IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

La guerra come atto impolitico

Ma a che serve separare concettualmente politica e guerra? In termini pratici, a nulla: questo non porrà termine alla guerra. Serve a un’igiene del pensiero, a non scambiare il disordine con l’ordine, l’abnorme con il normale, la morte con la vita.

Il nesso forte, sostanziale, tra guerra e politica è uno dei (pochi) punti fermi del pensiero politico contemporaneo. Non esiste o quasi, oggi, filosofo o politologo che non dia per ovvio che la guerra sia un atto politico, se non l’atto politico per eccellenza, uno dei poteri che per antica tradizione definiscono il sovrano, cioè, oggi, lo Stato: lo ius gladii, il diritto di spada. Che non è solo il diritto sovrano di fare la guerra, ma il diritto sovrano di disporre della vita dei sudditi; tanto di mandarli a rischiare la vita in guerra, quanto di condannarli a morte. E ne risulta, anche nelle attuali forme democratiche dello Stato, il correlativo dovere dei cittadini di mettere la propria vita a disposizione dello Stato, o meglio, come più spesso si dice quando è questione di sacrificare la vita, a disposizione della Patria. Come fa anche la nostra Costituzione all’art. 52, parlando, in quest’unico caso, di “sacro dovere”.

Ripercorrere la teorizzazione di questo nesso, tanto dell’essere sovrano quanto dell’essere cittadini, con la guerra sarebbe contemporaneamente facilissimo e impossibile. Facilissimo perché basterebbe un poco di pazienza per accumulare una quantità indefinita di citazioni, a partire dalla Grecia antica, senza affatto escludere il cristianesimo; impossibile perché la sovrabbondanza sarebbe tale da impedire comunque di tracciare un quadro completo. Mi limiterò a tre rapidi sondaggi nel pensiero contemporaneo: ulteriori approfondimenti sarebbero tipici sfondamenti di porte aperte.

Hegel, Schmitt. La politica è guerra, la guerra è politica

Comincio da quello che è il massimo teorico dello Stato nel pensiero classico tedesco: Hegel. Nel § 324 dei Lineamenti di filosofia del diritto, citando una sua opera precedente, Hegel sostiene che la guerra è il momento di suprema unificazione etica dello Stato, perché è il momento in cui i diritti individuali dei cittadini, compresi quelli alla vita e alla proprietà, rivelano la propria accidentalità e vengono giustamente sacrificati al superiore bene dello Stato, che è l’universale oggettivo.

Ora, la guerra è una situazione nella quale la vanità delle cose e dei beni temporali – vanità che in altri casi suole essere un modo di dire edificante – diventa una cosa seria. Di conseguenza, la guerra è il momento in cui l’idealità del particolare riceve il proprio diritto e diviene realtà.

La guerra ha il superiore significato per cui, mediante essa –come ho detto altrove-, «la salute etica dei popoli viene mantenuta nella sua indifferenza contro il consolidarsi delle determinatezze finite, e come il movimento dei venti preserva il mare dalla putredine cui sarebbe ridotto da una bonaccia duratura, così la guerra preserva i popoli dalla putredine cui sarebbero ridotti da una pace duratura o addirittura perpetua»[i].

Per semplificare un po’ l’arduo linguaggio di Hegel, la sostanza del discorso è che lo Stato realizza un momento superiore di unità la cui realtà si manifesta pienamente nella guerra, essendo la guerra il momento in cui il particolare viene sacrificato all’universale. Senza la guerra, lo Stato sarebbe indebolito dalla preponderanza degli interessi individuali e i singoli cittadini perderebbero il senso dell’essere popolo, chiamati a un’esistenza comune che nello Stato si incarna. Dunque la guerra non è solo diritto, ma anche dovere dello Stato, essendo il momento della sua piena realizzazione storica. Il che non significa, precisa Hegel poco oltre nello stesso paragrafo, che ogni singola guerra sia automaticamente giusta: ognuna deve ricevere la propria particolare giustificazione.

Non possiamo eludere quello che della guerra ha pensato un militare, contemporaneo di Hegel e immerso nel medesimo orizzonte storico (morirono entrambi nella stessa epidemia di colera, a due giorni di distanza l’uno dall’altro), il Generalmajor Carl von Clausewitz. Non fu un grande generale: partecipò alle guerre napoleoniche in ruoli subordinati, per gran parte della sua carriera ebbe funzioni organizzative o didattiche. È però autore di una delle prime e delle più influenti trattazioni della guerra condotte in chiave filosofica, ma con significativa esperienza tecnica ed essendo stato testimone, dall’altra parte del fronte, della genialità di Napoleone (di cui fu nemico acerrimo ma convinto estimatore). L’unica opera di Clausewitz, Vom Kriege (Della guerra) fu l’occupazione principale dei suoi ultimi anni; rimasta incompiuta, apparve postuma. Dai militari fu subito apprezzatissima: è stata studiata, e credo che lo sia ancora, nelle accademie militari di tutto il mondo. Tra i non militari, quest’opera è rimasta celebre praticamente per un’unica frase, di importanza comunque centrale: «La guerra è una semplice continuazione della politica con altri mezzi»[ii].

In Clausewitz, dunque, rimane comunque una distinzione tra guerra e politica, sia pure una distinzione interna alla politica stessa. La guerra è politica, ma lo è in forma distinta e particolare; dunque, se la guerra è sempre politica, la politica non è sempre guerra.

Questa distinzione salta completamente nel terzo autore che qui propongo: Carl Schmitt. Illustre giurista, è stato uno dei protagonisti della vita intellettuale tedesca del primo Novecento, non senza un ambiguo coinvolgimento col nazismo. Non ebbe ruoli d’autorità, fu anzi piuttosto sospetto e non precisamente nelle grazie della Gestapo, ma fu lui a formulare (senza peraltro essere preso particolarmente sul serio), il principio fondamentale dell’ordinamento giuridico nazista, il Führerprinzip: ciò che il Führer comanda è legge[iii].

Già alcuni mesi prima dell’avvento al potere del nazismo, in una situazione politica del tutto incerta ancora aperta a molti sviluppi, Schmitt pubblica un celebre saggio in cui annulla la distinzione ancora presente nell’opera clausewitziana: la guerra è politica, e la politica è guerra. Non necessariamente guerra guerreggiata: a definire la politica come guerra è la decisione sul caso estremo. La decisione politica sovrana che determina chi è amico e chi è nemico, e se al nemico si deve fare guerra o no.

Assumiamo che sul piano morale le distinzioni di fondo siano buono e cattivo; su quello estetico, bello e brutto; su quello economico, utile e dannoso oppure redditizio e non redditizio: Il problema è allora se esiste come semplice criterio del “politico”, e dove risiede, una distinzione specifica, anche se non dello stesso tipo delle precedenti distinzioni, anzi indipendente da esse, autonoma e valida di per sé.

La specifica distinzione politica alla quale è possibile ricondurre le azioni e i motivi politici, è la distinzione di amico (Freund) e nemico (Feind). […] Nella misura in cui non è derivabile da altri criteri, essa corrisponde, per la politica, ai criteri relativamente autonomi delle altre contrapposizioni: buono e cattivo per la morale, bello e brutto per l’estetica e così via[iv].

Anche la decisione di non fare la guerra è politica, ma solo in quanto presuppone comunque che si potrebbe decidere per il sì e che in circostanze favorevoli lo si farà.

La guerra è solo la realizzazione estrema dell’ostilità. Essa non ha bisogno di essere qualcosa di quotidiano o di normale, e neppure di essere vista come qualcosa di ideale o di desiderabile: essa deve però esistere come possibilità reale, perché il concetto di nemico possa mantenere il suo significato.

Tutto ciò non vuol però assolutamente dire che l’essenza del “politico” non sia altro che guerra sanguinosa e che ogni trattativa politica debba essere una battaglia militare, né che ogni popolo sia ininterrottamente posto, di fronte ad ogni altro, nell’alternativa di amico o nemico, e che la corretta scelta politica non possa consistere proprio nell’evitare la guerra[v].

