IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Il convitato di pietra nella revisione del Patto di stabilità: la BCE

La riforma del Patto di stabilità avanzata dalla Commissione tace su un punto cruciale dell’assetto complessivo dell’eurozona: il ruolo della BCE e l’intangibilità del dogma della separazione tra politica monetaria e politiche di bilancio.

La Commissione europea ha presentato, a inizio novembre 2022, una proposta informale di revisione delle regole fiscali (Patto di stabilità e crescita), ampiamente commentata in questo numero di Fuoricollana.it dai contributi di Salmoni e D’Antoni. Nella proposta troneggia un vuoto imbarazzante: il ruolo della politica monetaria e della BCE, di cui nulla si dice, se non con un minimo accenno in una breve nota a piè pagina. Il che vale a confermare l’impostazione vigente dei trattati, che è anche il tallone d’Achille del modello di Maastricht: la netta separazione tra politica monetaria e politiche economiche e di bilancio, con la prima affidata a una Banca centrale assolutamente indipendente e le seconde ai singoli Stati membri (Dani).

Il figurino sempre più logoro della separazione tra politica monetaria ed economica

Le politiche economiche e, soprattutto, quelle fiscali sono, in realtà, sottoposte al coordinamento delle istituzioni europee, ma si tratta di un coordinamento sbilanciato sul versante del rigore di bilancio imposto agli Stati. Questi ultimi non possono perseguire politiche autenticamente espansive – di stampo keynesiano –, pena l’interferenza con l’obiettivo primario della politica monetaria, cioè la stabilità dei prezzi. La BCE, in altri termini, non deve essere influenzata dalla necessità di fiancheggiare politiche di bilancio “deficit-spending”, posto che una crescita eccessiva del debito pubblico in alcuni Stati la costringerebbe a fiancheggiare questi ultimi con politiche monetarie espansive e, così, a deviare dal suo obiettivo primario di lottare contro l’inflazione, privandola sostanzialmente della sua autonomia di scelta. L’esito dell’assetto attuale è quello della c.d. “monetary dominance”, ossia di un predominio della politica monetaria su quella fiscale (Chessa).

Questo figurino della politica monetaria indipendente e votata al rigore, come noto, si è assai deformato durante la crisi dei debiti sovrani (il Quantitative easing lanciato nel 2015 da Mario Draghi) e, ancor di più, durante la crisi pandemica (il Pandemic Emergency Purchase Programme del 2020), quando la BCE ha acquistato ingenti quantità di debito pubblico degli Stati più esposti sui mercati finanziari. Ne è derivato un inevitabile sconfinamento della politica monetaria in quella economica, cui ha reagito con crescente virulenza il Tribunale costituzionale tedesco, fino alla dichiarazione di guerra del noto caso Weiss del 5 maggio 2020, con cui i giudici costituzionali tedeschi hanno apertamente accusato la BCE (e la Corte di giustizia che l’ha fin qui supportata) di violare i trattati e la Legge fondamentale tedesca. Sconfinare nella politica economica, sia pure al dichiarato fine di preservare la stabilità finanziaria dell’intera eurozona, infatti, comporta per la BCE l’invasione della sfera decisionale rimessa al circuito democratico dei singoli Stati, in assenza di qualsiasi responsabilità politica. L’assunto è, invero, controvertibile, posto che anche le scelte rigoriste della BCE comportano delle pesanti ricadute asimmetriche sulle economie nazionali, avvantaggiando gli Stati “creditori” e penalizzando i “debitori” (come accadde con la BCE di Trichet e del primo Draghi: Modi). Ma si tratta di un dilemma irrisolvibile nell’attuale assetto dei trattati europei.

L’imbarazzato silenzio della Commissione sul ruolo della BCE

La proposta della Commissione guarda soltanto al versante della politica fiscale, quale elemento centrale della politica economica, prefigurando nuove modalità – apparentemente più flessibili – di riduzione dei debiti pubblici nazionali, gonfiatisi notevolmente durante la crisi pandemica. Nulla è detto sul ruolo della BCE nell’alleviare il costo del debito e, in particolare, nell’impedire il noto fenomeno degli spread, ossia del diverso costo del debito pubblico denominato in euro dei singoli Stati membri. Un problema spinosissimo, la cui risoluzione passerebbe inevitabilmente per la ridefinizione del ruolo e dell’indipendenza della BCE, ossia la messa in discussione del dogma di Maastricht e della condizione posta dalla Germania per la “comunitarizzazione” del marco. La BCE, in altre parole, può decidere la politica monetaria dell’eurozona a patto che questa politica corrisponda all’inveterata prassi tedesca della lotta all’inflazione, quale unico obiettivo della Banca centrale (come avveniva con la Bundesbank). Ogni altra opzione renderebbe inaccettabile, per la Germania, la messa in comune della moneta (art. 188 del Grundgesetz).

