IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Il 25 settembre della sinistra. Continuità e rottura

Dio, patria, famiglia, rappresentano valori forti, il cui potente richiamo evocativo sarebbe stato neutralizzabile solo dal rinnovamento di valori altrettanto forti quali, “libertà, eguaglianza, fraternità”. Rinnovandoli.

Per la sinistra il risultato delle elezioni politiche del 25 settembre ha in sé i caratteri sia della drammatica rottura, sia della inesorabile continuità, secondo quanto suggerisce Gaetano Azzariti. “Rottura drammatica” perché, non ostante sul piano quantitativo la somma dei voti totalizzati dalla “destra-centro” (definizione di Sergio Fabbrini ) non si discosti molto da quella più volte raggiunta nel passato (circa il 43%), sul piano qualitativo siamo di fronte alla necessità del drastico riorientamento imposto dall’incarico di premier ricadente, per la prima volta nel dopoguerra, su una leader donna cresciuta in un ambiente con dichiarate ascendenze fasciste. E “rottura drammatica” perché, non ostante sul piano quantitativo i dati ci dicano che la sinistra tutta, se fosse stata unita, avrebbe tradotto in termini di seggi in Parlamento l’essersi mantenuta maggioranza nel Paese (con circa il 53%) ma dispersa e divisa, la situazione appare oggi talmente ingarbugliata, sconcertante e disperante da rendere fondato il rischio che la desertificazione attuale si traduca nell’unico futuro possibile per la sinistra italiana.

Il riformismo autentico non può che essere radicale

Ci sono, tuttavia, anche importanti elementi di continuità che emergono quando si considerino attitudini di lungo periodo limitanti la forza della sinistra, tra cui spiccano la sottovalutazione della necessità della continua rivitalizzazione dell’ancoraggio a valori forti e la trascuratezza dell’orizzonte del “progetto”. “Dio, patria, famiglia”, le parole declamate da Giorgia Meloni, rappresentano valori forti, il cui potente richiamo evocativo sarebbe stato neutralizzabile solo dal rinnovamento di valori altrettanto forti quali, “libertà, eguaglianza, fraternità”, le categorie chiave della modernità progressista così cariche di contenuti sociali e di istanze utopiche. Così come la dimensione del “progetto” avrebbe potuto essere dirimente se avesse dato corpo – nell’epoca della pandemia e del ritorno della guerra in Europa ma anche di una gravissima crisi climatica, di un’inflazione senza freni, di profondi riassetti produttivi, del profilarsi di un’innovazione tecnologica senza precedenti – al disegno di un modello alternativo di sviluppo e al rilancio di grandi ideali, come la “piena e buona occupazione” fino alla formulazione di programmi di “lavoro garantito” e di ricorso allo Stato come employer of last resort, superando in avanti la sterile dicotomia riformismo versus massimalismo. Il riformismo autentico non può non essere radicale come fu quello del New Deal di Roosevelt e per tale radicalità progetti e programmi contano molto di più di quanto non si creda, ce lo ricordano l’attenzione e il dibattito che suscitarono le famose 88 tesi (la cui intensa e partecipata gestazione durò più di un anno) con cui l’Ulivo vinse le lezioni nel 1996. A loro volta, questione dei valori e questione del progetto sono alla base di problematiche più profonde, a partire dalla visione idilliaca della globalizzazione e della protratta inerzia o addirittura subalternità al neoliberismo. Tali problematiche profonde si ripropongono oggi per tutte le forze progressiste, in Italia, in Europa, ovunque nel mondo.