Non sarebbe invece una decisione politica, ma sarebbe piuttosto l’abolizione della politica, la decisione di non fare mai la guerra. Un popolo che decidesse di rendersi totalmente inerme e di non fare la guerra contro nessuno e in nessun caso non riuscirebbe a fondare una politica di pace (contraddizione in termini per Schmitt): l’unico risultato sarebbe che «scompare semplicemente un popolo debole»[vi].

La sovrapposizione tra politica e guerra non vale solo nei rapporti tra Stati, ma anche in politica interna. Il conflitto politico interno si svolge tutto nell’orizzonte della possibilità di una guerra civile, e i partiti politici non sono veramente tali se non prendono in considerazione la possibilità, in determinate circostanze, dello scontro violento.

Quando all’interno di uno Stato i contrasti fra i partiti politici sono divenuti “i” contrasti politici tout-court, allora viene raggiunto il grado estremo di sviluppo della “politica interna”, cioè diventano decisivi per lo scontro armato non più i raggruppamenti amico-nemico di politica estera, bensì quelli interni allo Stato. La possibilità reale della lotta che dev’essere sempre presente affinché si possa parlare di politica, si riferisce allora conseguentemente, in presenza di un simile “primato della politica interna”, non più alla guerra fra unità nazionali organizzate (Stati o Imperi), bensì alla guerra civile[vii].

Rientra nella politica, in quest’ottica, anche l’ideologia marxista della lotta di classe, mentre non le appartiene il riconoscimento astratto dei diritti o degli interessi individuali, ed è dunque un’ideologia antipolitica il liberalismo.

Anche una “classe” in senso marxista cessa di essere qualcosa di puramente economico e diventa un’entità politica se giunge a questo punto decisivo, se cioè prende sul serio la lotta di classe e tratta l’avversario di classe come nemico reale e lo combatte, sia come Stato contro Stato, sia nella guerra civile all’interno di uno Stato[viii].

In un’ottica, dunque, in cui non c’è politica senza identificazione di un nemico e senza l’organizzazione delle proprie forze in vista di un conflitto estremo, esiste una sola possibilità di concepire lo Stato come garante dell’ordine interno e non soltanto come portatore della decisione sovrana riguardo alla guerra esterna: che lo Stato mobiliti una parte – presumibilmente quella maggiore – del proprio popolo contro un’altra parte di esso.

Il compito di uno Stato normale consiste […] soprattutto nell’assicurare all’interno dello Stato e del suo territorio una pace stabile, nello stabilire «tranquillità, sicurezza e ordine» e di procurare in tal modo la situazione normale che funge da presupposto perché le norme giuridiche possano aver vigore, poiché ogni norma presuppone una situazione normale e non vi è norma che possa aver valore per una situazione completamente abnorme nei suoi confronti.

Questa necessità di pacificazione interna porta, in situazioni critiche, al fatto che lo Stato, in quanto unità politica, determina da sé, finché esiste, anche il “nemico interno”[ix].

Qui si scorge bene il vero legame di Schmitt col nazismo, che non consiste in un’adesione ideologica che propriamente non ci fu mai, o negli occasionali tributi al Führer, che invece ci furono. Si tratta piuttosto della sua concezione – anteriore alla presa di potere nazista – dello Stato come entità che trae il proprio senso dal mobilitare la massa nazionale contro un nemico esterno, in vista della guerra, o contro un nemico interno, in vista non della guerra civile – la guerra civile presuppone che manchi lo Stato o che ci sia incertezza e conflitto riguardo all’identificabilità o riguardo alla legittimità dei suoi organi e istituzioni – ma in vista della persecuzione di minoranze. Lo Stato, in Schmitt, si colloca necessariamente come istanza decisoria tra guerra esterna e persecuzione interna.

Un problema tutt’altro che superato, se si considera come abbia ripreso a funzionare, dopo decenni, sia il consenso alla guerra, sia, molto di più, il consenso alla persecuzione, e come entrambe, e quest’ultima soprattutto, abbiano recuperato una piena “normalità” istituzionale. Se non riusciamo a separare a livello teorico guerra e politica, non riusciremo a separarle nei fatti. Se la guerra è atto politico, magari non auspicabile in generale ma comunque rientrante nel concetto stesso di politica, non ci sarà modo di cercare nella politica un argine alla guerra.

Hobbes. La guerra è il male a cui la politica pone rimedio

La costruzione concettuale che ho prima sommariamente presentato, nonostante la sua intrinseca forza e il consenso di cui gode, è però tutt’altro che ovvia. La teoria che più le è contraria ha, addirittura, un ruolo fondativo nella costruzione del concetto moderno[x] di politica e di Stato. Mi riferisco al pensiero di Thomas Hobbes, ed è interessante notare come Schmitt, che pure ha avuto un ruolo importante nel riconoscerne l’attualità, riesca, con una forzatura che ha tutta l’aria di essere consapevole e voluta, a fraintenderlo completamente.

«In Hobbes, un pensatore davvero grande e sistematico, la concezione “pessimistica” dell’uomo, la sua esatta comprensione che proprio la convinzione, presente nelle due parti antagoniste, di essere nel buono, nel giusto e nel vero provoca le ostilità più violente, e alla fine addirittura il bellum di tutti contro tutti, devono essere intese non come parti di una fantasia paurosa e sconvolta, e neanche solo come filosofia di una società borghese fondata sulla libera “concorrenza” […] ma come i presupposti elementari di un sistema di pensiero specificamente politico»[xi].

“I presupposti elementari di un sistema di pensiero specificamente politico”: in un certo senso è vero, e l’espressione volutamente ambigua nasconde (o piuttosto manifesta) una manipolazione interpretativa. Sì, certo, in Hobbes la guerra di tutti contro tutti crea lo spazio della politica, la rende insieme possibile e necessaria. Non in quanto sia il fondamento della politica, ma in quanto è il male insostenibile che suscita la politica contro di sé. Proprio perché senza politica ci sarebbe guerra eterna e la vita sarebbe insopportabile, occorre la politica per impedire la guerra e creare un ordine della convivenza non astrattamente giusto (questo sarebbe impossibile stabilirlo concordemente) ma pacifico e sostenibile. Non è difficile da comprendere, basta leggere Hobbes:

«poiché la condizione dell’uomo […] è una condizione di guerra di ciascuno contro ogni altro, e in questo caso ciascuno è governato dalla propria ragione e non esiste niente di cui egli sia in grado di servirsi, che non possa essergli di aiuto nel preservare la propria vita contro i nemici, ne segue che in una condizione di questo genere ciascuno ha diritto a tutto, anche al corpo di un altro. Perciò, finché dura questo diritto naturale di ciascuno a tutto, nessuno può avere la sicurezza, per quanto forte o saggio sia, di vivere per tutto il tempo che la natura permette solitamente di vivere agli uomini. Di conseguenza, è un precetto, o una regola generale della ragione, che ciascuno debba cercare la pace per quanto ha speranza di ottenerla, e che, se non è in grado di ottenerla, gli sia lecito cercare e utilizzare tutti gli aiuti e i vantaggi della guerra. La prima parte di questa regola contiene la prima e fondamentale legge di natura che è cercare e perseguire la pace. La seconda contiene l’essenziale del diritto di natura che è difendersi con tutti i mezzi di cui si dispone»[xii].

