IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

La guerra è nell’interesse dell’Italia?

Essere cobelligeranti è nell’interesse nazionale? L’Italia si ritrova nelle condizioni di maggiore debolezza, perché è troppo grande per arrabattarsi e, allo stesso tempo, troppo piccola e fragile

Questo conflitto ha un punto di vista privilegiato, e indiscutibile: quello che guarda alla guerra che si sta conducendo sul suolo dell’Ucraina, alle distruzioni e sofferenze che provoca al suo popolo.
Ma questo conflitto non si ferma lì, coinvolge anche i paesi che vi partecipano in modo collaterale e su di essi produce conseguenze, di cui potrebbe sembrare gretto discutere in questo momento e che, però, non è il caso di trascurare, anche perché danno la misura dei guasti che si stanno producendo nell’ordine mondiale.
Quel che accade in Italia ha, per questo, un valore paradigmatico.
Credo che l’opinione pubblica italiana abbia già distintamente intuito quali siano gli interessi nazionali che questo conflitto mette in gioco: non a caso i sondaggi registrano che gli italiani sono contrari, in maggioranza e con percentuali ogni giorno crescenti, a questa guerra ed alla politica che il governo sta pervicacemente seguendo.
Fare un quadro di queste ragioni “nazionali” può, tuttavia, essere utile, perché giova a far chiarezza sull’orizzonte che, rimanendo così le cose, dominerà il futuro del Paese a partire già dai prossimi mesi. Questo quadro viene dalla doppia asimmetria che esibiscono gli effetti di questa guerra sui paesi che non vi sono direttamente coinvolti e che, tuttavia, operano, e si mostrano, ormai come reali cobelligeranti, ossia i paesi appartenenti alla NATO al di qua dell’Atlantico.

Le conseguenze economiche

La prima asimmetria è – come tutti sanno – quella che corre tra gli USA e i paesi europei: tanto i rischi di estensione del conflitto che le conseguenze economiche delle sanzioni già adottate non toccano gli USA se non marginalmente e, invece, coinvolgono pesantemente l’Europa. La seconda asimmetria è – come ben si è capito – quella che corre tra i paesi europei che dipendono dalle forniture russe di gas e petrolio e/o dall’import/export di materie prime e manufatti dei paesi in guerra e quelli che per le risorse naturali che possiedono e per le rotte dei loro commerci non ne dipendono o hanno facile ricorso ad altre alternative. L’Italia – come è evidente – appartiene al primo gruppo dei paesi europei e subisce, dunque, questa doppia asimmetria in una misura che non è inferiore a quella di nessun altro. Le conseguenze di questa doppia asimmetria si colgono bene su tre piani: quello economico, quello geopolitico e quello propriamente politico. Anche se questi tre piani, evidentemente, comunicano tra loro.

Sul piano economico – lo dicono tutti – le conseguenze sono, o saranno, abbastanza disastrose. L’approvvigionamento energetico dell’Italia dipende per oltre il 40% dalle forniture di gas russo. Ed è solo propaganda sostenere che alla sua mancanza si potrà ovviare attraverso l’importazione dall’Algeria e dalla Nigeria, se solo si pensa che l’Algeria dovrà far fronte alla accresciuta domanda della Spagna (con la quale è da sempre impegnata) e che l’utilizzazione del gas nigeriano (poco) richiede un gasdotto che non c’è e per costruire il quale (sempre che convenga) sono necessari un bel po’ di anni. E lo stesso è a dire del gas liquido statunitense per il quale ci vorrebbero impianti che in atto non esistono in misura sufficiente e per costruire i quali sono necessari anche in questo caso molti anni.
Quanto all’export, quello italiano verso la Russia non è molto grande ma è pur sempre significativo. Il punto reale, però, è che la inevitabile rottura del mercato internazionale procurerà, in generale, conseguenze piuttosto pesanti. Se solo si pensa che essa genererà, comunque, una contrazione dell’export occidentale ed accrescerà la concorrenza sui mercati accessibili. E nell’aspra contesa dei prossimi anni sull’Italia peseranno i deficit finanziari e di competitività che da decenni si trascina.
Tutto questo, ad esser seri, non si apprezzerà in termini di minor raffreddamento dei condizionatori degli italiani, bensì in termini di riduzione del PIL nazionale, di disoccupazione e cassa integrazione, di caduta dei redditi e di estensione delle diseguaglianze. Chi non lo dice nasconde e, perciò, inganna.

