IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

La Russia affama il mondo?

La Russia affama il mondo è’ il grido di battaglia di Ursula von der Leyen. C’è ora un concreto rischio di fame e di carestia, dicono a Bruxelles. E prima non c’era?

Dopo che si è sparsa la notizia che dai 20 ai 25 milioni di tonnellate di grano e mais sono bloccati nei silos in Ucraina, i media e i politici occidentali sembrano preoccuparsi molto intensamente e con aria molto afflitta della fame nel mondo, cosa che non avevano mai fatto in passato con tanta passione. Dovremmo essere molto lieti di questa simpatica novità. Ma forte è il sospetto che si tratti di un altro modo per condannare la Russia. C’è ora un concreto rischio di fame e carestia, dicono a Bruxelles, e prima non c’era? “La Russia affama il mondo”, è il grido di battaglia di questi giorni di Ursula von der Leyen, mentre il bellicoso segretario del PD ha appoggiato la balzana idea di inviare una spedizione militare marittima verso Odessa con funzioni umanitarie, forse perché il problema sembra cominciare a toccare anche le nostre mense sino a ieri così ricche. Comunque sia, nei primi giorni di giugno sia la Russia che l’Ucraina sembrano disponibili a regolare la questione, in attesa di complicati dettagli operativi.

 Prima dell’invasione russa

Diamo preliminarmente uno sguardo ad alcune delle più rilevanti questioni che toccano oggi il settore agricolo. A livello mondiale si registra da tempo un aumento continuo della domanda di cibo dovuto tanto alla crescita della popolazione mondiale, in particolare nei paesi emergenti dai quali si originerà nei prossimi anni l’80% dell’aumento della domanda complessiva; quanto ad un più generale aumento del reddito disponibile ed ai cambiamenti nella dieta alimentare degli stessi paesi emergenti.

Nel 2050 la popolazione mondiale potrebbe avvicinarsi alla cifra di 10 miliardi di abitanti. L’agricoltura è tecnicamente in grado di produrre quanto necessario per sfamare l’umanità e sono ragioni sociali e politiche quelle che impediscono che tutti gli abitanti della terra abbiano un accesso adeguato al cibo. Il problema sarà non solo quello di un forte aumento quantitativo della produzione, ma come raggiungerla senza che cresca in maniera insostenibile il suo impatto sull’inquinamento dell’ambiente, sul consumo di acqua e sulla deforestazione.

Già nei mesi precedenti allo scoppio della guerra ucraina nutrirsi non era mai costato così caro. La Fao, già per quanto riguarda il 2021, registrava che i prezzi dei prodotti alimentari erano aumentati in media del 28%. Un aumento collegato alla ripartenza della domanda globale a fronte di una carenza nell’offerta dovuta a diversi fattori: i cambiamenti climatici che hanno provocato eventi meteoreologici estremi, la peste suina africana, il covid, la siccità che ha colpito i raccolti in America Latina e in alcune zone dell’Africa, i recenti problemi logistici e di trasporto via mare legati ai conflitti in corto, la speculazione.

L’inflazione

L’inflazione colpisce soprattutto i paesi più dipendenti, appesantendo la fattura delle loro importazioni, in un periodo in cui in alcuni di essi si registra un significativo declino dei salari e difficoltà legate all’elevato indebitamento verso l’estero. Non ci risulta che la von der Leyen e Letta si siano mai preoccupati troppo di tali eventi. Già prima della pandemia tra 840 e 900 milioni di persone soffrivano della fame cronica e non disponevano delle risorse alimentari sufficienti per svolgere una vita sana ed attiva (Fao). La pandemia e il forte aumento recente dei prezzi dei prodotti alimentari hanno contribuito ad un rilevante aumento del fenomeno. Secondo l’Onu il numero delle persone che non avevano accesso ad un’alimentazione adeguata è aumentato nel solo 2020 sino a raggiungere e superare il miliardo di unità.

L’inazione dei paesi occidentali rispetto a tale quadro era palese, anche se diverse agenzie finanziarie internazionali, a partire da quelle Onu, si sono mobilitate per fronte al fenomeno, con risultati rilevanti ma certamente non sufficienti. Basti pensare al contestuale aumento dei profitti nel settore dei grandi intermediari, trader sulle materie prime, hedge fund e società che gestiscono gli indici sulle stesse materie prime. La Oxfam ha calcolato che in particolare dallo scoppio della pandemia le grandi imprese del settore dell’agroalimentare e dell’energia hanno visto accrescere le loro ricchezze di 453 miliardi di dollari. E certamente la crisi ucraina contribuirà ad ulteriori grandi entrate nel settore. Va a questo proposito segnalato che una parte molto importante delle terre agricole del paese è in qualche modo controllata dal capitale estero che possiede molte delle infrastrutture di supporto e influisce in maniera molto importante sulla commercializzazione internazionale dei prodotti.