È facile, da questo brano, comprendere e fissare alcuni punti essenziali. La guerra di tutti contro tutti è la condizione naturale, quindi pre-politica, quindi non politica, in cui gli uomini vivrebbero se non ci fossero lo Stato, i poteri dello Stato, le leggi dello Stato. Da questa condizione bisogna uscire (e si è da sempre usciti, di fatto, perché Hobbes intende dimostrare la necessità dello Stato e non ipotizzare quale possa esserne stata l’origine storica) perché accettare come normale e permanente questa condizione di guerra è contrario alla legge di natura che impone di cercare e perseguire la pace. Non si tratta beninteso di una legge esterna all’uomo, impostagli ad esempio da Dio[xiii] o da astratti princìpi morali, ma di una legge a lui intrinseca, che consiste semplicemente nell’esigenza di preservare la propria vita. La pace è il mezzo migliore per riuscirci, ma la pace si potrebbe ottenere solo col consenso di tutti gli altri, e se questo non c’è, allora, in subordine, è lecito difendersi con ogni mezzo. Ma il consenso per ottenere la pace resta comunque il mezzo migliore, l’unico universalmente condivisibile. Ed è su questo – il consenso nel cercare e perseguire la pace, non la guerra di tutti contro tutti – che si fonda, in Hobbes, la politica. Una riprova si ricava facilmente dal brano che segue:

«Una delle leggi naturali derivate da quella fondamentale è che il diritto a tutto non deve essere conservato, ma che certi diritti devono essere trasferiti o abbandonati. Se infatti ciascuno conservasse il proprio diritto a tutto, ne seguirebbe di necessità che alcuni con diritto attaccherebbero, e altri terrebbero loro testa (ciascuno per necessità naturale infatti si sforza di difendere il proprio corpo, e quanto è necessario per averne cura). Ne seguirebbe dunque la guerra. Perciò chi non recede dal suo diritto a tutto agisce contro le ragioni della pace, cioè contro la legge naturale»[xiv].

Qui la scelta è chiaramente delineata. Chi volesse conservare la sua illimitata libertà al di fuori dell’unione politica con gli altri si troverebbe di necessità nella guerra permanente, cioè rischierebbe la propria vita in ogni istante: una condizione invivibile e irragionevole. Quindi la libertà assoluta va deposta e subordinata alle ragioni della pace. È una dimostrazione per assurdo: chi non volesse sottomettersi allo Stato non avrebbe che la guerra, dunque è irragionevole e innaturale non sottomettersi allo Stato, perché è impossibile preferire la guerra alla pace.

Ogni uomo, nel modello teorico proposto da Hobbes, deve concorrere alla fondazione dello Stato deponendo nelle mani di colui o coloro che ne acquisiscono la sovranità tutta la sua libertà, ma ha diritto di ricevere in cambio la protezione della vita. Questo concorso universale delle volontà nella rinuncia alla libertà originaria nel nome della pace e della tutela della vita è il fondamento di legittimità dello Stato, che consiste in un fortissimo vincolo rappresentativo. Tutte le volontà singole si unificano annullandosi nella comune volontà dello Stato.

Si dice che uno Stato è istituito, quando gli uomini di una moltitudine concordano e stipulano – ciascuno singolarmente con ciascun altro – che qualunque sia l’uomo, o l’assemblea di uomini, a cui verrà dato dalla maggioranza il diritto di incarnare la persona di tutti loro (cioè a dire di essere il loro rappresentante), ognuno – che abbia votato a favore o che abbia votato controautorizzerà tutte le azioni e i giudizi di quell’uomo o di quell’assemblea di uomini alla stessa maniera che se fossero propri, affinché possano vivere in pace fra di loro ed essere protetti contro gli altri uomini[xv].

Lungi dal fondarsi sulla guerra, lo Stato si fonda sul consenso alla pace, che unifica i cittadini nella comune, libera e volontaria sottomissione a un sovrano da essi stessi istituito, che ha come funzione essenziale quella di mantenerli, anche coercitivamente, nell’ordine e nella sicurezza, proteggendoli gli uni dagli altri e proteggendoli tutti insieme dai nemici esterni. È il libero consenso a rinunciare alla libertà originaria che costituisce i singoli come popolo, ed è quest’unione la sostanza della politica. Tanto che Hobbes, che pure non ama affatto la democrazia come forma di governo (anche se la ritiene del tutto legittima) non esita ad attribuire un fondamento democratico ad ogni Stato, quale che sia la sua forma di governo.

«Quelli che si riuniscono per erigere uno Stato sono, quasi per il fatto stesso di essersi riuniti, una democrazia. Poiché infatti si sono riuniti volontariamente, si intendono obbligati a ciò che verrà deciso con il consenso della maggioranza. Questo, finché l’assemblea dura, o viene rinviata a date e luoghi determinati, è una democrazia. Infatti, questa assemblea, la cui volontà è volontà di tutti i cittadini, detiene il potere supremo; […]»[xvi].

Anche quando la democrazia non è la forma di governo dello Stato (e Hobbes da parte sua preferisce che non lo sia), ne è sempre il fondamento di legittimità, con buona pace dei tanti che, incomprensibilmente, hanno visto e in qualche caso ancora vedono in Hobbes un apologeta della tirannide o un “profeta” del totalitarismo.

«Il popolo regna in ogni Stato, perché anche nelle monarchie il popolo comanda: infatti, il popolo vuole attraverso la volontà di un solo uomo. La moltitudine invece sono i cittadini, cioè i sudditi. Nella democrazia e nell’aristocrazia, i cittadini sono la moltitudine, ma la curia è il popolo. E nella monarchia, i sudditi sono la moltitudine e (per quanto sia un paradosso) il re è il popolo»[xvii].

Non bisogna fraintendere, però: non ne deriva una teoria dei limiti, o della divisione, del potere sovrano. Il sovrano, chiunque egli sia, monarca, curia di ottimati, assemblea popolare, non ha accettato, all’atto della sua istituzione, alcun limite. Il patto idealmente istitutivo dello Stato (Hobbes non ha mai pensato che sia un fatto storicamente accaduto) è tra i sudditi, che tra loro si accordano per sottomettersi tutti insieme a un sovrano, ma il sovrano ne è fuori. Il patto lo istituisce ma non lo obbliga. Il sovrano fa quel che vuole: la sua è l’unica volontà rimasta libera. L’unico vincolo, essendo il sovrano e non un privato, è che la sua volontà sia espressa in forma pubblica e legale e sia sufficientemente stabile da consentire ai sudditi di conformarsi alle norme che il sovrano detta. Per il resto, nulla può essere rivendicato contro il sovrano. Nulla, tranne la vita. È la salvezza della vita che ha spinto i sudditi a volersi tali, a rinunciare alla libertà assoluta di cui avrebbero goduto al di fuori dello Stato. È la salvezza della vita il fondamento dell’obbligazione politica. Sarebbe dunque contraddittorio che chi entra nella condizione di suddito rinunci al suo diritto alla vita. S’intende: il sovrano può togliere la vita ai sudditi. Nel rispetto delle forme legali, può emanare condanne a morte tutte le volte che lo ritiene opportuno, ma non può pretendere che il suddito di cui ha decretato la morte sia d’accordo con lui e si lasci pacificamente uccidere. Costui ha smesso di essere suddito, è stato escluso dall’ordine politico e quindi non ne è più vincolato.

L’obbligazione dei sudditi verso il sovrano è intesa durare fintantoché – e non più di quanto – dura il potere con cui quegli è in grado di proteggerli. Per nessun patto, infatti, si può abbandonare il diritto che gli uomini hanno, per natura, di proteggere se stessi quando nessun altro può proteggerli[xviii].

Tanto il sovrano troppo debole, che non riesce a proteggere, quanto il sovrano troppo forte e violento, che terrorizza i sudditi, perdono la loro ragion d’essere. E con ciò i sudditi troppo insicuri o troppo minacciati escono dall’ordine politico e possono fare, per salvare le proprie vite, tutto quello che riescono a fare: anche prendere le armi contro il sovrano. Mi pare singolare negare, come quasi tutti negano, che ci sia un diritto di resistenza in Hobbes. Certo, non è propriamente diritto, è una ricaduta in una condizione pregiuridica, e non è propriamente resistenza, è tutela della propria vita. Ma di sicuro i sudditi che sono precipitati in una condizione di insicurezza possono, tanto individualmente quanto collettivamente, difendersi contro il sovrano.

nel caso in cui un gran numero di uomini abbiano insieme già opposto resistenza al potere sovrano, compiendo ingiustizia, o commesso un delitto capitale per il quale ciascuno di loro si aspetta la morte, non hanno allora la libertà di unirsi e di prestarsi mutua assistenza e difesa? L’hanno certamente, perché non fanno che difendere le loro vite: cosa che il colpevole può fare altrettanto [lecitamente] dell’innocente[xix].

