IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Il vincolo esterno e il mito delle occasioni mancate

Le carenze della struttura produttiva italiana non possono essere risolte agendo con il solo vincolo esterno. L’esaltazione retorica delle sue virtù serve a rimuovere scomode verità, ieri come oggi.

Il mito delle “occasioni mancate” da parte dell’Italia è una narrazione assai ricorrente nel pensiero della sinistra italiana: i plurimi vincoli esterni ai quali la classe politica italiana, durante la Prima Repubblica, e la classe tecnocratica, poi, hanno inteso appendere il nostro destino non avrebbero dato i frutti sperati soltanto per l’incapacità degli italiani di raccoglierli. Ma come tutti i miti, anche quello delle “occasioni mancate” è privo di basi fattuali inconfutabili. Vi erano, infatti, profonde carenze culturali e sociali nella struttura produttiva italiana, che pure ci aveva portato al boom economico, tali da non poter essere risolte agendo dall’esterno e quasi “meccanicamente” (Cesaratto, Zezza, 2018).

Il lato oscuro del vincolo esterno

L’esito paradossale del ricorso al vincolo esterno, di cui l’entrata prima nello SME e poi nell’Euro rappresentano l’emblema, è che a pagarne le conseguenze sono stati prevalentemente i lavoratori salariati, colpiti dalle politiche deflattive necessitate dal venir meno della possibilità di svalutazione. Si tratta di un paradosso, visto che l’incapacità di darsi un vincolo interno, ossia di “auto-riformarsi”, andrebbe prevalentemente imputata alla borghesia italiana che rifiutò, quando ve n’erano le condizioni, di seguire l’esempio del Centro e Nord-Europa e di condividere con le classi lavoratrici i frutti della crescita, puntando a uno stato sociale moderno e riconoscendo il ruolo propulsivo della domanda interna fondata su più elevati salari reali (Cesaratto-Zezza, cit.).
Il lato oscuro del vincolo esterno, dunque, svela come le scorciatoie abbracciate dalla sinistra DC, prima, e poi dagli eredi del PCI negli anni Novanta del Secolo scorso, siano appunto scorciatoie, ossia strategie prevalentemente autoassolutorie, che scaricano sulle classi “non dirigenti” gli errori delle élite e di quella che avrebbe dovuto essere la borghesia illuminata.
I costi di questo vincolo esterno dovevano ricadere, secondo i miopi capitani d’impresa (anche pubblica), prevalentemente in capo ai lavoratori, ignorando che nel lungo periodo tali costi avrebbero lambito le loro fortune, giungendo a distruggere quasi il 30% della capacità produttiva negli anni della crisi economica inaugurata dalla crisi greca, con tutto il corredo di suicidi di piccoli imprenditori che punteggiò quel tragico periodo.

Disciplina salariale e disciplina di bilancio

Per lo Stato si trattava di importare, oltre alla disciplina salariale, anche quella di bilancio. Ma la modalità opaca e assai poco condivisa nella stessa maggioranza politica con cui fu inaugurata quella scelta di austerità (il famigerato “divorzio” tra il Ministero del Tesoro, guidato da Beniamino Andreatta, e la Banca d’Italia di Ciampi del 1981), è la spia di come si trattasse di una fuga in avanti azzardata. È dagli anni Ottanta, infatti, che il mancato supporto della Banca d’Italia alle aste dei titoli pubblici, anziché ridurre il debito, ha contribuito ad aumentarlo, poiché da allora sono lievitati gli interessi, i quali hanno finito per rappresentare il grosso dello stock del debito pubblico. Dagli inizi degli anni Novanta, infatti, l’Italia colleziona costantemente avanzi primari (ossia, entrate superiori alle spese, al netto degli interessi sul debito), a dimostrazione della falsità della vulgata sul Paese “cicala”. Paradossalmente, però, nonostante il grave errore di prospettiva compiuto dalle autorità monetarie di quegli anni, su queste stesse autorità cadde il credito dell’opinione pubblica negli anni dello sfacelo della classe politica della Prima Repubblica.
Dal lato del lavoro il mutamento antropologico è andato in direzione del disarmo. E forse proprio la generosità degli interessi pagati ai piccoli risparmiatori detentori del debito pubblico ha contribuito a questo disarmo. Se i governi italiano e francese accarezzarono il progetto di moneta unica pensando anche al disarmo che questa avrebbe determinato ai danni del ruolo del sindacato e dei partiti comunisti (Streeck, 2015), al cittadino medio veniva venduta la favola del recupero della sua sovranità di risparmiatore, ossia della sua capacità (grazie a Maastricht e alla liberalizzazione del mercato dei titoli pubblici) di votare contro il governo liberandosi dei titoli del debito pubblico italiano (Carli, 1993), magari per comprare i Bund tedeschi!
Del resto, tale “rivoluzione passiva” innescata dalla moneta unica, non è che una versione particolare della tendenza globale sprigionatasi negli USA a partire dagli anni Settanta e dalla fine del sistema di Bretton Woods. Nell’epoca della finanziarizzazione dell’economia, l’aumento dei valori sui mercati azionari e dell’accumulazione fa da contraltare al calo dell’adesione dei lavoratori al sindacato, non più responsabile della loro ricchezza; «in un mercato in crescita [com’era prima dello scoppio della crisi del 2008], i lavoratori tendono a confondere il reddito da lavoro con i redditi finanziari e [con] l’aumento di valore della loro accumulazione (casa, risparmi) (…); l’inclusione delle famiglie lavoratrici nel rango dei capitalisti, più che la finanziarizzazione dell’economia, sta alla radice della crisi» (Leon, 2016). Il neoliberismo in salsa europea, trasformando il soggetto del conflitto da lavoratore in azionista di sé stesso, ha svuotato dall’interno il conflitto sociale, marginalizzandone gli attori collettivi che lo rendevano possibile (Guazzarotti, 2018).

