IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Il declino imperfetto di Fernand Braudel

La decadenza italiana nel Seicento – una verità relativa a più ragioni e in più di un senso – si delinea in rapporto alla grandezza multiforme e nuova del Nord. Ma l’Italia non ha subito la ferita mortale della Spagna, non è caduta al piano zero della storia.

«La decadenza italiana – una verità relativa a più ragioni e in più di un senso – si delinea in rapporto alla grandezza multiforme e nuova del Nord: innanzitutto le Province Unite, di cui comincia l’età d’oro, e a livello minore, la Francia di Mazzarino e di Luigi XIV e l’Inghilterra dopo la fine della guerra civile. (…) Il fatto che questo spazio sia parzialmente quello occupato dalla Riforma, ci orienterebbe verso la tesi di Max Weber sulla quale dovremmo tornare più avanti. Ma Gusdorf non segue questo cammino: egli difende e patrocina retrospettivamente, nella sua è emozionante arringa, la libertà e la tolleranza: senza queste niente scienza, niente pensiero fecondo. Ma se così fosse, va detto che il processo di Galileo non è certo il solo avvenimento drammatico del secolo XVII. Non è certo un campione, nel secolo prima, Calvino: il processo di Serveto non è meno orribile di quello di Bruno. E per Lutero, Copernico era soltanto un folle. Eppure la vita scientifica e l’economia in ascesa del Nord hanno ben dovuto adattarsi a tutto questo.
Quello che però sfugge all’Italia intollerante non è soltanto la scienza, è anche la preponderanza economica. Con lo spirito soffre anche il suo corpo. Dobbiamo forse credere a Max Weber e alle sue tesi arcinote sulle origini protestanti del capitalismo? Secondo lui, la Riforma avrebbe disposto di un vantaggio esclusivo nelle competizioni intraprese allora per il dominio del mondo: avrebbe inventato il capitalismo. Come se questo capitalismo che rifiorisce nel Nord non fosse spuntato prima e non si fosse innanzitutto sviluppato nel Mediterraneo. (…) In realtà il capitalismo di Amsterdam non è più avanzato di quello dei paesi cattolici che sta per soppiantare. La lettera di cambio, le banche, le società commerciali, la compravendita delle azioni, il prestito a interesse sono tutti strumenti e pratiche che Genova e Venezia conoscono bene. Il prototipo della Banca di Amsterdam è il Banco di Rialto, fondato nel 1587, e Venezia ha trovato da sola le astuzie della moneta di banca che fa aggio su tutte le monete reali in circolazione sulla piazza. E nemmeno il Banco di Rialto è il prototipo delle istituzioni bancarie. Fra il capitalismo del Sud e quello del Nord c’è stato un trapasso, c’è stata imitazione e continuità, non rottura e scoperte di nuove tecniche economiche. (…)
Alla fine il povero ha vinto, e il troppo ricco Mediterraneo di fine Cinquecento – con al suo cuore l’Italia – non ha potuto resistere a questa concorrenza ostinata, in grado di impadronirsi delle linee più vantaggiose del vasto mondo, proprio perché queste linee, come s’è detto, sono lunghe, strette, fragili. Concorrenza di navi, concorrenza di mestieri, concorrenza di una manodopera poco esigente: la vittoria del Nord è una vittoria proletaria, dello stesso tipo di quella ottenuta su Bisanzio e sull’Islam dall’Italia di un tempo, attiva, pugnace poco dedita al lusso. Si tratta di un fenomeno banale, di cui i contemporanei – i vincitori inconsapevoli della loro vittoria o i vinti ciechi di fronte alla loro imminente disfatta – non hanno pienamente coscienza.
L’Italia che possiamo discernere intorno alla metà del secolo XVII e certamente spoglia di gran parte i suoi privilegi e delle sue prerogative. Essa si adatta al tetro (per non dire sempre tragico) Seicento, priva ormai di quella libertà d’espressione indispensabile perché fioriscono i giardini dello spirito. Le sue reti mercantili – non ancora scomparse – non dominano più il Mediterraneo, che ha perduto molta della sua importanza, né il resto del mondo raggiunto dall’Europa, che continua a crescere economicamente e ad aumentare di peso e d’importanza. Se i suoi porti restano ancora animati da un movimento delle navi, queste battono assai spesso bandiera straniera. Tanto più che se c’è un porto che conosca un’eccezionale prosperità, è Livorno, la strana città creata dei granduchi di Toscana, dove il mercante ebreo opera al servizio del capitalismo, lontano ma attento, degli olandesi. In questo caso non dobbiamo vedere una prova di vitalità, ma di asservimento: l’esatto rovesciamento della situazione di un tempo. Così pure a Napoli, le enormi vasche per l’olio vicino all’attuale Piazza Dante ci dicono la vittoria