E la guerra? La guerra è il contrario dell’ordine politico, dunque all’interno dell’ordine politico non può esistere. La guerra civile non è atto politico, è dissoluzione dello Stato e ricaduta nell’originaria violenta libertà naturale. Non ci possono essere nemici interni, con buona pace di Schmitt. Ma la guerra esterna, la guerra tra Stati? Certo che c’è, è inevitabile che ci sia, ma appunto perché non esiste un ordine politico interstatale, tanto meno sovrastatale. Non ci sono super-Stati e super-sovrani che possano inserire i rapporti tra Stati in un ordine legale vincolante, imponendo norme ed emanando sanzioni. La guerra tra Stati non è atto politico perché gli Stati sono soggetti rimasti nella condizione di libertà naturale. Qui il diritto coincide con la forza e non essendo possibile istituire la pace non resta che ricorrere a tutti i mezzi necessari per la difesa. Suona abbastanza terribile, ma la cosa riguarda piuttosto poco i sudditi. Per questi è importante che ci sia un sovrano, ma assai meno importante chi sia. Se un principe straniero conquista una provincia e vi mantiene ordine e sicurezza quanto il sovrano precedente o meglio di lui, per i sudditi deve andare bene lo stesso: non hanno più nessun vincolo di obbedienza verso il vecchio sovrano, che non ha saputo proteggerli, mentre ce l’hanno nei confronti del nuovo, se questi li protegge efficacemente. Ma, soprattutto, nessun sovrano, né il vecchio né il nuovo, può pretendere che combattano per lui, se non vogliono. In guerra ci va chi ci vuole, in base a un vincolo contrattuale di carattere privato liberamente stipulato, non in conseguenza dell’appartenenza al corpo politico. Chi ha firmato un contratto lo deve rispettare, se no si espone a giuste sanzioni, ma chi non l’ha fatto non è tenuto a mettere a rischio la propria vita[xx]. Se no, anche in questo caso verrebbero meno le ragioni per cui si è istituito il sovrano. Costui come può condannare a morte può sì ordinare al suddito di combattere, anche a pena della vita, ma, in entrambi i casi e per gli stessi motivi, non ha diritto a essere obbedito:

«un uomo, cui venga comandato di combattere come soldato contro il nemico – fermo restando che il sovrano possiede un diritto sufficiente a punire con la morte il suo rifiuto – può nondimeno, in molti casi, rifiutarsi senza ingiustizia»[xxi].

Dunque, riassumendo: la guerra è il male a cui la politica, mediante l’unione dei sudditi nello Stato, pone rimedio. Non può esserci guerra nello Stato, perché l’ordine politico ne sarebbe dissolto. C’è guerra tra gli Stati, inevitabilmente, perché non esiste un ordine politico sovrastatale che li vincoli. Dunque, in Hobbes, la guerra non è atto politico mai. L’esatto contrario di quello che Schmitt gli fa dire.

Canetti. Il conflitto politicamente regolato esclude la morte.

Prendiamo ora in considerazione un autore assai più vicino a noi nel tempo, ben consapevole peraltro della sua continuità con Hobbes[xxii]: l’ebreo sefardita bulgaro (ma, per propria scelta, di lingua tedesca) Elias Canetti. Nella sua grandiosa e inclassificabile opera saggistica Massa e potere, Canetti propone della guerra una visione di assoluta originalità e di radicalità senza eguali. Il punto cardine è apparentemente un’ovvietà: «in guerra si tratta di uccidere»[xxiii]. Ma quest’affermazione a prima vista del tutto banale va assunta nel suo pieno significato. La guerra viene fatta per uccidere. Dare la morte è il fine della guerra, non il pur inevitabile effetto collaterale di un atto di natura politica che ha fini politici. Qui la guerra non è più un mezzo della politica, non è un mezzo per nulla: è un atto esistenziale assoluto, che consiste nel confronto diretto e immediato con la morte. Un confronto in cui – ed è questo il punto – la morte viene resa onnipresente, ma nello stesso tempo viene drasticamente ridimensionata. Si rischia di essere uccisi come mai capiterebbe nella vita normale, ma si può, in cambio di questo rischio, uccidere la morte. Questa non è più necessità sempre incombente e alla fine inevitabile, ma minaccia determinata e localizzata. Si identifica col nemico, e il nemico è mortale come noi. La guerra ci pone di fronte una morte mortale, uccidibile. Non siamo soli di fronte alla morte, se moriamo in massa ci risparmiamo la morte individuale, ma affrontandola tutti insieme la possiamo anche sconfiggere.

La morte, da cui in verità ciascuno è sempre minacciato, dev’essere proclamata come condanna collettiva perché ci si possa opporre ad essa attivamente. Ci sono, per così dire, dichiarati tempi di morte durante i quali la morte si volge verso un intero gruppo determinato, scelto arbitrariamente. “Ora si va contro tutti i francesi”, oppure “Ora si va contro tutti i tedeschi”. L’entusiasmo con cui gli uomini accolgono una dichiarazione di tal fatta, ha la sua radice nella vigliaccheria del singolo dinanzi alla morte. Da solo, nessuno vorrebbe guardarla in faccia. È già più facile in due, quando due nemici eseguono per così dire la reciproca condanna; e non è più affatto la medesima morte quando migliaia la affrontano insieme. Il peggio che possa capitare agli uomini in guerra – e cioè morire insieme, risparmia loro la morte individuale che essi temono più di tutto.

Ma essi non pensano nemmeno che quel peggio possa accadere. Vedono la possibilità di allontanare e di trasferire su altri la condanna che è stata pronunciata contro di loro. Il loro para-morte [Todableiter] è il nemico, e devono quindi preoccuparsi soltanto di precederlo. Si deve soltanto essere veloci e non esitare un istante nel somministrare la morte. Il nemico giunge come se fosse chiamato; egli ha pronunciato la condanna, egli per primo ha detto: «“Morite!”. Ciò che egli ha rivolto contro gli altri, ricade su di lui»[xxiv].

In questo modo, la guerra rende accessibile a tutti l’atto supremo del potere, che nella vita normale è al di fuori della nostra portata: trionfare sulla morte. Sopravvivere: Überleben, vivere sopra. Questo è il potere per Canetti: «vivere sopra, vivere al di là di quelli che non vivono più, ingannare la propria morte scaricandola su altri, vivere al posto di altri che muoiono per noi. Non esiste, nel suo lessico, la possibilità di attribuire al potere un senso positivo. Il potere consiste sempre nel provocare, direttamente o indirettamente, la morte di altri. La guerra chiama tutti a condividere questa suprema prerogativa e in questo risiede la sua irresistibile seduzione.