Le conseguenze geopolitiche

Sul piano geopolitico il quadro – se si può – è anche peggiore. La vittima principale – a parte l’Ucraina ed il suo popolo – di questo conflitto è l’aspirazione ad un ordine multipolare, ad un governo multilaterale del mondo. La cui eclisse ha ricadute pesantissime sulla pace e sull’economia.
La buona riuscita della strategia offensiva degli USA dipende dalla “umiliazione” (che in sé sarebbe anche meritata) della Russia. Ma questo può avere solo due esiti: o l’allineamento della Russia all’Occidente, che condurrebbe all’accerchiamento della Cina (che confina con la Siberia russa per oltre 6.000 km.) ovvero l’allineamento della Russia alla Cina con la costituzione di un blocco orientale che sommerebbe le enormi risorse naturali e la avanzata tecnologia militar-spaziale della prima al gigantismo economico e all’efficienza della seconda. Ma la polarizzazione del mondo, cui in un caso o nell’altro inevitabilmente si giungerebbe, sarà densa di conseguenze negative per la pace e per l’economia. Per la pace, perché è evidente già ora che il vero obiettivo degli USA non è la Russia ma la Cina e la sua economia, sicché si tornerà ad un equilibrio da guerra fredda su scala questa volta più larga (andando da sé che la Cina ha quasi un miliardo e mezzo di abitanti cui provvedere e non si può permettere di rinunciare allo sviluppo che li ha riscattati da fame e arretratezza). E per l’economia, perché ne seguirà, in un modo o nell’altro, la lacerazione del mercato internazionale, come lo si è conosciuto da qualche decennio in qua, ma rispetto a sviluppi delle produzioni che sono ormai impareggiabili a quelli di qualche decennio fa (e cosa generi la crescita delle produzioni in un mercato che si riduce lo può intuire chiunque).
Dunque, una crisi. Ma come sempre accade le conseguenze delle crisi si ripartiscono in modo diseguale e colpiscono le situazioni più deboli. E l’Italia si ritrova nelle condizioni di maggior debolezza, perché è troppo grande per arrabattarsi e troppo piccola (e fragile, anche per il suo debito pubblico) per farvi fronte. Visto che questa polarizzazione ne comporterà lo schiacciamento sulle politiche statunitensi e la conseguente impossibilità di aiutarsi con “aperture” verso i paesi del blocco contrapposto (come faceva un tempo: e l’esempio della Libia è eloquente).
D’altronde, di tutto questo, e cioè della politica USA e dei suoi effetti sulla politica estera dell’Italia e sulla sua economia, i prodromi si sono già visti: basti pensare alla rinuncia coatta alla “via della seta” e all’ostruzionismo imposto verso il 5G cinese e Huawei.
Mentre difficilmente l’Europa potrà dar protezione da questo scenario, poiché la stessa Unione, e non a caso, ne è vittima: la polarizzazione del mondo la coinvolge direttamente, le toglie ogni reale autonomia politica, la schiaccia sugli USA e ne compromette gli interessi commerciali e lo sviluppo futuro della sua economia. Dopo la Cina è proprio l’Europa come si era venuta costituendo dai tempi della Merkel a costituire il bersaglio di questa politica statunitense: questa guerra è stata dichiarata con la Brexit e si è sviluppata fino alle minacce tariffarie di Trump.
E tutto questo, ancora una volta, si computa in termini di riduzione del PIL nazionale, di disoccupazione e cassa integrazione, di caduta dei redditi e di estensione delle diseguaglianze. Ed anche in questo caso, chi non lo dice nasconde e, perciò, sfugge al vero.