evidente del mercante e del trasportatore olandese. Prima l’olio era diffuso attraverso la rete dei mercanti bergamaschi insediati nelle Puglie al servizio di Venezia. Anche la banca italiana non ha più l’antico prestigio: il denaro genovese rimane a Genova, e Venezia vale come scuola per gli apprendisti banchieri, non più come importante centro finanziario. L’università di Padova, non è più il punto di incontro dell’Europa intellettuale. E finalmente l’abito maschile dai vivaci colori, la parrucca incipriata, le mode annunziate mediante l’invio di manichini da Parigi – “la piavola [pupattola] de Franza” a Venezia – si impongono al gusto italiano. Ora noi sappiamo che questo genere di primato preannunzia i successi politici, come lo provava prima la diffusione dell’abito alla spagnola.
Finalmente, tra le perdite subite dall’Italia dobbiamo scrivere a lettere nere le forti perdite di popolazione in seguito alle pestilenze: quella di Venezia (1629), quella di Milano e di Verona (1630), quella di Firenze (1630-31), quella di Genova e di Napoli (1656), ecc. Dai tempi della peste nera del secolo XIV la morte non aveva più compiuto simili stragi. Comunque tutta l’Europa ha subito colpi analoghi, e scongiurati questi flagelli, l’Italia è rimasta pur sempre il paese con maggiore densità di popolazione del continente: se il numero degli abitanti regolasse tutto, l’Italia si sarebbe salvata.
La lista dei privilegi perduti riguarda essenzialmente le supremazie esterne della penisola. Perciò immaginiamo per un istante l’Italia ancora splendida del ventennio 1575-95 priva di ciò che le dava fulgore e importanza mondiale, e avremo l’Italia del 1650. Certo, fra l’una e l’altra si potrebbero rilevare alcune differenze, ma approssimativamente le realtà sono le stesse.
Possiamo salvare la relativa ristrettezza (secondo la nostra ottica) di ciò che è stato sottratto all’Italia e capiremo quale poca distanza vi fosse tra la grandezza e la mancanza di grandezza. La supremazia italiana è scomparsa, ma se si eccettuano alcuni gruppi di patrizi e un certo artigianato, piuttosto ristretto di numero, la vita italiana non è molto mutata.
Così quello che la recessione italiana rivela intorno al 1650, è un paese che continua a mandare avanti, come sempre, il suo lavoro agricolo e artigianale, almeno per quanto è possibile. È l’Italia che Guicciardini, in apertura alla sua Storia d’Italia, diceva “coltivata non meno né luoghi più montuosi e più sterili che nelle pianure e regioni sue più fertili”, il paese che incantava Montaigne nel 1580, quando descrive nel suo Voyage en Italie le alte colline lucchesi messe accuratamente in valore da un’agricoltura sapiente. Nel suo libro innovativo sul paesaggio agrario italiano, anche Emilio Sereni non arriva a rilevare nessuna rottura decisiva per questo periodo. Da tempo, infatti. è cominciata al più basso livello delle terre coltivabili la lotta insidiosa contro le zone inondate e paludose, dove infuria la malaria. (…)
Un massiccio ripiegamento colpisce la Spagna, non meno che l’Italia, nelle sue strutture esterne: eccola priva degli ordinamenti sfarzosi di cui ricopriva la grande storia. Ma – come ha mostrato chiaramente Felipe Luiz Martìn – se la decadenza della Spagna deriva dall’America, la sua rovina procede da lei stessa. L’agricoltura della Castiglia – abbandonata a partire dalla metà del Cinquecento dal denaro dei ricchi. – è crollata, provocando una ferita mortale. Ora, proprio questa ferita è ciò che l’Italia non ha conosciuto. Nel secolo XVII – negli anni buoni o cattivi – vivrà del suo lavoro, mangerà del suo pane, eccettuati gli anni di gravi carestie, oppure i casi delle città situate in condizioni difficili, come Genova, Livorno o anche Roma, oppure come Napoli, sovrappopolate. La superiorità è notevolissima, e infatti l’Italia, non è caduta – checché si dica – al piano zero della storia. Se continua a vivere – come osserva Benedetto Croce – è perché di fronte a un’agricoltura rimasta in buona salute, la rete urbana non è stata smantellata, anche se tende a restringersi: sussistono ancora, dunque, un’accumulazione di capitale, una possibilità di ripresa, mentre si conservano alcune industrie, quantomeno quella della seta, o i prodotti di Napoli, accanto a un commercio che non è soltanto “passivo”, come si dirà nel secolo XVIII. Si discerne un certo equilibrio che non può essere mediocre quanto di solito si pretende.»

[Fernand Braudel, L’Italia fuori dall’Italia, in Storia d’Italia, Dalla caduta dell’Impero romano al secolo XVIII, Einaudi, 1974]

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