L’istante del sopravvivere (Überleben) è l’istante della potenza. Il terrore suscitato dalla vista di un morto si risolve poi in soddisfazione, poiché chi guarda non è lui stesso il morto. Il morto giace, il sopravvissuto gli sta ritto dinanzi, quasi si fosse combattuta una battaglia e il morto fosse stato ucciso dal sopravvissuto. Nell’atto di sopravvivere l’uno è nemico dell’altro; e ogni dolore è poca cosa se lo si confronta con questo elementare trionfo. […] Di fronte a questi mucchi di caduti, il sopravvissuto è il privilegiato, il favorito dalla sorte. È portentoso che egli conservi la sua vita, mentre altri che un istante prima erano con lui l’hanno perduta. I morti giacciono inermi; egli si erge fra di essi, e pare quasi che la battaglia sia stata combattuta affinché egli sopravvivesse. Ha stornato da sé, sugli altri, la morte. Non che egli abbia sfuggito il pericolo. In mezzo ai suoi compagni, egli ha affrontato la morte. Essi sono caduti. Egli vive e trionfa. Chiunque sia stato in guerra conosce questa sensazione di superiorità sui morti. Magari può essere mascherata sotto l’afflizione per i compagni caduti; ma i compagni sono pochi, i morti sempre molti. La sensazione di forza che scaturisce dal sopravvivere è fondamentalmente più forte di ogni afflizione: è la sensazione di essere eletti fra molti che hanno un comune destino»[xxv].

È una riprova della sostanziale impoliticità della guerra in Canetti. Per il potente sopravvissuto – e chiunque in guerra combatta senza morire è tale – non c’è differenza tra amici e nemici, e neanche tra vittoria e sconfitta. Si sopravvive a tutti i morti, si sopravvive alla morte stessa. L’aver sfidato la morte ed aver vinto la sfida è l’atto disinteressato che in sé si completa e non rimanda a nulla fuori di sé, tanto meno a un fine politico.

Certo, un nesso tra guerra e politica c’è, e non è molto diverso da quello proposto da Schmitt: il rapporto tra amico e nemico, che in Canetti costituisce una massa doppia.

Per la massa la più sicura e spesso la sola possibilità di conservarsi consiste nell’esistenza di una seconda massa cui riferirsi. Può darsi che si affrontino e si misurino nel gioco; può darsi che si minaccino gravemente l’un l’altra; l’aspetto o l’immagine intensa di una seconda massa non permettono alla prima di disgregarsi. «Mentre in una schiera le gambe stanno accostate alle gambe, gli occhi fissano altri occhi di fronte. Mentre le braccia si muovono in cadenza comune, le orecchie si tendono in attesa del grido che giungerà dalla schiera opposta. […] Tutto ciò che fanno gli uni è condizionato dall’azione o dall’intenzione degli altri. L’opposizione incide sulla contiguità. Il confronto che provoca in ambedue una particolare attenzione modifica il tipo di concentrazione all’interno di ciascun gruppo. Per un gruppo è necessario restare insieme finché i membri del secondo gruppo non si siano separati gli uni dagli altri»[xxvi].

Questa, per Canetti, è effettivamente una struttura d’ordine: è l’organizzazione politica dell’inimicizia, che, in maniera molto hobbesiana, rafforza la coesione istituzionale dei due contendenti. Ognuno minaccia l’altro e lo costringe a difendersi rafforzando i vincoli interni. Quindi in realtà ognuno dei due contendenti garantisce la solidità e la continuità nel tempo dell’altrui unione. In un rapporto che anche per Canetti è, dichiaratamente, tra amico e nemico, ognuno rappresenta per l’altro la più solida garanzia di durata. E questa è senza dubbio politica, ma appunto in quanto non è ancora guerra. È guerra potenziale, ma non in atto. Ognuno si rafforza guardando con timore al rafforzarsi dell’altro, in vista di una possibile guerra. Ma se la guerra effettivamente scoppia si salta in un’altra dimensione. Gli eserciti, strutture d’ordine estremamente solide, “cristalli di massa”, coagulano intorno a sé realtà di ben altra natura: masse nazionali. E la massa doppia amico/nemico si scioglie – “scoppia”, dice Canetti – in un’unica massa di uccisi e uccisori, cadaveri e sopravvissuti. Dove a fronteggiarsi e a mescolarsi nello stesso tempo in un’indistinta unità di violenza sono realtà pre-politiche: le nazioni. La guerra (nel mondo contemporaneo) non è tra Stati ma tra nazioni, e le due cose sono lontanissime dall’essere sinonimi: sebbene siano generalmente in stretta connessione tra loro, appartengono a orizzonti diversi. Lo Stato è ovviamente la suprema istituzione politico-giuridica, la nazione è una condizione esistenziale intensamente condivisa che sfugge a tutte le definizioni concettuali che ne sono state tentate.

«I tentativi di conoscere a fondo le nazioni sono stati generalmente viziati da un difetto essenziale. Per l’elemento nazionale si voleva una pura e semplice definizione: una nazione – si diceva – è questo o quest’altro. […] Si prendeva la lingua o il territorio; la letteratura scritta; la storia; il governo; il cosiddetto senso nazionale; e sempre le eccezioni erano più importanti della regola. Sempre risultava che si era afferrato qualcosa di vivo solo per il lembo di un abito occasionale: esso si sottraeva facilmente e si restava a mani vuote»[xxvii].

L’appartenenza nazionale, il senso vissuto della propria nazionalità non è un sapere, né un fare, e neppure propriamente un essere. Non è un confronto cognitivo tra sé stessi e gli altri, non è un paragone tra storie o lingue o costumi. È raro che si conosca bene ciò che sono gli altri, ma non meno raro, e soprattutto per nulla affatto necessario, è sapere che cosa siamo noi. Si tratta piuttosto di una pretesa astratta, assoluta e vuota di superiorità sugli altri, e a tale pretesa si dà il nome di un popolo, del proprio popolo. Una pretesa che acquista concretezza, consapevolezza e senso soltanto nel momento della guerra.

«Essi dicono d’aver un nome […], come francesi, tedeschi, inglesi, giapponesi. Ma cosa vogliono dire queste parole negli uomini che le usano per se stessi? In che cosa si crede di essere diversi quando si comincia a combattere come francesi, tedeschi, inglesi, giapponesi? Qui non importa affatto in che cosa si sia davvero diversi. Un’indagine sugli usi e i costumi, sul governo, sulla letteratura, potrebbe sembrare esauriente, e tuttavia trascurare del tutto quel determinato elemento nazionale che scaturisce come fede in tempo di guerra»[xxviii].

Come fede. La nazione è una cosa in cui si crede. In cui si crede insieme, in cui si crede per stare insieme. E in cui si percepisce, in maniera tanto oscura quanto intensa, un senso profondo del proprio essere che però non gli dà nessun contenuto stabile e definibile. La nazione è un sentimento d’unità oltre il tempo e oltre la morte, che però richiede la presenza della morte per essere vissuto pienamente. Le nazioni sono non realtà politiche, ma religioni. Religioni il cui supremo atto di culto è la guerra.

«Le nazioni devono dunque essere considerate qui come se fossero religioni. Esse hanno la tendenza ad acquistare veramente, di tempo in tempo, quella condizione. Un’attitudine in questo senso è sempre latente; in tempo di guerra le religioni nazionali si acutizzano in modo particolare»[xxix].

La guerra dunque è atto esistenziale estremo di carattere religioso, non politico, sebbene la politica, invertendo il rapporto stabilito da Clausewitz, possa esserne mezzo. Di questo c’è una controprova in Canetti. La politica è sicuramente gestione del conflitto, della massa doppia amico/nemico, ma non è guerra. E non lo è perché, mentre in guerra si tratta di uccidere, il conflitto politicamente regolato richiede imprescindibilmente l’esclusione della morte. Nelle pochissime ma illuminanti pagine che Canetti dedica al sistema parlamentare – evita volutamente di usare la parola democrazia, che maschererebbe la natura conflittuale del sistema – si sottolinea energicamente che il conflitto politico ha la struttura della guerra, essendo un rapporto ostile basato sulla forza, ma, a differenza della guerra vera, non produce morti, si fonda anzi sul fatto che nessuno muore.

«Il sistema bi-partitico del parlamento moderno si avvale della struttura psicologica di eserciti in battaglia. Questi ultimi nella guerra civile sono davvero presenti, seppure con riluttanza. Non si uccide volentieri la propria gente: un senso della stirpe agisce sempre contro le guerre civili cruente e di solito le conduce alla fine in pochi anni o ancor prima. Ma i due partiti del parlamento possono misurarsi più ampiamente. Essi combattono rinunciando ad uccidere»[xxx].

