Vorremmo anzitutto richiamare la comunità internazionale, l’Europa, l’Italia alle loro reali responsabilità, ai loro non delegabili doveri di fronte agli orrori della guerra. È urgente agire al fine di interrompere l’escalation della guerra, evitando di impantanarsi in essa, rifiutarsi di accettare la sua logica devastante. La domanda che dovrebbe tormentarci è come garantire ora – nella situazione data – la pace e la sicurezza futura nei rapporti tra le Nazioni. Non solo invocando una fragile tregua – che non può rappresentare di per sé una stabile soluzione, semmai un importante presupposto – bensì cercando le vie per «salvare [le attuali e] le future generazioni dal flagello della guerra»; per «riaffermare la fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nella eguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle nazioni grandi e piccole»; per «creare le condizioni in cui la giustizia ed il rispetto degli obblighi derivanti dai trattati e dalle altre fonti del diritto internazionale possano essere mantenuti»; per «promuovere il progresso sociale ed un più elevato tenore di vita in una più ampia libertà». Come è scritto nel preambolo della Carta della Nazioni Unite. La richiesta di promuovere una conferenza internazionale per garantire la pace e la sicurezza tra le Nazioni è una proposta ispirata a tali scopi. Una proposta mossa dalla volontà di interrompere l’escalation bellica che sembra ormai inarrestabile e dominare i comportamenti dei potenti del mondo. Opporsi alla follia della guerra che ormai si impone anche nel dibattito pubblico, occupando per intero le nostre menti che hanno difficoltà a pensare la pace.
Andare alle radici del male
Non vogliamo oggi riaprire la polemica sull’invio delle armi, prendiamo atto della decisione assunta quasi all’unanimità dal Parlamento e fatta propria dal Governo, ci limitiamo a constatare che questa non può essere la soluzione. Affidarsi esclusivamente ad essa vuol dire rinunciare a perseguire pacifici e stabili rapporti internazionali. Vuol dire rinunciare a pensare che ci sia una speranza oltre il campo di battaglia. La vittoria sul campo e l’uccisione del nemico come unico orizzonte del possibile. Sostenere dunque la guerra, armare gli aggrediti, inorridire di fronte alle stragi degli altri, ma senza altra speranza, senza intravedere neppure una via di fuga. In attesa della vittoria finale, ma temendo la sconfitta degli aggrediti. Non credo che questo scenario, che la guerra per procura, sia un orizzonte possibile. Non credo neppure sia umanamente sostenibile. Non possiamo scaricare sulle vittime della guerra la responsabilità della guerra, né ad essi soli affidare il nostro comune futuro di pace. Non vogliamo guardare da un’altra parte, bensì andare alle radici del male che ha prodotto la degenerazione e l’inumanità dello scontro armato.
Ecco perché per chi vuole affermare il valore del ripudio della guerra l’unica via possibile è quella di ridare la voce al diritto. A quel diritto che, dopo la tragedia della Seconda guerra mondiale, ci ha indicato la via che oggi stentiamo a riconoscere, offuscati come siamo dal bagliore delle armi, paralizzati di fronte all’orrore delle stragi, sopraffatti dai morti, incapaci di spiegare lo scempio e l’offesa alla dignità delle persone.