La guerra commerciale scatenata da Donald Trump non ha risparmiato nessuno, colpendo tanto gli avversari quanto storici alleati come l’Unione europea, il Giappone, La Corea del Sud e Taiwan. Questa offensiva ha spinto alcuni osservatori a profetizzare la fine della “globalizzazione”, il tramonto del dollaro e, persino, il collasso del capitalismo stesso. Temiamo si tratti di Wishfull thinking. Uno sguardo di più ampio respiro, come quello lucido di Fabio Massimo Parente, invita ad interpretare in maniera meno affrettata la “mossa” di Trump e a immaginare, per quanto difficile, una possibile contro-mossa.
La guerra commerciale rappresenta l’ultimo capitolo di un più ampio ripensamento dei governi statunitensi sulle “magnifiche e progressive sorti” della iper-globalizzazione neoliberale, fondata sulla concorrenza senza limiti (Alfredo D’Attorre, 2023).
Per una classica eterogenesi dei fini, infatti, la globalizzazione neoliberale, dopo aver inizialmente rafforzato il dominio planetario dei paesi occidentali, capaci di sfruttare a loro vantaggio la divisione internazionale del lavoro, si è trasformata in una fase successiva nel motore di una “Grande convergenza” a favore delle economie dei paesi in via di sviluppo (Richard Baldwin, 2018). Questi ultimi sono riusciti ad attrarre maggiori capitali ed investimenti, grazie tra l’altro al costo del lavoro significativamente più basso rispetto a quello dei paesi avanzati. A segnare la svolta è stata soprattutto l’ascesa della Cina come nuova potenza asiatica, specie dopo il suo ingresso nel WTO (2001), che ha innescato determinare due mutamenti profondi, strettamente intrecciati, della politica statunitense.
In primo luogo, prende avvio il “pivot to Asia”, lo spostamento del baricentro strategico – militare ed economico – degli interessi statunitensi dall’Europa (e dal Medioriente) verso l’area indo-pacifica. Questo riposizionamento geopolitico inizia sotto la presidenza liberal-progressista di Barack Obama e subisce una decisa accelerazione con la Presidenza Trump che punta a delegare all’Unione la gestione del conflitto russo-ucraino, al fine di concentrare l’intero apparato militare nella competizione sistemica con la Cina.
Al contempo, si fa strada la consapevolezza che, per mantenere il proprio predominio globale, la finanziarizzazione dell’economia garantita del privilegio esorbitante del dollaro non basta più. Gli Stati Uniti devono tornare ad essere la “fabbrica del mondo”, un ruolo che – secondo una narrazione diffusa nei think tank strategici americani – sarebbe stato loro fraudolentemente sottratto dalla Cina. Di qui la necessità di riportare sul suolo nazionale le catene del valore globale, in un processo di “re-shoring” industriale (Alessandro Aresu, 2025). Una strategia che era già implicita nell’Inflation Reduction Act varato dall’amministrazione Biden che ha introdotto enormi incentivi economici e fiscali per attrarre le grandi imprese manifatturiere europee (e non solo), inducendole a trasferire una parte delle loro produzioni negli USA.
L’Unione europea si è presentata del tutto impreparata a questo tornante storico. In una prima fase, quando già si delineava il ritorno di politiche protezionistiche – sotto forma di de-coupling, de-risking, friend-shoring – che segmentavano ulteriormente le catene globali del valore, già compromesse dalla pandemia, Bruxelles ha continuato ostinatamente a scommettere sul modello ormai logoro dell’austerità espansiva. Una scelta miope, formalizzata nel “nuovo” Patto di stabilità e crescita, che ignora le trasformazioni strutturali dell’economia globale (Federico Losurdo, 2024).
Oggi, di fronte alla scelta strategica di Trump di portare a compimento il pivot to Asia e di scatenare una guerra commerciale per acuire le già profonde fratture tra gli Stati membri, l’Unione europea sembra ripiegare sul keynesismo militare (Andrea Guazzarotti, 2024). Una riconfigurazione delle priorità di spesa pubblica che viene giustificata dalla necessità, ritenuta improrogabile, di garantire la “sicurezza” della casa comune europea. Anche al prezzo, tutt’altro che indolore, di nuovi tagli allo Stato sociale (così Stefano Cingolani, Amministratore delegato di Leonardo Spa, già ministro della transizione ecologica con Draghi).
Il ReArm Europe potrebbe divenire Rearm Germany. Approfittando dello spazio di bilancio accumulato durante gli anni dell’austerità, la Germania ha adottato in tempi record una modifica della Legge fondamentale, introducendo una deroga al “freno all’indebitamento”, ma solo per finanziare le spese militari (oltre a quelle legate alla transizione ecologica).
Abbiamo forse dimenticato una delle ragioni geopolitiche fondamentali che ha giustificato, fin dalla sua origine, il progetto europeo? Impedire proprio il riarmo solitario della Germania.
In questo scenario cupo, che a molti evoca il clima di tensione inter-imperialista che precedette il fatidico 1914 (si veda l’intervento di Alessandro Barbero), l’Unione europea appare incapace di ragionare fuori dagli schemi consolidati. Eppure, proprio ora sarebbe il momento per fare la “mossa del cavallo” (Andrea Camilleri) e rovesciare il tavolo, con lucidità e coraggio politico.
La contro-mossa si chiama dialogo con i Brics e, in particolare, con la Cina. Un tentativo in questa direzione era stato avviato in Italia da Giuseppe Conte che firmò il Memorandum d’intesa per la collaborazione alla Nuova “via della seta”, memorandum poi frettolosamente accantonato dai successivi governi.
I Brics si fanno promotori di una visione alternativa della globalizzazione diversa da quella occidentale che ha dominato il secolo scorso. Una globalizzazione orientata alla costruzione di “ponti” tra le civiltà, anziché di “muri”. Una globalizzazione fondata sulla condivisione del benessere economico e sociale, secondo la logica win-win. Una globalizzazione che mira a ridurre i divari economici globali, promuovendo ambiziosi progetti di investimento infrastrutturale nei paesi in via di sviluppo.
La sfida è di natura esistenziale. L’Europa ha un interesse vitale e autonomo nel promuovere un ridisegno dell’ordine internazionale che scongiuri una deriva della globalizzazione neoliberale in direzione di un mondo frammentato, suddiviso in aree di influenza rigide, caratterizzate da crescenti barriere economiche e da un indebolimento della cooperazione politica. Su questo nodo cruciale emerge con chiarezza una divergenza strategica tra il nucleo europeo e gli Stati Uniti.