciclica, ossia pesantemente recessiva, mentre si rimarca l’impegno nella guerra per “il futuro dell’Europa e delle nostre democrazie”. Insomma, la guerra la devono pagare lavoratori e piccole imprese. Ma la sinistra ufficiale tace. Si avverte soltanto qualche voce a destra, con la quale non si può che concordare, nonostante le scomuniche dei compagni di strada.

Il comportamento della BCE non è sorprendente. Il regime di politica monetaria è conformato alla gerarchia tra i principi contenuti nei Trattati europei. L’impianto in funzione è riconoscibile dal posto assegnato, nelle annuali raccomandazioni forgiate dalla Commissione europea per i singoli Stati, al “Nawru” (non-accelerating wage rate of unemployment), il tasso di disoccupazione di lungo periodo compatibile con la stabilità dei prezzi. Il livello del tasso di disoccupazione è rigidamente sotto-ordinato all’andamento dei prezzi. La stabilità dei prezzi è l’obiettivo primario della politica economica, anzi l’unico. Che vuol dire? Che quando noi, come altri nell’Unione europea, abbiamo un tasso di disoccupazione elevato, anche molto elevato, la politica economica è inibita a ridurlo se la sua riduzione determina un aumento dei prezzi. È avvenuto sistematicamente per l’Italia e per gli altri Pigs (acronimo raffinato coniato per indicare Portogallo, Grecia e Spagna, oltre a noi). Avviene ora, nonostante l’economia di guerra. Ovviamente, in una relativamente piccola economia aperta, senza sovranità monetaria, la dinamica dei prezzi interni è una variabile da tener presente con la massima attenzione. Ma non può essere la variabile sovraodinata all’occupazione, ossia alla valorizzazione del lavoro, il soggetto politico fondativo della nostra Repubblica democratica. È, dovrebbe essere, un dato agghiacciante per la sinistra ufficiale. Invece, sulla ferita alla nostra Costituzione, la sinistra ufficiale, quando consapevole, neanche discute per il timore di indebolire le sue credenziali europeiste. Eppure, anche un europeista DOC come Guido Carli, nelle memorie del 1993 (“Cinquant’anni di vita italiana”), aveva riconosciuto che “è difficile accettare con animo leggero il fatto che l’obiettivo della stabilità dei prezzi sia indicato senza alcun riferimento al livello di occupazione e, dunque, al benessere delle comunità che si sono date questa nuova Costituzione monetaria. Ho provato ripetutamente nel corso del negoziato a inserire tra i criteri anche il livello di disoccupazione  (…) Senza successo”.

Per quanto riguarda il secondo driver liberista, la regolazione dei mercati, le sedimentazioni del conformismo culturale nella sinistra ufficiale sono imponenti e il terrore di essere scomunicati come “sovranisti” paralizzante. Concentriamo l’analisi sullo spazio economico dell’Ue. Viene trascurato o è completamente ignorato che esso mette in competizione non le aziende e le capacità imprenditoriali, ma i sistemi di welfare. Da quando l’area dei “liberi” movimenti di capitali, merci, servizi e persone è stata allargata, senza filtri protettivi, dagli Stati della “vecchia Europa”, a tassazione e welfare maturi e contratti di lavoro solidi, agli Stati dell’Est Europa, dove il lavoro costa poche centinaia di euro al mese e la tassazione delle imprese e il welfare sono miseri, il mercato unico europeo ha colpito incessantemente il lavoro. È diventato una forza di gran lunga più potente delle visibilissime manovre di finanza pubblica “lacrime e sangue”. L’ulteriore estensione dell’Ue ai Balcani, all’Ucraina, alla Georgia e alla Moldavia aggraverebbe le condizioni di lavoratori e lavoratrici e piccole imprese. Gli effetti corrosivi determinati dall’ordinario funzionamento del mercato unico sono stati drammaticamente potenziati da direttive specifiche. Esemplifico: la Direttiva Bolkestein, promotrice e garante del principio di “libertà di stabilimento”, ossia la possibilità per un’impresa di un determinato Stato di potersi stabilire ed operare in ogni altro Stato dell’Ue; la Direttiva sui lavoratori dislocati (“posted workers”), a tutela del principio dello “Stato d’origine”, attraverso il quale si consente ad un’impresa proveniente da uno Stato a welfare minimo e retribuzioni pari ad un quarto o un quinto dei livelli contrattuali conquistati al di qua del muro di Berlino di venire a produrre nelle nazioni a welfare maturo e contratti nazionali dignitosi e di portarsi dietro le dirompenti normative e retribuzioni di casa. Il combinato disposto delle due Direttive ha messo in moto una devastante macchina di svalutazione del lavoro, di allargamento delle disuguaglianze e di impoverimento dello Stato sociale nella “vecchia Europa”. Senza poter qui entrare nel merito (rinvio al mio “Il mestiere della Sinistra nel ritorno della Politica”, pubblicato qualche mese fa da Castelvecchi), oltre alla dimensione economica e sociale, rilevo una questione giuridica decisiva: la radicale contraddizione tra la nostra Costituzione ed i Trattati europei. Ne scrive accuratamente Cesare Salvi, in una eccellente riflessione su “Capitalismo e diritto civile” (Il Mulino, Bologna, 2016). Salvi ripercorre tre sentenze analoghe prodotte nel 2007 dalla Corte di Lussemburgo. Ad esempio, nella sentenza “Laval”, la Corte di Giustizia europea condanna le azioni dei sindacati svedesi, nonostante siano previste dalla loro legislazione nazionale e dalla loro Costituzione. Sono azioni finalizzate a contrastare l’applicazione ai dipendenti di un’impresa operante in Svezia, ma con sede legale in Lettonia, delle condizioni lavorative e salariali lettoni, ovviamente peggiori di quelle garantite ai lavoratori svedesi. In sostanza, commenta Salvi, “la tutela della concorrenza diviene così non garanzia della parità di trattamento tra imprese nazionali e imprese di altri Stati, ma garanzia della libertà dell’impresa di scegliere l’ordinamento giuridico che consenta le condizioni migliori per essa (e peggiori per i dipendenti): concorrenza tra ordinamenti, non tra imprese. (…) Che la libera prestazione dei servizi rientri nel novero delle libertà economiche garantite dal Trattato non è in discussione. Ma l’interpretazione che ne dà la Corte di giustizia non è conforme ai principi della Costituzione italiana. In base a tali principi, infatti, non solo non dovrebbe essere considerata violata la libertà economica se uno Stato ritenga di applicare le norme interne a tutti i lavoratori operanti su proprio territorio, quale che ne sia la nazionalità e quale che sia lo Stato nel quale ha sede sociale l’impresa che li utilizza; ma anzi dovrebbe giungersi alla conclusione opposta, del contrasto cioè con le norme costituzionali di una disciplina che preveda tutele differenziate per i lavoratori, in base alla loro nazionalità.”