La riforma del Patto di stabilità e crescita mirerebbe a fornire regole migliori agli Stati membri, specie ai più indebitati. Questo, in teoria. In pratica, gli Stati maggiormente indebitati hanno più bisogno del supporto della BCE che non di regole fiscali. E qui scopriamo l’arcano: è proprio la BCE ad aver bisogno di nuove e più credibili regole fiscali che disciplinino gli Stati membri. Fu la stessa Presidente Lagarde, alla vigilia della pandemia, a invocare una riforma di quelle regole: per poter fiancheggiare gli Stati membri più indebitati (e scudarli dalla minaccia degli spread), la BCE deve porre la condizione del rigore fiscale, ma certo non può dettare essa stessa le condizioni di tale rigore. L’averlo fatto con le famigerate letterine dell’estate del 2011 a Italia e Spagna ha esposto la BCE a critiche delle opinioni pubbliche nazionali che minano in radice la sua legittimazione “tecnica”. Ed è stata proprio la BCE ad aver messo nero su bianco, nel nuovo strumento di “protezione della trasmissione” della politica monetaria (Trasmission Protection Instrument), che il suo scudo contro futuri attacchi speculativi dei mercati potrà avvenire solo a favore di quegli Stati che rispettano rigorosamente le regole fiscali. Senza la riattivazione di credibili regole fiscali, la BCE ha dunque le mani legate.

La BCE rappresenta il “lato oscuro” delle nuove regole fiscali proposte dalla Commissione anche per un’altra ragione. L’uovo di Colombo della riforma proposta novembre scorso sta nella negoziazione di un piano di rientro dal debito tra singolo Stato e Commissione: per gli Stati più indebitati, il potere di condizionamento dei mercati e della stessa BCE nella delicatissima fase delle trattative si rivelerà cruciale. Se quest’ultima vorrà far pendere i rapporti di forza da una parte piuttosto che da un’altra, non avrà che da accelerare la dismissione dei titoli pubblici che già detiene e/o non aprire l’ombrello del nuovo Trasmission Protection Instrument, lasciando lo Stato indebitato in balia degli spread (Guazzarotti).

Neutralizzare la BCE con il nuovo MES?

Il lettore avvertito sa anche che la BCE non può spiegare al massimo la sua funzione di difesa dell’eurozona (acquistando i titoli pubblici di Stati minacciati dal default, cioè – in pratica – dall’uscita dall’euro), senza l’ulteriore supporto del famigerato Meccanismo europeo di stabilità (MES), ossia del “fondo salva-stati”. L’arma decisiva della BCE, infatti, è costituita ancora dall’Outright Monetary Transaction (OMT; acquisto di titoli pubblici all’emissione), la cui minaccia è stata sufficiente a calmare i mercati nell’estate del 2012. Ma ciò può avvenire solo nei confronti degli Stati che hanno accettato l’assistenza del MES.

E con il MES veniamo, conclusivamente, all’altro silenzio imbarazzato della proposta della Commissione di revisione del Patto di stabilità e crescita. Il MES è un “veicolo finanziario” che presta assistenza finanziaria agli Stati membri a rischio di default a fronte di una “rigorosa condizionalità” (art. 136.3 TFUE). In pratica, si tratta, per gli Stati più indebitati, di un vero e proprio commissariamento da parte del MES, la cui trazione è – e rimarrà – tedesca (il direttore generale è stato, per 10 anni, il tedesco Regling; attualmente è il lussemburghese Gramegna; solo Francia e Germania hanno un potere di veto sulla nomina e sul rinnovo).

Come analizzato dal contributo di Federico Losurdo in questo numero, il MES ha subito una trasformazione con la revisione del suo trattato istitutivo, per la cui entrata in vigore manca solo la ratifica dell’Italia. Il nuovo MES avrà più autonomia di azione rispetto alle istituzioni dell’UE e avrà il potere di operare una valutazione della sostenibilità del debito degli Stati che inevitabilmente lo pone in competizione con la Commissione, con tutto ciò che ne consegue rispetto a eventuali condizionamenti dei mercati e degli Stati debitori più esposti. Il nuovo MES segna anche l’abbandono della prospettiva di una sua trasformazione in un’agenzia europea del debito (vedi il contributo di M. Amato in questo numero) e la chiara volontà degli Stati “creditori” di prevenire future politiche monetarie espansive della BCE (Brancaccio, Realfonzo): con tutte le critiche che possono muoversi alla discrezionalità di quest’ultima, per gli Stati indebitati è assai più sicuro affidarsi alla protezione di chi può creare moneta che non a quella di un opaco fondo sovrano, la cui capitalizzazione è troppo limitata per domare i mercati e la cui offerta di assistenza agli Stati debitori vale più come uno stigma che come una protezione. La proposta della Commissione tace anche su questo: e non è un silenzio incoraggiante!

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