«Il conflitto politico, all’interno del parlamento, assomiglia a una battaglia. È uno scontro tra gruppi contrapposti, scontro anche assai duro e senza nessuna disponibilità a mediazioni o accordi, in cui non esiste modo di determinare chi abbia ragione e chi torto. La sola regola che consente di superare di volta in volta lo scontro giungendo a una decisione – e garantendo dunque l’ordine interno della convivenza politica – è, come in guerra, la forza. Si contano i voti, vince chi ne ha di più. Ma nessuno ha perdite, i morti non ci sono.

In una votazione parlamentare non c’è altro da fare che verificare sul posto la forza di ambedue i gruppi. Non è sufficiente conoscerla a priori. Un partito può avere 360 deputati, l’altro solo 240: la votazione rimane determinante come il momento in cui davvero ci si misura. È una sopravvivenza dello scontro cruento, che si compie in molteplici modi: con la minaccia, l’oltraggio, l’eccitazione fisica, la quale può perfino spingere a picchiare o a lanciare oggetti. Ma il conteggio dei voti segna la fine della battaglia. Si deve riconoscere che 360 uomini hanno vinto su 240. La massa dei morti resta interamente fuori del gioco. All’interno del parlamento non ci devono essere morti»[xxxi].

Conseguenza di ciò è che, sebbene ci siano un vincitore e un vinto, nessuno si arrende e nessuno trionfa, il conflitto non termina ma si riproduce: i rapporti di forza possono sempre mutare perché il vincitore non ha ottenuto una preponderanza definitiva e il vinto non ha subito nessun detrimento decisivo. Per questo il vinto può riconoscere la vittoria altrui senza doversi sottomettere e senza dover rinunciare alla sua identità e ai suoi obiettivi. Finché non ci sono morti, il conflitto può continuare indefinitamente, essendo una struttura d’ordine.

«L’avversario, battuto nella votazione, non si rassegna affatto, poiché ora improvvisamente non crede più nel suo diritto; egli si limita piuttosto a dichiararsi sconfitto. Non gli è difficile dichiararsi sconfitto, giacché non gli accade nulla di male. In nessun modo è punito per il suo precedente atteggiamento ostile. Se davvero temesse un pericolo di vita, reagirebbe ben diversamente. Egli conta piuttosto sulle future battaglie. Al suo numero non è imposto alcun limite; nessuno dei suoi è stato ucciso»[xxxii].

Ma c’è un’ulteriore somiglianza con la guerra, che nello stesso tempo chiarisce l’essenziale differenza con essa del conflitto politico: anche qui abbiamo a che fare col sacro, e il sacro ha a che fare con la morte. Ma in due maniere opposte. La guerra evoca la morte per darle in pasto cadaveri, illudendosi in questo modo di controllarla, di confinarla appunto tra i cadaveri come se fosse un cadavere essa stessa, ma in questo modo l’alimenta, la fa crescere, la rende sovrana. Il conflitto politico invece, mediante atti che hanno il carattere del sacro, mediante riti, esorcizza la morte espellendola al di là dei suoi confini. Da dove però sempre ci minaccia: il confine tra politica e guerra è netto ma fragile, e chi disprezza e altera i riti che tengono lontana la guerra di fatto la chiama.

«L’elettore può passare dall’una all’altra battaglia elettorale; le loro mutevoli sorti hanno per lui, se è politicamente orientato, la massima attrattiva. Ma il momento in cui egli effettivamente vota ha poi qualcosa di sacro; sacre sono le urne sigillate che contengono le schede; sacra l’operazione di conteggio».

«La solennità di tutte queste operazioni deriva dalla rinuncia alla morte come strumento di decisione. Con ogni singola scheda la morte è per così dire spazzata via. Ma ciò che l’avrebbe provocata, la forza dell’avversario, è registrato scrupolosamente in un numero. Ma chi si prende gioco di quei numeri, chi li confonde, li falsifica, lascia nuovamente spazio alla morte e non se ne accorge. Entusiastici amanti della guerra, che si beffano volentieri della scheda elettorale, manifestano così solo le loro intenzioni sanguinose. Schede elettorali e trattati sono per loro unicamente miseri pezzi di carta. Che essi non siano bagnati di sangue appare loro spregevole; valgono per loro solo decisioni che esigono sangue»[xxxiii].

Ma è importante capire che le decisioni che esigono sangue non sono decisioni politiche. Sono decisioni che aboliscono l’ordine politico e fanno precipitare nell’orizzonte caotico del desiderio illimitato, della paura senza fine, dell’uccidibilità di tutti da parte di tutti. Proprio quello status naturae da cui Hobbes ci ha insegnato perché e come bisogna uscire.

Guerre permanenti, guerre antipolitiche

Un ultimo punto di vista in questa veloce e non conclusiva carrellata di sguardi controintuitivi sul rapporto oppositivo tra guerra e politica: uno sguardo interno all’antropologia culturale, disciplina di solito trascurata riguardo al problema di cui ci occupiamo. Eppure quello delle origini dello Stato è uno dei suoi problemi classici, ha dato luogo a una cospicua quantità di teorie assai interessanti, e l’antropologia ha il vantaggio, in quanto scienza comparativa, di introdurre prospettive legate ad esperienze culturali e sociali diverse dalla nostra, facendoci uscire dal nostro inconsapevole, e per questo ancor più nocivo, provincialismo. L’antropologia culturale ci consente non soltanto di conoscere strutture e istituzioni politiche estremamente diverse dalle nostre, ma ci consente di avere esperienza di società plurimillenarie che di strutture e istituzioni politiche fanno tranquillamente a meno. Ci sono società senza Stato. Sono tutte assai piccole, ma sono di gran lunga il maggior numero delle organizzazioni sociali di cui abbiamo notizia e in un tempo remoto erano di sicuro, in tutto il mondo, l’unica tipologia sociale presente. Come mai e con quali strumenti, dunque, le società senza Stato diventano Stati? E ancora di più: come mai non tutte compiono questo passaggio, ma alcune, nel complesso non poche, hanno mantenuto la loro tradizionale struttura anarchica fino a tempi recenti, se non addirittura ancora oggi?

L’impostazione abituale del problema è stata a lungo quella evoluzionistica. C’è un processo naturale di sviluppo sociale che va dal più semplice al più complesso, dal più piccolo al più grande, dal più informale al più strutturato, dal più egualitario al più gerarchico, dal più “selvaggio” al più “civile”, e l’istituzione dello Stato rappresenta in questo sviluppo una tappa decisiva e un indiscutibile progresso. Lo Stato è un requisito imprescindibile di civiltà e le società senza Stato sono inequivocabilmente “primitive”.

E se non fosse così? Se si trattasse di tipologie sociali tra le quali non c’è automaticamente un meglio e un peggio e una linea evolutiva di progresso? Se le società senza Stato fossero altrettanto anche se diversamente “civili” e rappresentassero un’alternativa del tutto legittima e sensata, se non addirittura preferibile? Molti antropologi contemporanei se lo chiedono, e tra questi il più radicale è forse il francese Pierre Clastres (purtroppo morto prematuramente senza poter dare un ampio sviluppo alla sua proposta teorica).

La radicale novità della prospettiva di Clastres consiste nel pensare le società senza Stato non come immobili, chiuse in una condizione arcaica, “naturale”, “senza storia”, ma come società che conquistano la propria durata nel tempo gestendo il cambiamento e il conflitto, proponendosi dei fini, progettandosi, società che, come tutte le altre, sono autrici di sé stesse, responsabili di sé. Società, in altri termini, che sono senza Stato perché vogliono essere così, perché rifiutano di darsi quelle strutture politiche di cui pure intuiscono la possibilità.

