IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Il ritorno del nemico

E così, è scoppiata la quarta guerra mondiale. Dico quarta perché la terza guerra mondiale c’è già stata. È quella che chiamiamo “guerra fredda”.

La guerra fredda è stata una vera e propria guerra mondiale: ha coinvolto direttamente o indirettamente quasi tutte le nazioni del mondo, in tutti i continenti. Poi è finita con quella che è stata interpretata come una vittoria definitiva, totale, indiscutibile, meritata dell’Occidente. E quindi come il trionfo di un modello politico ed economico ultimo, insuperabile, supremo: una liberaldemocrazia non sempre così liberale e spesso neanche troppo democratica, sentita però come praticamente perfetta, comunque insuperabile, da estendere a tutti, dovunque, per sempre. Sì è parlato, e per vari anni è sembrata un’idea seria, da discutere seriamente, di “fine della storia”. E proprio questa è una radice, non l’unica radice certo, di quello che sta succedendo adesso.

Le guerre sono in concatenazione tra loro: quasi sempre una guerra nasce dalla guerra precedente, dagli errori compiuti alla fine della guerra precedente dai vincitori. Nel caso della prima e della seconda guerra mondiale questo è evidentissimo, ammesso da tutti gli storici. La seconda guerra mondiale non ci sarebbe stata se i vincitori della prima guerra mondiale non avessero fatto di tutto per schiacciare la Germania. Questo non significa naturalmente che Hitler avesse ragione, ma significa che senza gli errori dei vincitori della prima guerra mondiale Hitler non sarebbe esistito, non avrebbe avuto spazio politico, sarebbe rimasto per tutta la vita uno spostato con risibili velleità artistiche di cui nessuno si sarebbe accorto. La guerra fredda, o terza guerra mondiale come sarei tentato di chiamarla, nasce non so se proprio da errori, certamente da contraddizioni nel campo dei vincitori, che presentava differenze di ideologie, di sistemi sociali, di interessi geopolitici tali che una volta sconfitto Hitler i vincitori non potevano più stare insieme.

La guerra fredda finisce, nel 1991, con la dissoluzione dell’Unione Sovietica, in parte per crisi interna, in parte per pressioni esterne di carattere sia economico sia militare. Pensiamo all’episodio degli “euromissili”, quando gli Stati Uniti schierano in tutta Europa, Italia compresa, dei missili nucleari a corto raggio di impiego tattico, che rendono irrilevante l’unico vantaggio strategico che avevano i sovietici, cioè la grande superiorità di truppe corazzate che gli avrebbe consentito in caso di attacco di espandersi rapidamente a danno della Nato. A quel punto l’Unione Sovietica si trova sulla difensiva. Si chiude in sé stessa e viene travolta dai suoi problemi interni: i tentativi di riforma troppo tardivi di Gorbaciov, il fallito colpo di Stato contro Gorbaciov, il contro colpo di Stato di Boris Eltsin che porta direttamente all’autoscioglimento dell’Urss e al rifiorire del nazionalismo russo, di cui Putin è l’erede diretto.

Il crollo dell’Unione Sovietica è una svolta epocale, ma è soprattutto un’occasione mancata. C’è un episodio che ne può dare un’idea precisa. In occasione dell’incontro fra Gorbaciov e Reagan, pare che un alto diplomatico sovietico abbia detto a un suo omologo americano: “Vi stiamo facendo una cosa terribile: vi stiamo togliendo il nemico”. È esattamente quello che è successo, o meglio che stava per succedere. Con la fine dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti, la Nato, il blocco occidentale, le (vere o presunte) liberaldemocrazie si trovano improvvisamente di fronte all’assenza del nemico, e subiscono un’immediata crisi di identità. Come si fa ad essere i buoni, se non ci sono più i cattivi, se non c’è più l’Impero del Male? Come facciamo ad essere compatti tra di noi se non abbiamo da fronteggiare un pericolo, come facciamo ad avere un orientamento strategico e politico comune, se dall’altra parte nessuno ci minaccia?

L’assenza del nemico poteva essere colta come una chance per fare qualcosa di completamente diverso, cioè per uscire dagli schemi mentali consolidati e ricostituire identità geopolitiche non impostate in maniera strutturalmente conflittuale. Mi rendo conto che era una difficoltà enorme, gigantesca, titanica: ma il punto è che non ci si è nemmeno provato. Il 1° luglio 1991 viene sciolto il Patto di Varsavia. La Nato rimane in piedi. Contro chi?