I nodi irrisolti e gli equivoci di fondo del Pd

Per il Pd, il cui destino dovrebbe stare a cuore a tutti, rimanendo comunque il partito della sinistra italiana con il maggior peso, elettorale e politico, vengono al pettine nodi lasciati a lungo irrisolti, risalenti addirittura alle sue origini, che hanno dato luogo ad alcuni equivoci di fondo, mai adeguatamente chiariti e discussi. Si tratta di: a) la presupposizione tacita che il partito democratico dovesse essere sostanzialmente un partito “moderato” (per questo travalicante l’asse destra/sinistra), nella convinzione che riformismo sia equivalente a moderatismo e che le elezioni si vincono solo al centro e per questo bisogna rassegnarsi al moderatismo, “disintermediando” e abbandonando una volta di più i riferimenti sociali tradizionali; c) l’idea che il partito democratico, in quanto “post-ideologico”, dovesse anche essere “post-identitario” (per questo più attento alla buona amministrazione che non alla costruzione di “visioni” e di “progetti” e privo di referenti sociali primari). Oggi alcuni scoprono la quasi estromissione del tema del ‘salario’ dal confronto pubblico e una questione salariale che ha perduto centralità nel dibattito politico. Ma le cose sono ancora più gravi, perché è sull’intera problematica del lavoro che da decenni grava un “oscuramento teorico” che è causa ed effetto della sua crescente “invisibilità politica” e che lascia la Costituzione del 1948 gravemente incompiuta. La profezia della “fine del lavoro” si è rivelata senza alcun fondamento (anche perché decretata quando le forze di lavoro quadruplicavano a livello mondiale, per effetto soprattutto dell’apporto lavoristico della Cina): la fine del lavoro corrisponderebbe, in realtà – affermano Alain Supiot e Axel Honneth – alla fine dell’umanità come specie creatrice di nuovi oggetti e di nuovi simboli. Però, la mancata illuminazione teorica della problematica del lavoro è all’origine dell’omissione, anche da parte della sinistra, di un compito cruciale – rappresentare e mediare i conflitti sociali –, a sua volta alla base della perdita di autorevolezza e autorità della politica italiana, anche quella di sinistra.

Archiviare le narrazioni deterministiche della globalizzazione

Il PD e la sinistra tutta debbono chiedersi: perché i processi di svalutazione del lavoro sono stati così poco contrastati anche sul piano teorico e culturale? Perché ci si è attardati nella puerile esaltazione della “fine del lavoro” (e attenzione; Grillo e il movimento “cinque stelle” hanno basato la loro ipotesi di “reddito di cittadinanza” sull’esaltazione della jobless society)? Perché, anche a sinistra, si è stati così frettolosi nell’archiviare il Novecento, “secolo del lavoro” e a tacciare la Costituzione italiana di “lavorismo” novecentesco? Perché non si è riusciti a intercettare la “mobilitazione del risentimento” operata dai populismi e si è lasciato spazio alla capacità di un seduttivo “populismo di destra” di “rubare” temi propri della sinistra (compresa l’attenzione al lavoro e alla classe operaia)? La sinistra e il PD possono rispondere a queste domande soltanto se si danno una più perspicua rappresentazione di ciò che ha provocato l’avvento del neoliberismo, facendo fino in fondo i conti con esso e disperdendo quell’alone di “inspiegato” che persiste attorno a narrazioni deterministiche della globalizzazione sregolata, dell’ondata di privatizzazioni, della ipertrofia finanziaria, della precarizzazione del lavoro, come se fossero stati fenomeni ineluttabili, naturalisticamente necessitati e non veicolati da una precisa intenzionalità politica. Ne discenderebbe anche una più puntuale identificazione, e ammissione, degli errori compiuti dalle sinistre nel traumatico passaggio dai “trent’anni gloriosi” di ispirazione keynesiana al neoliberismo affidato solo al primato del mercato e del profitto. Se il lavoro e il “senso di responsabilità collettiva” affidato alle istituzioni pubbliche sono state le grandi vittime del neoliberismo, il drastico indebolimento della sfera lavorativa e delle forze sociali che di essa vivono e ad essa si ispirano a cui abbiamo assistito negli ultimi trent’anni ha certamente a che fare con le Terze Vie à la Tony Blair, di cui non ci si può limitare a segnalare che volevano cambiare il neoliberismo “dall’interno” (come fanno Salvati e Dilmore), ma a cui va chiaramente imputata la fallacia delle convinzioni secondo cui i rischi del mercato del lavoro non esistessero più, i ceti medi fossero corposamente entrati nella categoria dei detentori di asset patrimoniali e finanziari, non ci fosse più bisogno del welfare state. Anche l’ostilità allo Stato è stata alimentata da anni di nefasta teorizzazione di matrice blairiana della superiorità delle pratiche di governance su quelle di government, esplicitamente indicate, e auspicate (si pensi in Italia ai numerosissimi scritti di Sabino Cassese), come metodi di “amministrativizzazione” mediante “depoliticizzazione”.