«Le società primitive sono società senza Stato: questo giudizio fattuale, esatto in se stesso, dissimula in verità un’opinione, un giudizio di valore che pregiudica la possibilità di costituire un’antropologia politica come scienza rigorosa. Ciò che di fatto viene enunciato, è che le società primitive sono prive di qualche cosa – lo Stato – che, come a qualunque altra società (per esempio la nostra) è loro necessario. Queste società sono dunque incomplete; non sono vere e proprie società – non sono ordinate politicamente – ma sussistono nell’esperienza, forse dolorosa, di una mancanza – mancanza dello Stato – che tenterebbero, sempre invano, di colmare»[xxxiv].

Completamente diversa è la prospettiva di Clastres. Le società “primitive” sono in genere società prospere, ben adattate al loro ambiente, capacissime di ricavarne con poca fatica risorse più che sufficienti. Non sono società “inferiori”, che se potessero cambierebbero sé stesse ma non ne sono capaci, non hanno sufficienti tecnologie o una struttura produttiva sufficientemente avanzata. Sono società che non hanno proprio nessun motivo di cambiare quell’equilibrio tra bisogni e risorse, quella vita comunitaria non competitiva, egualitaria e rilassata, quell’assenza di gerarchie istituzionali che di fatto ne hanno garantito la lunghissima sopravvivenza nel tempo. Dovremmo capire che noi e loro abbiamo lo stesso tempo, siamo ugualmente antichi, loro non sono una sorta di antenati un po’ subumani di cui vergognarsi alquanto, rimasti chiusi in una sorta di pigra preistoria. Hanno attraversato senza andare incontro a catastrofi lo stesso tempo che noi invece di catastrofi abbiamo riempito, hanno superato come noi, e sembrerebbe forse anche meglio di noi, la prova della durata.

Incompiutezza, mancanza: non certo da questo punto di vista si manifesta la natura delle società primitive. Essa si impone assai più come positività, come padronanza dell’ambiente naturale e del progetto sociale, come libera volontà di non lasciar scivolare fuori dal suo essere nulla di ciò che potrebbe alterarlo, corromperlo, dissolverlo. A questo bisogna attenersi fermamente: le società primitive non sono embrioni tardivi delle società più evolute, corpi sociali il cui “normale” decollo sia stato interrotto da qualche strana malattia; non si trovano al punto di partenza di una logica storica che conduca direttamente ad una meta prestabilita, anche se nota soltanto a posteriori: il nostro stesso sistema sociale. […] Tutto questo si esprime, sul piano della vita economica, nel rifiuto da parte delle società primitive a lasciarsi inghiottire dal lavoro e dalla produzione, dalla decisione di limitare le scorte ai bisogni socio-politici, dall’impossibilità intrinseca della concorrenza – a che cosa servirebbe, in una società primitiva, essere ricchi in mezzo a dei poveri? – in una parola dal divieto, non formulato e tuttavia espresso, della disuguaglianza[xxxv].

Lo Stato non sorge, in queste società, perché vi è impossibile. E non è impossibile per difetto di capacità, mancanza di organizzazione, insufficienza produttiva, ma perché incompatibile con caratteristiche sociali consapevolmente e attivamente volute, tenacemente preservate. Non è una prospettiva mancata, è una prospettiva rifiutata:

«[…] i Selvaggi ci fanno assistere allo sforzo permanente per impedire ai capi di essere capi, il rifiuto dell’unificazione, la fatica di scongiurare l’Uno, lo Stato.

La storia dei popoli, che hanno una storia, è, si dice, la storia della lotta delle classi. La storia dei popoli senza storia è, si dirà con almeno altrettanta verità, la storia della loro lotta contro lo Stato»[xxxvi].

In questa lotta della società contro lo Stato la guerra ha un ruolo decisivo. Clastres non ha una visione idillica e romantica del mondo “primitivo”. La violenza c’è, non si tratta in genere – con le debite eccezioni – di società pacifiche, anzi per molte di loro si può parlare di uno stato di guerra permanente, in cui i gruppi vicini svolgono a fasi alterne il ruolo di nemici o di alleati. Ma la guerra non è rivolta alla conquista, all’ingrandimento territoriale, alla sottomissione degli altri popoli, all’affermazione del potere. Non si tratta di guerra politica, se non in un senso particolarissimo: quello di prevenire qualsiasi cambiamento sociale che possa portare a concentrazioni di potere. Potremmo anzi dire che si tratta di guerra antipolitica: la guerra mantiene la separazione del gruppo dai gruppi vicini, impedendo la costruzione di aggregati sociali più ampi, e mantiene nello stesso tempo l’unità e coesione interna al gruppo, rafforzandone l’elemento essenziale dell’uguaglianza. La guerra esalta la differenza rispetto all’esterno e la mancanza di differenze interne, svolgendo in entrambi i modi una funzione preventiva riguardo al sorgere dello Stato.

Qual è dunque la funzione della guerra primitiva? Assicurare che la dispersione permanga, che permangano la frammentazione e parcellizzazione dei gruppi. La guerra primitiva è il risultato di una logica centrifuga, una logica della separazione che si esprime di tanto in tanto nel conflitto armato. La guerra serve a mantenere l’indipendenza politica di ogni comunità. Finché c’è guerra, c’è autonomia: per questo la guerra non deve, non può finire, per questo è permanente. La guerra è il modo di esistenza privilegiato della società primitiva proprio perché articolata in unità socio-politiche eguali, libere e indipendenti: se non esistessero i nemici, bisognerebbe inventarli[xxxvii].

Qui un cerchio si chiude. La logica di Schmitt è radicalmente rovesciata: il rapporto amico/nemico definisce l’assenza – da intendere come rifiuto attivo – della politica. Mentre viene confermata alla lettera la prospettiva hobbesiana, sebbene poi si adotti un giudizio di valore opposto al suo: dove c’è guerra non c’è Stato, non c’è sovranità, non c’è politica istituzionalmente organizzata, mentre dove c’è Stato non può esserci guerra: ma se dallo status naturae si è usciti, non è ovvio che se ne dovesse uscire, e forse uscirne non ha comportato soltanto vantaggi.

Eccoci così tornati al pensiero di Hobbes. Con una lucidità scomparsa dopo di lui, il filosofo inglese ha saputo svelare il legame profondo, la relazione di stretta prossimità che esiste tra la guerra e lo Stato. Ha saputo cogliere come guerra e Stato siano termini contraddittori, termini che non possono esistere insieme in quanto ognuno dei due comporta la negazione dell’altro: la guerra impedisce lo Stato, lo Stato impedisce la guerra. Il suo errore, enorme ma quasi inevitabile per un uomo dei suoi tempi, sta nell’aver creduto che una società che persiste nella guerra di tutti contro tutti non sia una società, che il mondo dei selvaggi non sia un mondo sociale, e che pertanto l’istituzione della società passi attraverso la fine della guerra e la comparsa dello Stato, macchina anti-bellica per eccellenza. Incapace di concepire il mondo primitivo come un mondo non-naturale, Hobbes tuttavia comprese per primo che la guerra non è pensabile senza lo Stato, che i due termini vanno pensati in una logica di esclusione. A suo avviso, il legame sociale si istituisce tra gli uomini grazie “a quel potere comune che li tiene tutti soggetti”: lo Stato è contro la guerra. Che cosa ci dice invece la società primitiva come spazio sociologico della guerra permanente? Ripropone il discorso di Hobbes, ma lo capovolge affermando che la macchina della dispersione opera contro quella dell’unificazione. Ovvero ci dice che la guerra è contro lo Stato[xxxviii].