Non sarebbe stato impossibile scioglierla o darle un senso nuovo. Nulla impediva che continuasse a esistere cambiando funzione e anche composizione, come grande organizzazione per la sicurezza e la cooperazione, in Europa e fuori, riducendo il suo profilo strettamente militare. Era tanto possibile che effettivamente ci si pensò, tanto da ventilare l’ipotesi che nella Nato potesse entrare la stessa Russia. Anche due politici italiani contrapposti tra di loro, Prodi e Berlusconi, ci provarono entrambi, e lo stesso Putin prese in considerazione l’idea. Certamente, la interpretò come una solenne consacrazione di una diarchia globale di Stati Uniti e Russia, come il riconoscimento reciproco di due imperi, e quest’idea recava in sé il proprio necessario fallimento. Ma dall’altra parte, nella politica americana e di riflesso nella politica della Nato, si fece una cosa completamente diversa: si cercò spasmodicamente di ottenere il ritorno del nemico.

C’era la chance di interpretare finalmente, si potrebbe dire per la prima volta nella storia dell’umanità, la politica internazionale non più secondo la classica contrapposizione tra amico e nemico, realizzando, se non un’unificazione, almeno un’ampia convergenza di Stati e organizzazioni internazionali verso problemi finalmente non più ridotti alla questione della pace e della guerra (l’ambiente, per esempio, che ormai, non illudiamoci, non è più questione all’ordine del giorno). Quest’occasione è stata perduta. Ripeto, era difficilissimo coglierla, ma si è fatta una cosa completamente diversa, e questo mi pare evidente se si considera la politica estera americana degli ultimi decenni. C’è stata un’ossessiva ricerca del nemico, fino al punto di inventarselo o perlomeno di ingigantirlo. Pensiamo al modo in cui è stata utilizzata la figura, tutt’altro che simpatica per carità, di Saddam Hussein, fino ad arrivare a una guerra contro di lui basata su prove false, su menzogne ormai unanimemente riconosciute, persino da chi ne fu responsabile di fronte alla comunità internazionale.

Certamente, bisogna fare attenzione a non impostare la cosa nei termini banali e infantili di buoni e cattivi. La guerra non si fa tra buoni e cattivi, ma tra cattivi e cattivi. Senza volere quindi minimamente demonizzare gli Stati Uniti, come purtroppo tanti fanno accusandoli di tutti i mali del mondo, non c’è dubbio che in tanti episodi recenti della storia mondiale gli Stati Uniti abbiano agito nell’identica maniera della Russia adesso. Se confrontiamo Putin con George Bush junior, o meglio con Dick Cheney che di fatto era il vero presidente, proprio non si saprebbe dire chi dei due ne esca peggio.

È difficile confrontare un episodio storicamente concluso come la guerra americana in Iraq con uno da poco iniziato e dagli esiti imprevedibili come l’invasione russa dell’Ucraina, comunque ci troviamo di fronte a situazioni in gran parte sovrapponibili. La guerra del Golfo è stata (per adesso, sia chiaro) oggettivamente molto più terribile e ha fatto molte più vittime, militari e civili, di quel che, per adesso, sta accadendo in Ucraina. Con questo naturalmente non stiamo giustificando Putin. Spero che sia chiaro: non c’è nessuna giustificazione per Putin. Ma le colpe non stanno mai da una sola parte, e vale anche in questo caso.

Al di là dei torti e delle ragioni, dobbiamo tener presente che si è creato un enorme squilibrio a livello geopolitico. Da una parte è stato sciolto il Patto di Varsavia. Dall’altra parte non è stata sciolta la Nato, ed anzi Stati Uniti e Nato hanno tenuto una politica (a torto o a ragione, non importa, di sicuro entrambe le cose) molto aggressiva. Non sempre coerente, non sempre ben finalizzata, ma molto aggressiva. Non direttamente in funzione antirussa, ma quasi peggio: senza la Russia. Senza tenerne conto. Considerandola come una sorta di nemico vinto, non più degno di interloquire su scala globale. Alimentando quindi frustrazioni e sogni revanchisti, certo irragionevoli ma non per questo incomprensibili e imprevedibili. Fino all’espansione a oriente della Nato, che di sicuro non aveva mire aggressive verso la Russia, non voleva essere una minaccia e probabilmente non è neanche stata interpretata come tale, ma come qualcosa di peggio che una minaccia: un’umiliazione. Forse non c’era l’intenzione precisa di considerare la Russia come il nemico, ma a questo punto la Russia stessa doveva scegliere se accettare di essere ritenuta irrilevante o tornare a farsi considerare come il nemico.