Il blairismo post mortem di Renzi e Calenda

In realtà, anziché riproporre il blairismo post mortem caro a Renzi e Calenda, non è ozioso tornare a riflettere sui motivi strategici dell’eccesso di condiscendenza alla tesi che il neoliberismo fosse di sinistra (tipico del blarismo degli anni ’90) come una delle cause fondamentali della crisi delle sinistre in questo scorcio di secolo. Dovremmo risalire anche ai limiti costitutivi della “culture politiche” dei soggetti che hanno dato vita al PD, perché la “fusione non elaborata” ha spinto non solo ad abbandonare quelle culture, ma anche a lasciarne inerzialmente vivere limiti vistosi. La convinzione che il neoliberismo fosse di sinistra si radicò in contesto che vide le forze che tentarono di unirsi nel Partito Democratico assai inclini a sorvolare su aspetti critici delle culture fondative, convinte che l’osannato clima postideologico e postidentitario avrebbe consentito di lasciarli sullo sfondo. Sono aspetti presenti in tutte le formazioni che in Europa e in Italia si collocano a sinistra, comprese quelle di origine cattolico-democratica: si pensi al tradizionalismo e al conservatorismo che tarpava le ali alle correnti di sinistra della Democrazia Cristiana e oggi grava come un macigno sullo straordinario magistero di papa Francesco. Nel Pci l’amalgama meno produttivo è stato quello tra una fascinazione totalizzante dell’”autonomia del politico” e una visione dei processi economici basata sull’esaltazione della concorrenza e l’indifferenza o l’ostilità agli apparati e alle imprese pubbliche – non molto diversa da quella che è al cuore oggi dell’impostazione di Mario Draghi –, una visione frutto della persistenza di una matrice veteromarxista e terzinternazionalista, a vocazione antimonopolistica e critica del “capitalismo monopolistico di Stato”.

Pesano anche i limiti della cultura economica e istituzionale del PCI

Dal punto di vista che desidero approfondire vale la pena soffermarsi su alcuni di tali aspetti presenti nel PCI, da cui io provengo. Da un lato, storicamente la cultura del vecchio PCI è stata molto influenzata dal liberalismo di Labriola, Croce, Einaudi, un liberalismo che si saldava con residui terzinternazionalisti “classisti” e “crollisti” poco atti a far cogliere il dinamismo e le trasformazioni. Tanto è vero che, a sinistra, le prime impostazioni innovative – con significativi germogli di quel keynesismo introdotto in Italia da Fanfani – si colgono nella CGIL, prima con il Piano del Lavoro del 1949 (che, impregnato com’era della matrice azionista propria di Foa e Trentin, venne accolto con una paradossale convergenza tra l’ostilità di De Gasperi e della DC di centrodestra e la freddezza di Togliatti e del PCI, con la sua singolare inclinazione “liberal-einaudiana”) e poi con l’elaborazione sul neocapitalismo degli anni ’60 e quella successiva. E tanto è vero che la generalità degli esponenti del PCI rimase estranea ai tentativi di programmazione – straordinari anche sotto il profilo dell’investimento culturale, se riguardati con la consapevolezza dei problemi e dei ritardi odierni – messi in atto con il primo centrosinistra e veicolati da Ugo La Malfa, Giolitti, Ruffolo, Lombardi. Da un altro lato per gli eredi del PCI il persistente riferimento al “finalismo rivoluzionario” finiva con l’esentare da quella ricostruzione analitica accurata che la articolazione di un quadro autenticamente riformatore richiede, in particolare per quanto riguarda una “teoria dello Stato e delle istituzioni” di cui i comunisti furono carenti (nell’inconscio operava il pregiudizio secondo cui “lo Stato borghese si abbatte e non si cambia”), senza che ciò impedisse il proseguimento della straordinaria opera riformista nelle regioni rosse, la cui rappresentanza rimase però sempre minoritaria ai vertici nazionali. Così l’ondata neoliberista che arrivò anche in Italia dalla metà degli anni ’80 non trovò molti argini lungo il proprio cammino e le sinistre affrontarono inermi le flessibilizzazioni del mercato del lavoro, la “riduzione del perimetro pubblico”, le liberalizzazioni e le privatizzazioni.

