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cultura politica e costituzionale

IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

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IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

L’alba di un nuovo equilibrio globale

L'impero americano sarà l'ultimo della storia, ma Pechino non intende sostituirsi agli Usa quale dominus unipolare. La via cinese allo sviluppo – stabilità sociale, economia di mercato vigilata, controllo pubblico delle risorse – è un incubo per il capitalismo occidentale.

I bolscevichi giungono alla vittoria persuasi di costituire il primo capitolo della rivoluzione proletaria universale, in un paese dove gli operai erano una sparuta minoranza rispetto ai contadini/schiavi dell’impero zarista.

La Cina tra Usa e Urss

Scomparso Lenin e dovendo sopravvivere come avamposto socialista sotto assedio, l’Unione Sovietica di J. Stalin accetta di convivere col mondo borghese in attesa di quella palingenesi proletaria che tuttavia si allontana sempre più. Il vanificarsi di tale speranza avrebbe portato alla russificazione del comunismo, che Mao Zedong, alla fine degli anni ’50, accuserà di esser divenuta l’avamposto dell’imperialismo russo mascherato da internazionalismo proletario.

In Cina, l’aspirazione alla palingenesi sociale si accompagna sin dagli esordi alla lotta contro colonialismo e imperialismo, prima britannico/occidentale, poi giapponese. Nel 1949, sconfitti il Kuomintang e gli americani, l’urgenza è quella di ricostruire un paese sterminato e arretrato, obiettivo che implica stabilità politica. In tali circostanze, il comunismo cinese non può certo impegnarsi in un’ipotetica rivoluzione proletaria universale. Mao era poi persuaso che entrambi, Stati Uniti e Unione Sovietica, puntassero a comprimere la sovranità della Cina, i primi per ragioni imperialistiche, la seconda per consolidare la leadership in seno alla galassia comunista. Lo strappo con l’Urss si consuma nel ‘59 con il rifiuto di Krusciov di fornire a Pechino la tecnologia per l’arma atomica, secondo Mosca perché questo avrebbe impedito la distensione con l’Occidente, in realtà perché ciò avrebbe reso la Cina ancor più svincolata dall’Unione Sovietica.

Nel 1969, con gli incidenti sull’Ussuri si giunge a un passo da un conflitto aperto. Il rischio d’isolamento e le tensioni con l’Urss, dunque, convincono Mao ad assecondare l’intento di Washington di giocare la carta cinese in funzione antisovietica, mentre a sua volta guarda all’ingresso della Cina alle N.U.[i] al posto di Taiwan (obiettivo poi raggiunto il 25 ottobre 1971).

In quegli anni, le relazioni con Washington sono effervescenti. Commercio e investimenti fioriscono sotto la nozione di convivenza pacifica e mutui benefici. Fino al 1989-91 il ruolo che Washington assegna alla Cina, ricambiato, vale a dire il contenimento dell’Unione Sovietica, viene svolto accantonando la distanza siderale tra i due sistemi politico-ideologici.

La Fine dell’Urss apre una nuova fase

Proprio allora, tuttavia, si verifica un evento d’importanza storica che cambia le carte in tavola, la disintegrazione dell’impero sovietico. Con esso scompare di colpo la ragione principale che aveva portato alla distensione tra Cina e Stati Uniti e inizia una storia diversa. Le relazioni si complicano e su di esse si allunga gradualmente l’ombra del confronto e gli Stati Uniti, in un quadro radicalmente mutato rispetto agli anni ‘70, prendono atto che la minaccia alla loro egemonia potrebbe giungere proprio da lì.

Secondo la logica compensativa inizia così un graduale disgelo tra Russia e Cina, con una sequenza di accordi su confini, economia, commercio, investimenti e infine l’orizzonte strategico a favore di un mondo multipolare e un diverso ordine planetario.

L’esplosione della crisi ucraina nel 2014 offre l’occasione per un salto di qualità. Orchestrata a tavolino dagli Usa in funzione antirussa, la cosiddetta primavera ucraina rafforza quei profili di complementarità tra Mosca e Pechino sino ad allora rimasti in ombra: energia, commercio, industria militare, convergenze geopolitiche su Iran, Palestina, Corea del Nord e altro ancora, il tutto impreziosito dalla comune necessità di contenere l’espansionismo americano, politico e militare, che mira al medesimo obiettivo, destabilizzazione, frantumazione ed estrazione di ricchezza da entrambi.

Nel marzo del 2014, l’astensione cinese sulla Risoluzione riguardante la Crimea presentata dagli Usa al Consiglio di Sicurezza delle NazioniUnite costituisce una pietra miliare nei rapporti con Mosca post-guerra fredda. In tal modo, la Cina bilancia sapientemente interessi e principi, i primi per difendere i suoi legami energetici con Mosca, i secondi per contenere le perenni interferenze esterne su Tibet, Xinjiang, Taiwan, Hong Kong.

Incontrandosi a Pechino il 4 febbraio 2022, Putin e Xi Jinping sottolineano che l’amicizia tra le due nazioni non conosce più limiti[ii].