Naturalmente la Russia ci ha messo del suo. Questo è assolutamente evidente e Putin non è sicuramente una figura di politico lungimirante, equilibrato, dialogante e pacificatore. C’è stata una convergenza in una sorta di ritorno indietro nel tempo da entrambe le parti. Chi ha forzato di più la situazione, indubbiamente, è Putin, ma da entrambe le parti c’è stata una specie di corsa verso il passato, nel bisogno di ripristinare la figura del nemico. Una volta che ci si inventa il nemico poi bisogna agire di conseguenza. Bisogna schierare truppe, bisogna fare piani di difesa e naturalmente anche di attacco perché non si pensa mai soltanto in termini di difesa, qualunque organizzazione militare che non sia di proporzioni troppo piccole studia piani offensivi e non solo difensivi, perché non si sa mai, bisogna perlomeno pensarci. Se si verifica un’occasione che lo consigli, allora si fa la guerra, mascherandola da intervento umanitario in difesa di popoli oppressi da governi tirannici. Basta non chiamarla guerra, darle un altro nome. È esattamente quello che sta succedendo anche in questa circostanza.

Ci sono naturalmente altre questioni. Non si tratta solo di un conflitto per ora indiretto tra Russia e Nato, conflitto di cui entrambe le parti portano la responsabilità perché entrambe le parti avrebbero potuto prevenirlo. Questo è un aspetto della questione, ma ce n’è un altro, e riguarda precisamente i rapporti tra Russia e Ucraina.

La guerra tra Russia e Ucraina, anche in questo caso come sempre, ha un retroterra storico lungo. Senza arrivare fino all’alto medioevo alle origini della Rus’ di Kiev (come peraltro Putin stesso fa), il problema nasce perlomeno con la Rivoluzione d’Ottobre e la guerra civile russa, in cui l’Ucraina in gran parte, non totalmente, si trova dalla parte dei controrivoluzionari.

Quando Putin dice che gli ucraini o il loro governo sono dei neo-nazisti fa riferimento a precedenti storici reali, certo semplificandoli brutalmente, in maniera manichea e ovviamente molto interessata. Però è un dato storico che l’Ucraina è stata uno dei centri più importanti della reazione antibolscevica e che in questa reazione ha radici il nazionalismo ucraino, che sviluppa un’ideologia che potremmo alquanto impropriamente definire fascista e che nel nazifascismo poi in parte confluirà. La vicenda è complessa e coinvolge attori molto eterogenei. C’è una componente legata alla tradizioni di autonomia cosacca, che facevano di certe regioni dell’Ucraina un luogo particolare all’interno dell’impero zarista. C’è l’Armata Bianca del generale Denikin, ferocemente monarchico. C’è l’esercito nazionalista fondato da Simon Petljura, per circa un anno e mezzo primo presidente di uno Stato ucraino indipendente, e per questo considerato da molti ucraini il padre della patria. Petljura fu un rilevante intellettuale e politico, autore di una quantità sterminata di pubblicazioni sull’identità ucraina. Rivoluzionario antizarista, combattè sia contro i Bianchi e i loro alleati ucraini che contro i bolscevichi. Durante la sua presidenza, terribili pogrom massacrarono la popolazione ebraica, con molte migliaia di vittime. È tuttora controverso se Petljura, che non sembra essere stato personalmente antisemita, li avesse provocati o consentiti per compattare il consenso dei nazionalisti o semplicemente non fosse riuscito a impedirli. Sconfitto dall’Armata Rossa (che beninteso comprendeva moltissimi ucraini), Petljura riparò in esilio a Parigi, dove venne assassinato da un militante anarchico ebreo la cui famiglia era stata sterminata nei pogrom (pur colto in flagrante e reo confesso, l’omicida venne assolto).

Petljura è un personaggio che sembra fatto apposta per dare ragione a Putin. Ma non va dimenticato che è ucraino anche l’anarchico Nestor Machno, principale esponente di uno spirito rivoluzionario alternativo a quello bolscevico, molto calunniato in epoca sovietica, ma sicuramente una nobilissima figura di libertario, fondatore di una grande comunità anarchica contadina che espresse un proprio esercito, capace di sconfiggere i Bianchi di Denikin per poi essere a propria volta sconfitto dall’Armata Rossa. Machno morì poi in miseria a Parigi. È importante ricordarlo per non avere una visione a senso unico della storia politica ucraina.

