IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

L’Africa e quella smania di sicurezza

L’Africa del post-Guerra fredda subisce le conseguenze di idee securitarie che non producono progresso. Magari alimentano crescita economica per i pochi possessori di capitale. La sicurezza, dopotutto, può essere mercificata e quantificata.

Quelle poche volte che i media di massa si occupano di Africa è per menzionare gravi disastri bellici o umanitari oppure quando si parla della sicurezza per lo più relativa all’approvvigionamento alle risorse naturali. Ma con la caduta del Muro e dei sistemi socialisti, il mondo non doveva essere più democratico e quindi più libero e più sicuro e quindi scevro di problemi relativi all’insicurezza e all’instabilità?  Allora, perché in un contesto dove regna il capitale, sempre più indisturbatamente, dalle Americhe alla Russia, dalla Cina all’India, dall’Europa all’Africa, la domanda di sicurezza nel mondo aumenta? Non doveva essere il capitalismo, inteso come libero mercato e come libertà assoluta di fare, il presupposto della trasformazione democratica globale?

L’industria privata della “sicurezza”

Niente di tutto quello che promettevano i fautori della fine delle ideologie contrapposte si è verificato. Nascono di continuo persino corsi di laurea universitaria e di Master sulla sicurezza. Crescono come funghi compagnie, quotate in borsa, che si occupano di sicurezza. C’è un’industria privata della sicurezza che fattura miliardi in un contesto dove la coercizione non è più pubblica o statale, ma sta diventando sempre di più una questione privata, dove la sicurezza è sempre di più in mano anch’essa al capitale.  Allora un’altra domanda nasce spontanea. Non sia mai che gli apparati di sicurezza servano più a sé stessi cioè al capitale da cui dipendono che ai cittadini e alle cittadine, alle elettrici e agli elettori, alle masse mondiali?

L’Africa è uno degli eldoradi della cosiddetta industria della sicurezza. Tale industria si basa sulla mercificazione della paura e sulla fragilità degli apparati pubblici.  I media mainstream battono e ribattono in continuazione sul fatto che in tanti paesi dell’Africa ci sia oggi più democrazia di ieri. Persino le elezioni della Nigeria, dove un voto veniva comperato a 100 dollari, sono state dichiarate rientranti nel computo di ciò che rende un paese una democrazia. È vero che in Africa, malgrado gli alti e i bassi, si tengono oggi più elezioni che colpi di stato. Questo è un fatto certamente positivo, ma la democrazia elettorale va sempre qualificata. E vediamo sempre di più che in più di un contesto africano lo stato securitario si accompagna a quello democratico.

Per decenni, dagli anni ’60 agli anni ’90, siamo stati abituati a sentire raccontare l’Africa come il continente dei presidenti a vita, in divise mimetiche o in alti uniformi napoleoniche. I sistemi politici africani erano utilizzati da tutti gli scienziati politici come esempio non plus ultra del sistema a partito unico, autoritario. Le guerre e i disastri umanitari africani erano tutti imputati alla contrapposizione ideologica che creava mostri politici e guerra.

Neoliberalismo e “democrazia” in Africa

Oggi invece impera la retorica securitaria. Ce lo ricorda in questi mesi il Summit per la democrazia, l’ultima invenzione occidentale per dare una scusa al suo blocco di potere di investire soldi pubblici al fine di intervenire in Africa a difesa proprio della trovata o ritrovata democrazia. Guidato da Stati Uniti, Paesi Bassi, Zambia, Costa Rica e Corea, il Summit raccoglie tutti quei governanti, ONG e affaristi dei cinque continenti impegnati per una democrazia basata sulla trasparenza, i diritti umani e la collettività. Lo scopo dichiarato è quello di mettere fine alle disuguaglianze nel mondo, tale è il potere della democrazia. Infatti, dopo una luna di miele durata vent’anni, tra Africa e democrazia, uno studio della Fondazione Mo Ibrahim – un miliardario sudanese – ci avvisa che la democrazia è in pericolo. La pandemia e la Russia starebbero mettendo a repentaglio le sorti delle democrazie africane. Ci dicono questi report che bisogna fare qualcosa. Non si può consegnare al “male” il continente che fu di Mandela e Nyerere, di Nkrumah e di Kaunda. I report omettono che questi uomini erano degli afro-socialisti e pan-africanisti che credevano alla democrazia diretta e non a quella rappresentativa di tipo neoliberale. Ma lasciamo perdere quest’aspetto. I leader sono citati nel Report della Fondazione e questo è di per sé interessante per capire il livello di manipolazione della storia e quindi non solo del presente.

