IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Il diritto di guerra e di pace

La prima traduzione italiana, curata da Carlo Galli e Antonio Del Vecchio, del De iure belli ac pacis. L’immanentismo giuridico di Grozio non espunge la guerra dalla storia ma neppure la glorifica come «guerra giusta». Un antidoto al normativismo universalistico e al decisionismo acefalo del politico che sta intossicando il tempo presente?

Nell’ambito delle iniziative promosse dalla Fondazione Gramsci Emilia-Romagna, quest’anno il tradizionale appuntamento con il Laboratorio di analisi politica curato dal Professor Carlo Galli metterà a tema la guerra. Nell’ultimo dei tre incontri previsti, il 4 aprile, verrà presentata la prima traduzione italiana integrale del capolavoro del filosofo olandese Ugo Grozio, De iure belli ac pacis (1625), al termine di un’impresa collettiva (tutti perspicui e indispensabili anche i contributi di Francesco Ingravalle, Giulia Maria Labriola, Merio Scaccola, Gabriella Silvestrini, Claudio Tommasi, Stefano Visentin) destinata a lasciare una traccia, che ha coinvolto in veste di curatori, lo stesso Carlo Galli e Antonio Del Vecchio. Non è casuale, poi, che l’opera veda la luce proprio a Napoli e sia curata dall’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici. C’è quasi una circolarità di destino: la prima traduzione parziale è infatti napoletana e risale al 1777. Riguardo l’Istituto, invece, è la conferma di un primato filosofico acquisito da tempo che trova pochi altri esempi in Italia e in Europa.

Sulla propensione degli Stati a farsi la guerra

Il fascino di quest’opera è nell’essere parte integrante dello sforzo teorico intrapreso per conferire nuovo fondamento razionale allo Stato moderno, dopo che le guerre civili di religioni avevano reso inservibile quello teologico. Non prive di fascinazione sono poi le avventure biografiche dell’autore. Laureatosi in legge all’Università di Leida, Ugo Grozio (Huig de Groot,1583-1645), uomo di temperamento mite, si schierò contro le tesi rigidamente predeterministiche dei seguaci calvinisti di F. Gomar. Per questo, dopo il Sinodo di Dordrecht (1618), venne condannato al carcere a vita. Con la complicità determinante della moglie evase due anni dopo, nascondendosi all’interno di una cassa di libri, e riparò definitivamente a Parigi. Là scrisse l’opera che lo ha reso giustamente celebre come fondatore, perlomeno secondo Pufendorf, della «scuola del diritto naturale».
In un inizio secolo segnato da controversie e crescenti guerre religiose l’originalità di Grozio è consistita nel concentrarsi non prioritariamente sui singoli stati ma sul loro sistema di relazioni e sulla propensione tra loro a farsi la guerra. Tanto che Hegel lo celebra quale teorico «del diritto esterno degli Stati» (Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, §7). Forse anche per quella scelta di ambito, vista la volontà di promuovere la concordia anziché la discordia, il presupposto antropologico, che rappresenta nell’opera la seconda peculiarità del discorso groziano, non è identificato nella dimensione solitaria e ferina dell’essere umano bensì nella sua inclinazione alla socievolezza. Ne consegue che il diritto positivo, che deve garantire un ordine giuridico stabile non si pone in contrasto ma in continuità con quel diritto primigenio.

Una variante giuridica del razionalismo politico moderno

Più in generale, quella di Grozio si può tranquillamene configurare come la variante giuridica del razionalismo politico moderno. Non prevale in questa prospettiva alcuna fuga in avanti, nel segno di un normativismo formalistico astratto (Kant); meno che mai un salto in una dimensione solitaria della decisione sovrana (Hobbes). Ciò comporta un prezzo teorico, consistente in un sovraccarico di casistiche di prove giuridiche a sostegno della prassi da promuovere e/o giustificare nel presente. Il passato, dunque, non viene abrogato come in Hobbes piuttosto assorbito dalle esigenze dei tempi perigliosi in cui si trova a vivere e pensare. Pur se schiacciato e non fatto rivivere nelle differenze qualitative delle varie epoche e civiltà, questo passato recuperato in tutte le sue più minute articolazioni consente all’autore di rendere ragione della molteplicità del mondo storico che ha di fronte. Il paradigma non dichiarato ma attivo nella sua opera è che il mondo storico e politico sia un libro scritto a caratteri giuridici. Questo consente di aprire una prospettiva, sia pure ancora embrionale, di auto-fondazione della società mercantile e commerciale in ascesa. Poi ripresa e sviluppata da Hume e da Smith (in antitesi secca con l’impianto hobbesiano che riconosce come naturale solo il diritto alla vita e la proprietà come diritto derivato).
Nella visione groziana il «diritto naturale» così rinvenuto precede sicuramente quello «civile», ma sul piano logico all’insegna della giuridicità è in una linea di sostanziale continuità con esso. Anzi è così stabile e durevole che Dio stesso non lo potrebbe scalfire. Detto altrimenti, la società internazionale degli Stati gravida di tensioni è sì orfana della centralità di Dio ma può ancora beneficiare almeno in parte della sua sostanza che in una sorta di processo emanativo informa le molteplici e plurali relazioni, che in quanto giuridiche si confermano essere saldamente razionali. Ne consegue, che i trattati tra gli Stati valgono a prescindere dalle singole confessioni di appartenenza, perché le diverse fedi rispondono comunque ad un’unica trama giuridica che sottende a quei rapporti.

La guerra assorbita nel diritto

Grozio, dunque, pacifista ante litteram? Niente affatto. La guerra non è negata, tantomeno stigmatizzata, solo assorbita nel diritto, il che attirò l’inevitabile condanna di un Kant. In particolare, il suo immanentismo giuridico non gli consente di espungere la guerra dalla storia ma neppure di glorificarla come «guerra giusta». La guerra in un certo senso per Grozio è la conferma sia pure traumatica della sussistenza di una trama razionale della realtà storica concreta. I diritti se non si possono reclamare davanti ad un giudice è nei campi di battaglia che rifluiscono e trovano sfogo. Mai però per sovvertire piuttosto per ritrovare un equilibrio momentaneamente interrotto. La guerra così intesa da Grozio non rischia mai di deragliare da uno schema tribunalizio di controversia puntiforme, con entrambi i contendenti che hanno titolo per far valere torti e ragioni. Sul punto Carlo Galli, nella sua densa Prefazione così si esprime: «La guerra [per Grozio] è una decisione non decisionistica ma giudiziaria, proprio come la politica non soltanto è la forma unitaria della società ma una manifestazione della sua giuridicità plurale e differenziata» (p. XVIII).
Grozio è un testimone illustre di un paradigma politico ancora operante, che prescrive che con la contingenza storica occorre misurarsi, senza i tagli tipici del razionalismo costruttivistico del moderno. Molto più semplice transitare dalla sua «coscienza giuridica» all’autocoscienza critica dei limiti della modernità svolta da Hegel. È un possibile auspicabile controveleno al normativismo universalistico astratto alla Kelsen ed al decisionismo acefalo del politico degradato che sta intossicando il tempo presente.

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