Si può notare che anche Clastres commette qui un errore evidente. La guerra hobbesiana di tutti contro tutti è molto diversa dalla guerra permanente dei primitivi, perché quest’ultima è guerra di un gruppo contro altri gruppi in instabile alleanza con altri gruppi ancora, mentre in Hobbes la guerra è tra individui ciascuno dei quali rivendica contro tutti gli altri una sorta di sovranità sul mondo. E si può anche notare che Clastres ha troppa fretta nel preferire la logica della guerra che esclude lo Stato alla logica dello Stato che esclude la guerra. Sebbene la guerra primitiva sia ben lontana dalla capacità distruttiva che constatiamo nelle guerre tra popoli “civili”, tutti gli uccisori e tutti gli uccisi, in tutte le guerre del mondo, sono uguali, e la logica della guerra, in tutte le guerre del mondo, implica la scelta della morte contro la vita. Ma quel che conta, qui, non è se la guerra sia un male e lo Stato un bene, o lo Stato un male e la guerra un bene, ma che guerra e Stato, e quindi guerra e politica, almeno secondo la concezione moderna di quest’ultima, si collocano su orizzonti opposti tra loro.

Negare la normalità della guerra. Una scelta anche politica

Ma a che serve separare concettualmente politica e guerra? In termini pratici, a nulla: di sicuro non sarà questo a porre termine alla guerra. Serve a un’igiene del pensiero. Serve a non scambiare il disordine con l’ordine, l’abnorme con il normale, la morte con la vita. Il male con il bene, anche se a volte il bene è impossibile e il male necessario. Di sicuro è un’esigenza logica, forse è anche – se non soprattutto – un’esigenza etica. Ma è una questione astratta, “soltanto teorica”, si potrebbe dire. No, non esistono questioni “soltanto teoriche”: le teorie sono fatti, sono azioni, sono, direttamente o indirettamente, scelte politiche. E spezzare il nesso tra guerra e politica è il passo preliminare e necessario per pensare la politica contro la guerra e per negare alla guerra la sua apparente necessità, la sua “normalità”, la sua legittimità istituzionale.

[i] G. W. F. Hegel, Lineamenti di Filosofia del Diritto, con testo tedesco a fronte, introduzione, traduzione, note e apparati di V. Cicero, Bompiani, Firenze-Milano 2023 (rist.), § 324, p. 545 (per il testo tedesco, p. 544). Il lavoro precedente che Hegel qui cita, peraltro introducendo dei cambiamenti, è il saggio Le maniere scientifiche di trattare il diritto naturale.

[ii] Questa frase è il titolo del § 24 del libro I. Cfr. C. von Clausewitz, Della guerra, a cura di G. Fumagalli, M. Tarsetti e M. Villa, Introduzione del Gen. F. Mini, Ibex Edizioni, Cesano Maderno (MB) 2024, p. 44. Nel seguito del paragrafo, Clausewitz chiarisce però che “l’intenzione politica rimane l’oggetto, mentre la guerra è il mezzo, e il mezzo non può mai essere pensato senza un fine”.

[iii] Non fu un’invenzione di Schmitt, beninteso: questo principio fu applicato nell’organizzazione interna del partito nazionalsocialista fin dalle sue origini, ancor prima della presa del potere e prima che Hitler ne assumesse la guida incontrastata. Si tratta di un’estensione alla politica della gerarchia militare: ogni comportamento è legittimato dall’ordine del superiore, fino al capo supremo da cui tutto dipende. Fu Schmitt però a darne una formulazione giuridica rigorosa e, a suo modo, razionale.

[iv] C. Schmitt, Il concetto di “politico” (testo del 1932), in Id., Le categorie del “politico”, a cura di G. Miglio e P. Schiera, trad. di P. Schiera, Il Mulino, Bologna 1972 (rist. 1988), p. 108.

[v] Ivi, p. 116.

[vi] Ivi, p. 137.

[vii] Ivi, p. 115.

[viii] Ivi, pp. 120-121. È un riferimento importante per rendersi conto dell’ambiguità politica di Schmitt e per comprendere come mai un pensatore chiaramente di estrema destra sia stato apprezzato, e talvolta lo sia tuttora, dalla sinistra radicale.

[ix] Ivi, pp. 129-130.

[x] Uso la nozione di moderno secondo il suo normale (e convenzionale) senso storiografico: post-medievale e pre-contemporaneo, indipendentemente da quando esattamente si faccia iniziare l’“età moderna”. In un’ottica filosofica (tanto di filosofia politica quanto di metafisica, teoria della conoscenza e filosofia della scienza) la cesura è particolarmente marcata e meno convenzionale di quanto sia in altri campi e si colloca non tanto nel Rinascimento (che segna la fine del Medioevo solo in quanto ne è il culmine) quanto in quel secolo tremendo e fecondissimo che fu il Seicento. Nonostante gli enormi mutamenti intervenuti nel frattempo, il mondo in cui viviamo è ancora quello, mentre tutta la realtà precedente ci è divenuta sostanzialmente estranea. Hobbes, in filosofia politica, rappresenta una cesura estremamente netta, di sorprendente radicalità, proprio in quanto coglie la naturalità della guerra e viceversa l’artificialità della politica, come supremo rimedio contro di essa.

[xi] C. Schmitt, Il concetto di “politico” cit., pp. 149-50.

[xii] T. Hobbes, Leviatano, o la materia, la forma e il potere di uno Stato ecclesiastico e civile, a cura di A. Pacchi con la collaborazione di A. Lupoli, trad. di A. Lupoli, M. V. Predaval, R. Rebecchi, Laterza, Roma-Bari 20006, parte I, cap. XIV, pp. 105-6.

[xiii] Tuttavia, essendo l’uomo creato da Dio ed essendo dunque la sua natura conforme alla volontà divina, la legge naturale è indirettamente volontà di Dio.

[xiv] T. Hobbes, De cive. Elementi filosofici sul cittadino, a cura di T. Magri, Editori Riuniti, Roma 1979 (rist. 2005), parte I, cap. II, § 3, p. 31.

[xv] T. Hobbes, Leviatano, o la materia, la forma e il potere di uno Stato ecclesiastico e civile, cit., cap. XVIII, p. 145.

[xvi] T. Hobbes, De cive cit., parte II, cap. VII, § 5, p. 90.

[xvii] Ivi, parte II, cap. XII, § 8, p. 134.

[xviii] T. Hobbes, Leviatano, o la materia, la forma e il potere di uno Stato ecclesiastico e civile, cit., cap. XXI, p. 184.

[xix] Ivi, p. 183.

[xx] Cfr. ivi, p. 182.

[xxi] Ibidem. In realtà, non potrebbe rifiutarsi (se non commettendo ingiustizia) in un unico caso, come specifica Hobbes nello stesso luogo: quando la guerra metta in pericolo la sopravvivenza stessa dello Stato e comporti il rischio di una ricaduta in un disordine mortale.

[xxii] Cfr. E. Canetti, La provincia dell’uomo, trad. di F. Jesi, Adelphi, Milano 1978, p. 158.

[xxiii] E. Canetti, Massa e potere, trad. di F. Jesi, Adelphi, Milano 1981, p. 80.

[xxiv] Ivi, pp. 86-7.

[xxv] Ivi, pp. 273-275.

[xxvi] Ivi, p. 75.

[xxvii] Ivi, p. 201.

[xxviii] Ivi, p. 202.

[xxix] Ibidem.

[xxx] Ivi, p. 264.

[xxxi] Ivi, pp. 224-5.

[xxxii] Ibidem.

[xxxiii] Ivi, pp. 226-7.

[xxxiv] P. Clastres, La società contro lo Stato. Ricerche di antropologia politica, trad. di L. Derla, Ombre Corte Edizioni, Verona 2013 (rist.), p. 138.

[xxxv] Ivi, p. 145.

[xxxvi] Ivi, p. 159.

[xxxvii] P. Clastres, L’anarchia selvaggia: le società senza stato, senza fede, senza legge, senza re, introduzione di R. Marchionatti, trad. di G. Lagomarsino, Elèuthera Edizioni, Milano 2013, p. 69.

[xxxviii] Ivi, p. 72.

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