Le conseguenze politiche

Il piano propriamente politico – ovverosia della condizione politica nella quale sta precipitando il paese – è quello di cui meno si tratta, ma è, forse, quello più importante.
In un recente articolo apparso su Il Corriere, Paolo Mieli, che certo è tutto meno che un putiniano, ha segnalato, con grande lucidità e in modo egregio, che in Italia questa guerra ha causato una grave “devastazione delle menti”.
Questa devastazione concerne tanto la politica e le istituzioni che i mass-media e l’estensione delle stesse libertà individuali.
La politica, perché questa guerra ha accresciuto il carattere “armato” dello scontro politico. Questo processo era in atto da tempo, dall’epoca di Berlusconi e dei suoi oppositori fino a giungere alle polemiche feroci tra “populisti” e “anti-populisti” ed alle diatribe prima tra sostenitori del lockdown e libertari e poi tra vaccinisti e no-vax. Ma ora oltre a mettere l’elmetto, ha anche imbracciato il fucile: chi non accetta l’ingiunzione di far seguire alla distinzione tra ”aggredito e aggressore” l’accettazione incondizionata dell’appiattimento della politica nazionale sugli USA è in mala fede, tradisce i valori della libertà e della democrazia, è un nemico dell’Occidente, attenta alla stabilità del paese, deve essere politicamente isolato e condannato, ecc. Anche al Papa è stata rivolta, dopo l’intervista a Il Corriere, l’accusa di “fare politica” e di esser trascinato dal suo “antiamericanismo argentino”, sol perché, invece di ripetere pedissequamente la narrazione dominante e “benedire le armi”, si interroga sulla guerra con le parole del Vangelo e dice di esser disposto ad andare da Putin per invocare la pace.
Questo non solo ha spaccato le forze politiche in un modo che difficilmente potrà essere ricucito, ma ha anche oscurato tutte le questioni che investono la vita quotidiana dei cittadini. E lo ha fatto istituendo un clima bellicoso mai prima conosciuto: salute, occupazione, eguaglianza, ecc. sono costrette a cedere il passo alla bandiera da impugnare in questa guerra, con la conseguenza che chi chiede di occuparsi di queste altre cose si ritrova esposto all’accusa di minare la stabilità del governo ed esporre l’Italia al disastro nel mezzo di una guerra.