Lo Zambia è il paese africano che rappresenta il continente ed è stato co-oste dell’ultimo round dei Summit per la democrazia, quello del 2023. A parte il discorso sulle credenziali della classe politica di quel paese, che ha privatizzato tutto e più volte ha rischiato di portare alla bancarotta il paese, il messaggio è chiaro: democrazia e neoliberalismo debbono procedere assieme nel mondo e tutte le “forze contrarie” sono appunto contrarie e nemiche. Ce lo dicono persino quelli della Ford Foundation, nella persona del suo diretto Darren Walker, grande sponsor del Summit.

Serve allora vigilare su tali forze contrarie, ovunque esse siano e ovunque essere si nascondano. Ecco come la vigilanza diventa la ragion d’essere della bolla securitaria in Africa. Dopotutto, dietro l’operazione del Summit per la democrazia c’è anche il governo Biden. Lo scopo dichiarato è quello di rafforzare la cooperazione internazionale, la transizione verso un’economia più giusta, la parità tra i sessi e la fine della violenza spinta dall’odio.

La guerra sporca della CIA in Africa

Si tratta di buoni propositi sulla carta. Tuttavia, siccome siamo abituati per più di mezzo secolo a vedere gli USA operare in Africa con tutt’altri intenti – si veda a questo proposito il libro di Susan Williams White Malice: The CIA and the Neocolonisation of Africa (2021) – l’osservatore non può esimersi dal porsi alcune domande. E che ci siano altri scopi dietro la spinta a vigliare e alla sicurezza?

Gli USA sono implicati in Niger, un paese dal basso tasso democratico e dall’alto tasso di guerra diffusa. Antony Blinken ha impegnato il suo governo in un’azione di contrasto al terrorismo, che tuttavia a detta del direttore dell’Africa Centre of Strategic Studies, Joseph Siegle, le vittime del terrorismo stanno diminuendo di quasi la metà. Il Sahel (una regione che va dal Senegal al Sudan) è da due decenni una polveriera e un crocevia di traffici, azioni e situazioni che avvengono nella più grande impunità e soprattutto all’insaputa del resto del mondo. I francesi, espunti dal Mali, hanno lasciato spazio a nuovi attori militari, i russi, qualcuno dice del gruppo Wagner, al soldo di questo o quel interesse locale. Interesse capitalista, ovviamente. La strategia di portare la democrazia combattendo il terrorismo che mina la sicurezza rischia di fare diventare la regione una polveriera sud delle cinta di mura europee. La lotta per maggiore sicurezza implica metodologie che non danno spazio alcuno alla logica del dialogo tra governi e tra parti sociali.

Le cose non vanno meglio altrove, come nel Corno d’Africa, dove si è consumato un massacro a opera di un primo ministro premio Nobel, Abyi Ahmed, che ha mandato le Forze armate federali a combattere la popolazione del Tigray, la quale ha resistito finché ha potuto per poi cedere. Il massacro è stato attuato da un’azione a tenaglia orchestrate da un altro acerrimo nemico dei tigrini, l’eritreo Issaias Afeworki. Blinken marca visita anche in Etiopia e anche qui per parlare del connubio indissolubile tra democrazia e sicurezza.

Il Gruppo Wagner e la competizione strategica con gli USA

Dopodiché, in un vortice di conseguenze e rimandi, si arriva al nocciolo della questione. Il 16 marzo 2023, il generale dell’African Command, Michael E. Langley pubblica un documento – presentato alla commissione Difesa del Senato – che delinea quello che muove la strategia USA nel Sahel e in Africa, ovvero contrastare la presenza russa. Ci può stare. Il Gruppo Wagner non è costituito da dame della Carità di San Vincenzo e le gesta macabre del Gruppo sono innegabili e ben documentate in Africa. Siccome il Cremlino è il mandante del Gruppo Wagner, il vero target diventa la Russia di Vladimir Putin. La Russia è presentata come “un competitore strategico” degli USA in Africa. La Russia ha petrolio e grano da potere inviare all’Africa e si sta avvicinando ai governi africani non solo con le armi e l’offerta di protezione e sicurezza. Il girello tra terrorismo, interventismo, democrazia, interessi e sicurezza riprende il suo girare vorticoso, dentro cui tutto si mischia, Jihad e grano, petrolio e Wagner, democrazia e sicurezza. Siccome la Russia è stabilmente in Libia, fin da prima del conflitto ucraino, qualsiasi nemico della Russia non può lasciare libero il campo a sud. Più soft è il tono nei confronti della Cina, che comunque viene vista come un altro competitor.