I problemi non toccano, peraltro, solo i paesi poveri. Come indicano delle ricerche recenti, l’inflazione in aprile in Gran Bretagna è salita al 9%, mentre le previsioni parlano di un 10% e più per il prossimo autunno. In tale quadro si sta creando uno scenario apocalittico per i prezzi del cibo, come ha sottolineato di recente il governatore della Banca d’Inghilterra. Un sondaggio ha mostrato che un quarto della popolazione britannica è costretta da tempo a saltare un pasto al giorno per risparmiare e che addirittura due terzi sono obbligati a tenere spento il riscaldamento. E problemi analoghi si registrano in altri paesi europei, compreso il nostro.

Aree critiche

Vale la pena, a questo punto, approfondire alcune delle situazioni critiche presenti da tempo in alcune aree del mondo. Nel Centro America, in Honduras, Guatemala, El Salvador e nell’area dei Caraibi da tempo la siccità spinge milioni di persone ad emigrare e a cercare di entrare, spesso senza successo, negli Stati Uniti, bloccati dalle guardie di frontiera. In Cile dalla fine del 2021 (si veda in proposito un articolo di John Bartlett sul Guardian del primo giugno), ormai dopo quattro anni totalmente asciutti, più della metà della popolazione del paese, che conta 19 milioni di abitanti, vive in aree che registrano una severa scarsità di acqua. Ma la crisi dell’acqua era già in agenda quando nel 2019 milioni di persone erano scese per strada a protestare contro le spaventose diseguaglianze presenti nel paese, al grido di “non è la siccità, è il furto”. In effetti il codice dell’acqua varato da Pinochet nel 1981 privatizzava e finanziarizzava tale risorsa. Così oggi solo il 2% del totale è utilizzata per il consumo umano.

Proteste per la fame si sono registrate di recente in Sri-Lanka, Tunisia, Perù ed anche altrove.In ogni caso, i bisogni alimentari si concentrano in particolare in Africa. Citiamo in questa sede soltanto due aree, Il Sahel e il Corno d’Africa, anche se problemi sono presenti da tempo anche nel Magreb, in Libia, in Egitto e così via. Nella prima area citata i problemi della siccità e della carestia toccano in particolare il Mali, il Burkina Fasu, il Chad, il Niger, paesi non a caso interessati da grandi turbolenze legate anche all’intromissione di forze esterne. Così l’ONU stimava nel 2021 che più di un terzo della popolazione del Chad, circa 5,5 milioni di persone, avevano bisogno di un aiuto umanitario urgente.

Una pagina di Le Monde del 29-30 maggio ci ricorda quale sia da tempo la situazione dei paesi del Corno d’Africa, regione segnata dalle violenze, dal fallimento degli Stati, dalla crisi climatica. In particolare, nello Yemen la guerra civile iniziata nel 2014, e successivamente alimentata anche dall’Occidente (tre imprese francesi, Thales, MBDA e Dassault sono accusate di crimini di guerra per aver fornito nel tempo delle armi all’Arabia Saudita e agli Emirati), ha portato il paese alla miseria. I servizi di base sono inaccessibili e i prezzi dei prodotti alimentati da allora non cessano di aumentare. Dalla fine del 2020 in Etiopia la guerra civile si coniuga con una estrema siccità, comportando l’esodo di almeno 5 milioni di profughi e una strage del bestiame. Ancora la guerra civile rovina la Somalia dal 1991; la carestia ha provocato la morte di 260.000 persone nel 2011 ed ora essa minaccia di nuovo il paese. La crescita mondiale dei prezzi del cibo rischia di portare il 40% della popolazione in una situazione di insicurezza alimentare acuta. In Kenia il riscaldamento climatico mette in pericolo la produzione agricola e la conseguente siccità mette in grande difficoltà gli allevatori di bestiame, con la conseguente sottoalimentazione di mezzo milione di bambini.

In totale circa 70 milioni di persone si trovano nell’area in una situazione di insicurezza alimentare grave. Per altro verso, i quattro quinti della popolazione mondiale vive in paesi che sono importatori netti di cibo. Circa 50 paesi dipendono da almeno uno dei due paesi ora in guerra per più del 30% dei loro acquisti, mentre 26 lo sono per più del 50%.

Non c’è solo il problema del grano. I prezzi dello zucchero hanno cominciato a crescere fortemente ancora prima della fine del 2021 e sono ora i più elevati da molti anni, come ci informa un editoriale del South China Morning Post del 29 maggio. Gli scarsi raccolti, legati tra l’altro ai mutamenti climatici, hanno spinto già dall’inizio di questo anno molti paesi, a cominciare dal Brasile, il più importante produttore ed esportatore della derrata, a bloccarne le esportazioni. La Cina importa grandi quantità del prodotto, ma può gestire tranquillamente la situazione, mentre cominciano a soffrirne molti paesi più deboli. Ma nessuno sembra curarsene, tantomeno a Bruxelles.

 L’arrivo dei russi

Indubbiamente, l’invasione russa dell’Ucraina ha ulteriormente aggravato una situazione già al limite di rottura in molti paesi, senza che peraltro la cosa avesse sino a quel momento emozionato oltre misura i politici ed i media occidentali.