Le conseguenze istituzionali

Le istituzioni ne escono malconce tanto dal punto di vista del loro rapporto con il popolo che dal punto di vista del loro funzionamento rispetto al parametro costituzionale. Per il primo aspetto, perché la crescente divaricazione tra l’opinione pubblica e politica governativa ripropone, e accresce, la distanza tra istituzioni e popolo già manifestatasi nel 2018, con la decisiva differenza che, ora, questa divaricazione non trova più una qualche canalizzazione politica. I guasti sociali che questo può provocare non solo difficili da immaginare: o rassegnazione o rivolgimenti, rispetto ai quali non si sa cosa sia il peggio. Per l’altro aspetto, perché le abbreviazioni costituzionali sperimentate (per lo più a ragione) durante la pandemia vengono estese, con incredibile disinvoltura, anche ai comportamenti governativi sullo scacchiere della guerra: il Parlamento non ne è investito se non una tantum e solo per rilasciare una delega in bianco e il Presidente del Consiglio si rifiuta di discutere della guerra innanzi alle Camere “perché non ci sono novità rispetto a quanto deliberato all’inizio”. Dov’è – verrebbe da chiedersi – la democrazia che andiamo a difendere in Ucraina se su decisioni come la guerra che investono la vita e il destino dei cittadini il Parlamento è silenziato. Qualcuno ha ricordato che lo stesso era avvenuto per l’intervento dell’Italia nella Grande Guerra e poi nella Guerra Mondiale: come dire che la guerra è una cosa troppo seria per lasciare che il popolo interloquisca. Ma cento anni non dovrebbero essere passati inutilmente. E, poi, si è visto come sempre è finita: nel primo caso con 650.000 morti e il fascismo, nel secondo 400.000 morti tra militari, partigiani e civili e un intero paese distrutto.
Quel che avviene nella politica e nelle istituzioni si riflette nel trend negativo cui sta andando incontro il sistema dell’informazione. Anche in questo caso si tratta di un processo risalente. Ma mai prima si era dovuto registrare un suo schieramento così militante/militare. Accade, talvolta (fortunatamente), che si vedano i conduttori televisivi sentirsi in dovere di “reinterpretare” gli “esperti indipendenti” chiamati nei loro talk-show quando le loro narrazioni sembrerebbero prestarsi a “fraintendimenti” (“Lei sicuramente voleva dire che …”) e/o di fermare i loro “inviati” quando si avventurino in commenti un po’ eterodossi (“la strage dei sindacati ad Odessa è un aspetto troppo complesso di cui adesso non possiamo discutere …”). Accade, invece, quasi sempre che ai commenti “spiacevoli” dei partecipanti invitati per “rappresentare” le altre opinioni e fare dibattito seguano subito le immagini di un reportage che sembra voler mostrarne l’inaffidabilità e la faziosità. Ed accade anche che un giornalista sia censurato perché, intervistando il Ministro degli Esteri russo, non lo abbia “inchiodato” alle sue responsabilità: come se l’intervista dovesse essere un processo e il giornalista un P.M.

Informazione e propaganda

Questo, ovviamente, rischia di mutare l’informazione in propaganda. Ma l’insidia alla libertà del pensiero e della cultura non è minore. La proposta della Von der Leyen di oscurare i siti russi, per quanto spudoratamente faziosi ed unilaterali possano essere, difficilmente si può ritenere compatibile con le libertà fondamentali garantite dall’Unione e dalla nostra Costituzione. L’idea di una censura delle fake news potrebbe sembrare una cosa sensata, se non fosse che presuppone qualcuno legittimato a decidere dove stia il vero e dove stia il falso o – meglio – quando e fino a che punto si possa tollerare una mezza-verità o una mezza-falsità: un arbitro universale della veridicità e della giustezza designato da chi? La proposta di escludere gli atleti russi dalle competizioni sportive offende principi elementari della nostra civiltà giuridica. Come l’ostracismo ai classici della letteratura russa e ai suoi artisti offende la cultura e la sua universalità. Ma quel che, forse, è ancora più grave, e sembra intollerabile, è che tutto questo sta producendo il diffondersi di una crescente “prudenza” nel manifestare pubblicamente le proprie opinioni: chi non condivide anche aspetti marginali del mainstream o fa precedere il proprio pensiero da mille cautele (“premesso che c’è un aggredito e un aggressore e che l’aggressore è un macellaio, un animale, un criminale …”) oppure preferisce tacere.
Tutte queste cose, prese di per loro, possono sembrare, e sono, piccole cose rispetto alla gravità di quel che accade, ai morti ed alle distruzioni. Ma poiché non si sa dove giungerà quel che accade, non si può sapere fino a che punto giungeranno, cumulandosi, tutte queste piccole cose. E così un disagio crescente si impadronisce della nostra società e sembra annunciare che non c’è più spazio per tutti.
Della guerra e delle sue conseguenze sull’Italia si può discutere quanto si vuole, ed anche di queste considerazioni e del pessimismo che le attraversa si può discutere a lungo: anzi è bene che se ne discuta sempre di più. Ma proprio per questo fa specie sentir dire dal simpatico e sincero Alan Friedman che “Draghi è il più americano dei leaders europei” senza che in Parlamento se ne possa discutere.

 

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