Sotto il dominio sovietico, la poco fedele Ucraina viene duramente punita. La collettivizzazione forzata delle campagne viene condotta con spietata durezza, con molte migliaia di contadini fucilati o deportati. Ne deriva, nel 1932-1933, una carestia che produce un numero tuttora discusso ma sicuramente molto alto di vittime: non meno di un milione e mezzo secondo stime prudenziali. È quello che gli ucraini chiamano Holodomor, “sterminio per fame”, e che L’Onu ha ufficialmente riconosciuto come genocidio. Non c’è da meravigliarsi che ci sia una reazione. Il nazionalismo di stampo petljuriano non viene estirpato e trova un erede in un altro inquietante “padre della patria”, Stepan Bandera. Costui inizia la sua attività politica negli anni Trenta con atti di terrorismo nazionalista nella zona di Leopoli, allora appartenente alla Polonia, poi nel 1941, quando la Germania nazista invade l’Unione Sovietica, proclama l’indipendenza dell’Ucraina come Stato di ispirazione fascista e antisemita alleato della Germania. Ma i nazisti non desiderano affatto un’Ucraina indipendente e lo imprigionano per due anni in un lager. Lo liberano nel 1944, quando le sorti della guerra sono ormai mutate, per metterlo a capo di bande di guerriglieri antisovietici. Bandera accetta, ma l’attività guerrigliera e terroristica dei nazionalisti risulta del tutto inefficace. Dopo la guerra, Bandera andrà in esilio nella Germania Ovest, dove verrà assassinato da un agente sovietico. Nell’Ucraina di oggi gli sono dedicati, non senza controversie, commemorazioni e monumenti, e anche questo sembra fatto apposta per dar ragione a Putin. Tanto più che i nazionalisti banderisti, pur senza responsabilità diretta del loro ideologo che era imprigionato in Germania, collaborarono con grande impegno con i nazisti nelle fucilazioni in massa e nei campi di sterminio.

Non va naturalmente taciuto che moltissimi ucraini combatterono nell’Armata Rossa, che furono truppe sovietiche ucraine a liberare Auschwitz, e che nella storia sovietica sono stati numerosi gli ucraini che hanno svolto un ruolo importante e in qualche modo “glorioso”, a cominciare naturalmente da Nikita Chruščëv, senza trascurare il maresciallo Timošenko, uno dei migliori condottieri dell’Armata Rossa.

Alla fine, comunque, fra tutti i territori dell’Unione Sovietica, l’Ucraina è probabilmente quello che ha sofferto di più e che meno ha potuto identificarsi con l’ideologia di Stato. È anche per questo che quando un ucraino, Chruščëv appunto, diventa Segretario generale del partito comunista sovietico sente il bisogno di compensare la sua terra d’origine con la cessione, nel 1954, della Crimea, che era russa dal 1783 quando venne sottratta all’impero ottomano. L’immigrazione russa, nei secoli, l’aveva resa in maggioranza russofona, pur con una consistente minoranza ucraina. Non c’erano credibili rivendicazioni ucraine su questo territorio. Finché esisteva l’Unione Sovietica l’appartenenza all’Ucraina, peraltro come Repubblica autonoma, non rappresentava un problema. Ma evidentemente lo diventava dopo lo scioglimento dell’Unione, quando la sua appartenenza all’Ucraina veniva a rappresentare un forte indebolimento della presenza russa nel Mar Nero. Donde, nel 2014, la prima crisi russo-ucraina, in diretta continuità con quella presente, che si concluse con una piccola guerra lampo che questa volta non è riuscita. La concomitante crisi nel Donbass viene alimentata dagli opposti nazionalismi, con atti di brutalità da entrambe le parti e con il coinvolgimento da parte ucraina di milizie di estrema destra, tra cui il battaglione Azov, apertamente neonazista.

Come si vede, la situazione è complessa. All’interno di una storia spessissimo tragica e cruenta, un taglio netto tra torto e ragione risulta impossibile.

L’invasione russa in atto ha il “merito” paradossale di rendere le cose molto più chiare. Fermo restando che c’erano questioni serie da discutere e risolvere, chi sia l’aggressore e chi l’aggredito è sotto gli occhi di tutto il mondo. Forse Putin, nella sua visione storica assai semplificata come ogni visione fanatica, si aspettava davvero di avere di fronte solo qualche banda armata di neonazisti. Si è invece trovato di fronte il più improbabile degli eroi, e per l’Ucraina un nuovo padre della patria questa volta di indiscutibile legittimazione democratica: un ex attore comico ebreo russofono che si sta rivelando tra le maggiori figure di guerriero che questo lunghissimo Novecento prolungatosi di oltre un ventennio (altro che “secolo breve”!) ci stia presentando. E si è trovato la resistenza di un intero popolo, che comunque vada a finire ha già fatto fallire i suoi piani. Con ciò Putin ha fatto il maggior regalo che fosse possibile alla nazione che ha invaso: anche lui paradossale “padre della patria”, sta regalando agli ucraini una nuova mitologia nazionale questa volta orientata in senso inequivocabilmente democratico ed europeo. Una nuova identità, che comunque vada resterà nei secoli. Sempre che abbiamo ancora secoli davanti, naturalmente.

 

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