L’economia finanziarizzata

Dal punto di vista del diritto pubblico e costituzionale, al mito delle “occasioni mancate” ha corrisposto la narrativa legittimante dello ius commune europeum, ossia di uno spontaneo – o quasi – convergere delle legislazioni e costituzioni degli Stati dell’Eurozona verso una sana e responsabile disciplina di bilancio, sul modello della Germania. Sorvolando, con ciò, sugli squilibri istituzionali di una moneta senza Stato, ossia, senza bilancio federale capace di politiche anticicliche in presenza di shock asimmetrici e di una Banca centrale – unica al mondo – priva di autentici poteri di backstop (rispetto alle crisi bancarie private) e di monetizzazione del debito pubblico, in caso di necessità (di qui il ricorso ai vari sotterfugi del Quantitative easing e del Programma di acquisti pandemico).

Il modello tedesco non è innocente

Ma l’abbaglio dei nostri accademici più blasonati sta proprio nell’esaltare a modello il sistema tedesco. Quello che nell’accademia italiana si è sottaciuto lo poteva dire soltanto solo un economista critico tedesco: la Germania, negli anni iniziali dell’euro e forse anche dopo, ha giocato sporco, rifiutandosi di convergere al tasso di inflazione programmato del 2% attraverso l’adeguamento dei salari reali al tasso di produttività, con un danno sistemico assai più rilevante di quello causato dalla Grecia, quando falsificò i suoi bilanci per l’entrata nell’euro (Flassbeck, Lapavitsas, 2013).
La Germania ha giocato sporco anche per un altro motivo: la sua riforma costituzionale del 2009 sul pareggio di bilancio è stata letta da taluno come una saggia misura per garantire i diritti delle generazioni future. In realtà, all’interno di un’unione monetaria senza capacità di bilancio federale, il ruolo di spesa anticiclica non può che spettare agli Stati in surplus, quali, tradizionalmente, la Germania e gli altri Paesi suoi satelliti (Cesaratto). È come se la Germania, con quella riforma, si fosse precostituita una solida giustificazione giuridica per derogare a eventuali vincoli sistemici emergenti dall’esigenza di salvare la sostenibilità dell’UEM, considerata come un tutto. Non si è trattato solo di delineare – autonomamente e “sovranamente” – la propria regola di bilancio, bensì di erigere una solida barriera protettiva alle future esigenze (già ampiamente prevedibili nel 2009) di compensare alle disfunzioni di un’unione monetaria priva di adeguati strumenti di governo economico. Così, quando l’esigenza di sopperire alla perdurante carenza di investimenti privati diventa sempre più urgente e gli strumenti della sola politica monetaria mostrano la corda, lo scudo giuridico-costituzionale può essere opportunamente elevato, ancora una volta facendo velo alla realtà delle cose. Dietro alla “virtù” del popolo risparmiatore potrebbe celarsi il vizio dell’opportunismo e della de-solidarizzazione (Luciani, 2016).
La Germania, di fatti, negli anni della crisi e della timida ripresa che ne è seguita, ha preferito procedere col freno a mano, crescendo assai meno di quanto avrebbe potuto (Ciocca, 2017), con una scelta spiegabile solo in termini di geopolitica (dominare attraverso la gerarchia economica del rapporto creditori/debitori), non certo di economia del benessere.

Pandemia. È un vero cambio di passo?