Il prezzo del grano che era cresciuto sino a 280 euro la tonnellata prima della guerra ha ora raggiunto i 440 euro (e quello del mais i 314 euro). Qualcosa di simile si può dire per i fertilizzanti, mentre i russi fanno notare che anche le sanzioni occidentali hanno incrementato la volatilità dei prezzi e hanno reso difficili le esportazioni. Ma all’aumento dei prezzi hanno contribuito soprattutto forti speculazioni sui mercati dei futures, come testimonia un esperto del settore, intervistato su Il Manifesto del 1 giugno.

Per altro verso, il cambiamento climatico ha spostato le frontiere del dove il cibo può crescere. Il settore agricolo sta cercando di adattarsi alle temperature più calde e ad eventi atmosferici più estremi, all’innalzamento dei livelli del mare, siccità, inondazioni. Le frontiere della produzione di grano in Russia ed in Canada si spostano verso Nord, insieme a quelle del riso. La Russia in pochissimi anni è diventato il principale esportatore di frumento, mentre la produzione ucraina si è anch’essa incrementata notevolmente.

Negli ultimi anni la Russia e l’Ucraina hanno fornito il 28% del grano commerciato sui mercati mondiali, il 29% dell’orzo, il 15% del mais e il 75% dell’olio di girasole. La Russia è il primo esportatore mondiale di grano e l’Ucraina forse il quarto. Mentre le esportazioni ucraine sono quasi ferme per il blocco dei porti, alcune di quelle russe sono in difficoltà per le sanzioni finanziarie occidentali.

Tradizionalmente, il 98% delle esportazioni di cereali dell’Ucraina passavano per il porto di Odessa, ora bloccato. Pare che nel mese di aprile si sia riusciti ad esportare una quantità di grano pari soltanto al 20% di quella normale, mentre i raccolti di grano del paese si potrebbero ridurre quest’anno del 35%. (tra l’altro l’invio via treno dei cereali è scoraggiata dal diverso standard dei binari tra l’Ucraina e gli altri paesi europei). Nel frattempo diversi paesi, dall’India al Kazakistan, stanno bloccando le esportazioni, alimentando lo spettro di un aggravamento di una carenza globale di cibo.

Intanto, i contadini del resto del mondo, di fronte all’aumento dei prezzi dei carburanti e dei concimi, dei pesticidi ed erbicidi, nonché alle incertezze climatiche, tendono almeno in parte a spostarsi da quella del grano verso produzioni con minori input, mentre comunque la produzione dello stesso, anche a causa in particolare degli eventi climatici, si sta riducendo. D’altra parte, in Russia si è registrato in questo ultimo anno un raccolto record. In Cina dopo un raccolto invernale mediocre quello estivo si preannuncia molto elevato, mentre in altri paesi del mondo tradizionalmente esportatori come il Canada, gli Usa, l’India, le cose non sono andate altrettanto bene.

 Servirebbe una grande cooperazione internazionale

Chi scrive non sostiene che la crisi del grano sia interamente fabbricata in Occidente per fini di propaganda, ma indubbiamente già prima della crisi ucraina nel mondo erano presenti in forma molto grave problemi che ora sembrano in qualche modo accentuarsi, mentre nessuno sembrava preoccuparsene molto prima del 24 febbraio 2022. D’altro canto, sembra che proprio in queste settimane i silos di tutto il mondo siano pieni di grano e il loro livello appare vicino ai record storici. In tale quadro si ha la sensazione che un incremento delle esportazioni Usa (primo produttore e secondo esportatore mondiale della derrata), australiane (il paese è il terzo esportatore), canadesi, russe (il paese sta incrementando in queste settimane le sue esportazioni in particolare verso i paesi africani, mentre l’Occidente lo accusa di farlo con grano rubato all’Ucraina), francesi, argentine, brasiliane (questi due paesi per il mais), anche cinesi (la Cina oggi possiede tra il 50% e il 60% di tutti gli stock mondiali di grano), potrebbero attenuare in rilevante misura i problemi.

Per altro verso, l’Ucraina e la Russia, sollecitate anche dalle organizzazioni internazionali e dai paesi africani, hanno dichiarato la loro disponibilità a aprire i porti e lasciar partire la merce. Se anche si risolvesse rapidamente questo problema, resterebbe ovviamente tutta intera la questione della fame e delle carestie di tipo strutturale, indotte dai cambiamenti climatici, dalle ingiustizie sociali, dalle guerre civili, dalla speculazione. La guerra finirà prima o poi, ma i cambiamenti climatici continueranno a rendere problematiche le forniture di cibo. Un recente rapporto delle Nazioni Unite sottolinea come il 40% delle terre siano ormai degradate a causa di un modello di agricoltura intensiva drogata dagli input chimici. Servirebbe una grande cooperazione internazionale per affrontare il fenomeno e creare un sistema alimentare più giusto, più solido e più durevole

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