In sintesi, i Trattati europei attribuiscono primato incondizionato ai diritti economici. Sono considerati libertà da tutelare a prescindere dal loro portato sociale. Nella nostra Costituzione, ma vale anche per altre Costituzioni, invece, i diritti economici sono limitati da una imprescindibile funzione sociale (articoli da 41 a 45). Di fronte all’evidente divergenza, la nostra Corte Costituzionale in almeno 3 sentenze (183/1973, 170/1984, e 115/2018) ha riconosciuto che la normativa europea può essere soggetta al sindacato della Consulta in caso di contrasto “con i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale e i diritti inalienabili della persona umana”. Quindi, i giudici costituzionali italiani ma, come abbiamo letto, anche i giudici costituzionali tedeschi, cechi, portoghesi e, da ultimo, polacchi, evidenziano “controlimiti” al primato del diritto europeo, ossia principi primari che non possono essere lesi dal diritto comunitario che, invece, prevale, come le citate sentenze della Consulta affermano, sulle altre norme costituzionali.

Qui, non si mette in discussione la necessità di un ordinamento giuridico europeo condiviso e affidato alla giurisprudenza di una Corte sovranazionale. Qui, si pone un problema politico e di democrazia decisivo per la dignità del lavoro, la lotta alle disuguaglianze, la conversione ambientale. Esorcizzarlo a colpi di anti-sovranismo, come fa sistematicamente la sinistra ufficiale, implica abdicare alla propria autonomia culturale e rinunciare ad esercitare il proprio mestiere. Qui, arriviamo al nodo politico centrale, efficacemente sintetizzato da Cesare Salvi nel testo citato sopra: “il principio sociale che informa la nostra Costituzione è da considerare principio supremo e quindi prevalente rispetto a quelli del diritto europeo?” L’astrazione dei diritti economici e del diritto di proprietà dalla loro funzione sociale determina la non riconoscibilità del nostro ordine costituzionale? La risposta, tratta dalle letture di costituzionalisti di vari orientamenti culturali, è sì: il principio sociale è cardine della nostra Carta fondamentale, è principio supremo, ne è tratto di riconoscibilità. Quindi, secondo almeno una parte, larga e autorevole, della dottrina e della giurisprudenza costituzionale, il principio sociale prevale sulle norme dei Trattati europei in conflitto con esso in quanto è un “controlimite”.

In conclusione, è utile, anzi urgente, per chi vuole tornare a fare il mestiere della Sinistra, andare oltre la superficie della politica di bilancio, della revisione del Patto di Stabilità e Crescita e della “riforma” del MES per affrontare, controcorrente, il tabù della politica monetaria e il sacro totem dei diritti economici liberati dalle responsabilità sociali previste nella nostra Costituzione.

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