La pandemia sanitaria e la non meno drammatica pandemia economico-sociale hanno segnato un significativo “cambio di passo”. La crisi pandemica, a differenza di quella del debito sovrano che ha investito prevalentemente i paesi del sud (i “Piigs”), ha colpito anche i paesi del fulcro dell’Unione europea (a cominciare dalla Germania). La pandemia ha messo a nudo l’estrema fragilità delle catene globali del valore, evidenziano l’importanza cruciale di preservare il buon funzionamento del mercato interno.
Il “whatever it takes” nel campo della politica monetaria non era più sufficiente, sebbene il quantitative easing sia stato ulteriormente rafforzato, per guadagnare altro tempo. Per fronteggiare gli effetti sistemici della pandemia, oltre ad allentare i rigidi vincoli di bilancio (con la sospensione a tempo indeterminato del Patto di stabilità), sarebbe stato necessario dotare l’Unione europea di una capacità fiscale “para-federale”, anche con lo scopo di promuovere la transizione ecologica e digitale delle economie nazionali. È quanto si è provato a realizzare con la messa in opera del gigantesco programma Next Generation EU: un inedito sia per l’ammontare delle risorse sovranazionali messe sul piatto (750 miliardi di euro), sebbene con il ricorso una base giuridica non strutturale (art. 122 TFUE), che per la creazione, di fatto, di titoli del debito comune, garantiti da un consistente aumento delle risorse proprie del bilancio dell’Unione.
Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), nella cornice del Next generation EU, è stato, a sua volta, presentato come un’occasione (forse l’ultima) offerta alle classi dirigenti del “bel paese” per dare vita ad una profonda trasformazione e modernizzazione del sistema economico-sociale, nell’interesse delle generazioni presenti e, soprattutto, future. Anche in questo caso, tuttavia, l’esaltazione retorica delle virtù del vincolo esterno è servita a nascondere alcune scomode verità.

La politica della condizionalità

Se si leggono attentamente i regolamenti comunitari che disciplinano Next Generation EU e i riflessi Piani nazionali, ci si avvede che il paradigma della stretta condizionalità, ereditato dalla crisi dei debiti sovrani, è rimasto sostanzialmente inalterato. Le erogazioni dei finanziamenti, sotto l’ombrello del Recovery Fund, sono condizionate non solo “a monte” dalle strategie di politica economica definite a Bruxelles (i fondi devono essere destinati alla transizione ecologica per il 37 % e alla digitalizzazione per il 20 %), ma anche “a valle” dal fatto che il pagamento delle diverse tranche è condizionato al rispetto delle raccomandazioni che annualmente la Commissione europea invia agli Stati membri, nella cornice del Semestre europeo, ossia, nel rispetto di vincoli di bilancio ispirati ancora una volta a logiche anti-keynesiane.
La verifica sul rispetto delle condizionalità viene affidata ad una misurazione numerica e quantitativa delle politiche economiche degli Stati membri. Le erogazioni dei fondi sono, infatti, legate alle “performance” dei singoli Stati membri. Ogni tranche dei trasferimenti diretti e dei prestiti agevolati sarà erogata a condizione che sia dimostrato il raggiungimento di dettagliati milestones and targets che riflettano il progresso nell’adozione delle riforme e dei piani di investimento. Il governo delle condizionalità è, sostanzialmente, nelle mani della sola Commissione, con pesanti carenze di legittimazione democratica (Contaldi, 2021). Un dato che si coordina perfettamente con la natura del nostro governo e della sua guida orgogliosamente tecnocratica.

La tecnocrazia centrista della guerra

La guerra in Ucraina ha ulteriormente comportato spinte e controspinte nella forma di governo e nel sistema dei partiti italiano, ma non certo nel senso di un “ritorno allo Statuto”. Il primato della “tecnocrazia centrista” è rispecchiato dall’opzione di secretare la tipologia delle forniture militari al governo ucraino. La volontà di assecondare gli interessi statunitensi senza troppo discuterli passa anche per simili scelte. Il che, tuttavia, non ha impedito che si creassero spaccature nel Movimento 5 Stelle, con incerte ripercussioni sulla tenuta del governo di unità nazionale Draghi. Quello che si profila, come per la gestione finanziaria della crisi pandemica, è un’altra delega in bianco da parte dei partiti a una tecnocrazia di stretta fedeltà atlantista poco o nulla connessa con le classi popolari e priva di qualsiasi radicamento territoriale e sociale.
La sfiducia nella politica non ci salvò dal declino negli anni di Tangentopoli. Ora la posta in gioco è ancora più alta e l’illusoria fiducia nelle virtù dei tecnici ancora più insidiosa.

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