Mettere al centro l’origine strutturale delle diseguaglianze

Ora è qui, sul lavoro e sul senso di “responsabilità collettiva” espresso dalle istituzioni pubbliche – che verrebbe inevitabilmente depotenziato se passasse la ultima versione di starving the beast (“affama la bestia”, e la bestia sono lo Stato e le istituzioni pubbliche) della destra, incarnata dalla flat tax a vantaggio dei ricchi e a detrimento dei servizi pubblici – che passa nuovamente la discriminante destra/sinistra. Dobbiamo far avanzare la riflessione sullo “Stato innovatore”, secondo le linee indicate da Mariana Mazzucato e da altri. In primo luogo urge acquisire consapevolezza che le questioni dell’eguaglianza e della diseguaglianza – anche per evitare che vengano agitate con un carattere solo retorico e spesso inconcludente – vanno trattate facendo emergere non solo le implicazioni “redistributive” – su cui invece si concentra la letteratura prevalente in materia, compresi gli importanti lavori di Thomas Piketty – ma quelle “allocative” e strutturali, con al centro le problematiche del lavoro. Solo in un disegno nuovo e più complessivo di sviluppo, oltre le mere istanze redistributive, la problematica della diseguaglianza può evitare di concentrarsi quasi esclusivamente sul destino dei poveri, degli “ultimi”, dei “diseredati” e fare spazio all’attenzione ai bisogni e alle crescenti difficoltà dei ceti medi. L’analisi delle conseguenze delle diseguaglianze va ricondotta ai suoi termini “primari/strutturali” dai quali si ricava anche una nuova dinamica capitale/lavoro che apre “finestre di opportunità” sulle quali democraticamente intervenire. Quei termini, infatti, dalla fine degli anni ’70 hanno visto un enorme cambiamento delle quote del valore aggiunto con uno spostamento fino a 20 punti dalla quota che va al lavoro a quella che va al capitale (in grado di appropriarsi di tutti gli incrementi di produttività), per il quale è stata determinante, secondo la ricostruzione di Atkinson e di Deaton, l’affermazione di una disoccupazione crescente insufficientemente contrastata dai governi (a differenza di quanto era avvenuto nei “trenta gloriosi”).

Ripensare il modello di sviluppo. Ripartire dalla promozione ex ante del lavoro

E tutto questo implica il disvelamento dei limiti profondi dei soli trasferimenti monetari come strumento di politica economica, a cui però le sinistre ricorrono incessantemente, secondo la denunzia che fa anche Michele Prospero. Uno strumento monetario – quali sono tanto il reddito di cittadinanza quanto la decontribuzione – si configura inevitabilmente come “compensazione ex post” dei disagi derivanti dalla mancanza di lavoro e non come “promozione ex ante” del lavoro e di altre opportunità, promozione che è tipica, invece, della fornitura di strutture e di servizi, ritrovandosi così nell’impossibilità di affrontare in termini strutturali le problematiche strutturali che la crisi globale ci pone, a partire dalla necessità di ridisegnare l’intero modello di sviluppo. Con il dilagare di strumenti monetari e cash l’operatore pubblico è indotto alla accentuazione di una deresponsabilizzazione già in atto – complice anche la lunga cura depotenziante e dequalificante gli apparati pubblici imposta dal neoliberismo –, perché per qualunque amministratore è più facile dare un trasferimento monetario che cimentarsi fino in fondo con la ideazione, la ricostruzione, l’alimentazione, la manutenzione di un tessuto produttivo e sociale vasto, articolato, strutturato.

Un’innovazione orientata alla soddisfazione di grandi bisogni insoddisfatti

Da una nuova “centralità del lavoro” possiamo trarre la spinta a una maggiore attenzione verso la problematica dell’innovazione. Anche “la direzione del cambiamento tecnologico” va identificata, secondo il suggerimento di Atkinson, come impegno intenzionale ed esplicito da parte delle istituzioni collettive, finalizzato ad aumentare l’occupazione. La retorica dell’esogenità e della naturalità dei fenomeni è spesso utilizzata per sostenere la causa della neutralità degli stessi. Ma non possiamo non vedere l’intenzionalità esplicita e determinata con cui l’operatore pubblico e i soggetti sociali possono guidare l’innovazione, come nel caso della sfida ingaggiata dalla Darpa (agenzia americana pubblica) quando ha offerto un premio da un milione di dollari per un’automobile senza guidatore, il cui risultato diretto è stata la Google’s driverlesscar. E se questa “direzione” intenzionale è stata possibile per l’automobile autoguidata perché non dovrebbe essere possibile per la generazione di altre innovazioni, più socialmente utili, orientate a soddisfare grandi bisogni insoddisfatti? Abbiamo bisogno di sottoporre a critica sia la “razionalità politica” dell’innovazione, sia la sua “razionalità scientifica”, in particolare la “razionalità dell’algoritmo” con la sua pretesa di corrispondere a una naturalizzazione oggettiva volta a trasformare tutti i fenomeni in stati di necessità chiusi allo spazio dell’alternativa. In verità quello che si impone è un grande investimento culturale, la necessità di un largo sforzo di discussione e elaborazione collettiva che da una parte incorpori ricerca e analisi, dall’altra si cimenti con la produzione di nuovo pensiero e di nuova teoria. I compiti immani di fronte a noi sono affrontabili solo attraverso la collegialità, la condivisione, la partecipazione, il concorso di molte intelligenze, l’attivazione di tutte le passioni.

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