Archiviare le narrazioni deterministiche della globalizzazione
Il PD e la sinistra tutta debbono chiedersi: perché i processi di svalutazione del lavoro sono stati così poco contrastati anche sul piano teorico e culturale? Perché ci si è attardati nella puerile esaltazione della “fine del lavoro” (e attenzione; Grillo e il movimento “cinque stelle” hanno basato la loro ipotesi di “reddito di cittadinanza” sull’esaltazione della jobless society)? Perché, anche a sinistra, si è stati così frettolosi nell’archiviare il Novecento, “secolo del lavoro” e a tacciare la Costituzione italiana di “lavorismo” novecentesco? Perché non si è riusciti a intercettare la “mobilitazione del risentimento” operata dai populismi e si è lasciato spazio alla capacità di un seduttivo “populismo di destra” di “rubare” temi propri della sinistra (compresa l’attenzione al lavoro e alla classe operaia)? La sinistra e il PD possono rispondere a queste domande soltanto se si danno una più perspicua rappresentazione di ciò che ha provocato l’avvento del neoliberismo, facendo fino in fondo i conti con esso e disperdendo quell’alone di “inspiegato” che persiste attorno a narrazioni deterministiche della globalizzazione sregolata, dell’ondata di privatizzazioni, della ipertrofia finanziaria, della precarizzazione del lavoro, come se fossero stati fenomeni ineluttabili, naturalisticamente necessitati e non veicolati da una precisa intenzionalità politica. Ne discenderebbe anche una più puntuale identificazione, e ammissione, degli errori compiuti dalle sinistre nel traumatico passaggio dai “trent’anni gloriosi” di ispirazione keynesiana al neoliberismo affidato solo al primato del mercato e del profitto. Se il lavoro e il “senso di responsabilità collettiva” affidato alle istituzioni pubbliche sono state le grandi vittime del neoliberismo, il drastico indebolimento della sfera lavorativa e delle forze sociali che di essa vivono e ad essa si ispirano a cui abbiamo assistito negli ultimi trent’anni ha certamente a che fare con le Terze Vie à la Tony Blair, di cui non ci si può limitare a segnalare che volevano cambiare il neoliberismo “dall’interno” (come fanno Salvati e Dilmore), ma a cui va chiaramente imputata la fallacia delle convinzioni secondo cui i rischi del mercato del lavoro non esistessero più, i ceti medi fossero corposamente entrati nella categoria dei detentori di asset patrimoniali e finanziari, non ci fosse più bisogno del welfare state. Anche l’ostilità allo Stato è stata alimentata da anni di nefasta teorizzazione di matrice blairiana della superiorità delle pratiche di governance su quelle di government, esplicitamente indicate, e auspicate (si pensi in Italia ai numerosissimi scritti di Sabino Cassese), come metodi di “amministrativizzazione” mediante “depoliticizzazione”.