Allora, la partnership USA-Africa non ha a che fare solo con la democrazia che sembra a tutti gli effetti cadere in secondo piano rispetto alla strategia di sicurezza, non certo dell’Africa e degli africani, i quali sembrano continuare essere le pedine di un grande giuoco globale. Lo sono da centinaia di anni. La sicurezza ce va garantita sembra essere quella degli interessi occidentali.

Attenzione però, perché Russia e Cina, ma anche Turchia, Arabia Saudita e compagnia bella non sono in Africa a far da badanti a governanti moribondi, ma hanno anch’essi interessi di potere che non hanno nulla a che vedere con l’Africa e la sua emancipazione. Pur scevri dal peso del retaggio coloniale, dato che questi paesi non sono mai stati colonialisti, essi agiscono nel continente né più e né meno grevemente di quanto non lo facciano le vecchie potenze coloniali europee e imperialista americana.  La Russia cerca da tempo di usare l’Africa per espandere la sua presenza globale e cercare alleati nel mondo, magari per compilare qualche pacchetto di voti al consesso onusiano.

Il ruolo costruttivo ed “estrattivo” della Cina

Ma è la Cina l’altro vero attore pericoloso nel continente sia per Occidente che per la Russia. Un attore economico che sembra stia anch’esso cambiando di pelle. La Cina e la Russia sono arrivate persino a scontrarsi per una sparatoria avvenuta in una miniera della Repubblica centrafricana dove sono rimasti uccisi nove lavoratori cinesi. La Cina accusa non precisati mercenari russi legati anch’essi alla Wagner. La Russia nega. Ma la vicenda mostra come la torta africana stia diventando sempre più piccola e quelli abituati a mangiarsela non sono desiderosi di aggiungere un posto a tavola. Allora anche la Cina sta imbastendo la sua rete di sicurezza, non già per difendere la democrazia ma il progresso economico che essa si propone di portare in Africa. Fino a qui anche con qualche successo, almeno a partire dal grande piano infrastrutturale inaugurato da Xi Jinping nel 2013.

Per proteggere i propri interessi e i propri cittadini, Pechino sta da tempo organizzando il suo sistema privato di sicurezza, fatto di contractors e mercenari. Queste compagnie private, tuttavia, operano in maniera diversa da quelle occidentali e russe. La Belt and Road Initiative, per esempio, che si occupa di costruire infrastrutture nel settore dei trasporti, è stata affiancata da diverse compagnie di sicurezza armate. La differenza è che il fine delle compagnie armate private non è la democrazia e la sicurezza, bensì la protezione armata degli investimenti e dei lavoratori cinesi. Nel caso sopracitato della Repubblica centrafricana, una task force armata sembra essere stata istituita per trovare e punire gli assassini dei lavoratori cinesi. Qui si arriva ad azioni di polizia. Secondo alcuni esperti, ci sono circa 5 mila compagnie private di sicurezza registrate in Cina. Venti di queste hanno la licenza di operare all’estero. Esse impiegano per ora circa 4 mila militari che operano anche in Africa.

La mercificazione della sicurezza

C’è una smania di sicurezza nell’Africa post-Guerra fredda. L’Occidente usa le armi e la retorica della sicurezza per proteggere la democrazia in pericolo, la Russia per riempire spazi e acquisire alleanze e la Cina al fine di proteggere il proprio lavoro costruttivo e al contempo estrattivo. L’Africa resta lì a cogliere dei vantaggi nel caos prodotto dall’agire di questi salvatori e protettori e allo stesso tempo a subire le conseguenze di idee sicuritarie che non producono progresso. Magari producono crescita economica. Una crescita economica per pochi possessori di capitale, ma che va nel computo della crescita generale. La sicurezza, dopotutto, può essere mercificata e quantificata. Tutto è merce nel capitalismo.

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