Il commercio bilaterale, bilanciato e nelle rispettive valute, si avvicina ai 300 mld di dollari. La Cina è oggi il principale partner energetico della Russia, la quale, superata l’Arabia Saudita, è a sua volta il primo esportatore di energia (oltre che di tecnologia militare) verso Pechino, via terra per di più, evitando così gli stretti di mare controllati dalla marina americana. Non siamo di fronte a un’alleanza militare sul modello Nato – Pechino è contraria a impegni che implichino automatismi, preferendo valutare caso per caso le decisioni da adottare – ma ci siamo vicini.

L’evolversi della dialettica geopolitica, la nuova guerra fredda contro la Cina dichiarata da D. Trump prima versione, confermata da J. Biden e che D. Trump seconda versione ha già annunciato di voler inasprire, le provocazioni passate e future su Taiwan e la crisi in Crimea/Donbass sfociata in guerra aperta nel 2022 determinano un plateale rovesciamento della dottrina Nixon-Kissinger, che negli anni ’70 aveva puntato su Pechino contro Mosca. Dopo una lunga parentesi, Cina e Russia tornano a convergere non più nella cornice ideologica e anticapitalista dei tempi di Stalin e Mao, ma sulla scorta di interessi concreti, impreziositi dalla comune necessità di contenere la medesima minaccia, l’imperialismo bellicista degli Stati Uniti insieme all’orizzonte strategico verso un mondo plurale e multinodale.

I Brics

Il raccordo Mosca-Pechino rafforza l’emersione del Sud Globale, Brics[iii], Sco[iv], Unione Economica Euroasiatica, Lega Araba, Mercosur, Rcep[v] e altri insiemi continentali, tutti impegnati ad affrancarsi dall’impero unipolare. Sotto la guida di Cina, Russia e India che ne sono i protagonisti, l’Asse della Resistenza, sebbene espressione di sistemi ideologici, politici ed economici diversi, è però accumunato dal principio di sovranità, condizione cruciale per uscire dal sottosviluppo. Questi paesi non sono pregiudizialmente ostili all’Occidente-Usa. Essi intendono tuttavia dialogare su base di parità, non di servitù. Il tempo in cui l’Occidente (colonialismo/neocolonialismo, forza o finanza!) estraeva risorse e lavoro dai paesi poveri e indifesi sta ormai dileguando.

L’impero americano sarà l’ultimo della storia, il mondo è divenuto troppo interconnesso e tecnologicamente intricato per consentire a una sola nazione di governarlo. L’oligarchia statunitense, che per conto del 4,3% della popolazione del mondo pretende di esserne il padrone, esprime tutta la sua patologica tossicità. L’Occidente (11/12% della popolazione mondiale e 14/15% con le propaggini orientali, Giappone, Australia, Corea del Sud e Nuova Zelanda) continua a sorprendersi se gli altri sette miliardi di individui prestano sempre meno attenzione alle loro morbose pretese.

Secondo il Fondo Monetario Internazionale (FMI) al 31 dicembre 2024[vi] il Pil nominale dei paesi Brics e dei Bricspartners[vii] (in totale diciotto) è stato di 33.547 mld di $, mentre quello del gruppo G7 circa 51.500 mld, ben superiore, dunque. Se però si considera il Pil a parità di potere d’acquisto (PPP[viii], una misura più accurata del benessere delle famiglie), il Pil dei G7 è stato di 56.580, quello dei Brics e partners oltre 80.710 mld di $. Se poi si somma quello dei paesi che hanno chiesto di aderire ai Brics (la lista include Vietnam, Nigeria, forse l’Arabia Saudita e un paese come la Turchia), si superano i 90.000 mld di $, una ricchezza immensa! Certo, se al G7 si aggiungono le economie occidentali che non fanno parte di quel gruppo, l’Occidente resta più ricco (di poco). Le distanze, tuttavia, si accorciano ogni giorno, poiché i paesi emergenti crescono a tassi più elevati.

G7 e Occidente a guida Usa, pertanto, non sono più il faro del mondo e chi intendesse acquisire indicazioni sul futuro, farebbe bene a testare il polso del Resto del Mondo.

Il Sud Globale cerca una nuova via per uscire dal sottosviluppo

Il Sud Globale ha preso anche distanza dal Washington Consensus, la chimerica via capitalista di uscita dal sottosviluppo, che in cambio di sottomissione ha promesso senza mai mantenere. Quel mondo guarda altrove, in particolare – ma non solo – al Beijing Consensus. La via cinese allo sviluppo – centrata su stabilità sociale, economia di mercato vigilata e controllo pubblico delle risorse – costituisce una sfida cruciale all’impalcatura privatistica dell’Occidente. Il modello cinese non è privo di difetti sul piano ideologico ed economico (il paradiso in terra non esiste). Il nucleo della sua dottrina, oltre alla sovranità, è costituito dalla vigilanza pubblica sulla ricchezza del paese e sui patrimoni privati, i quali, se privi di controlli, puntano a esondare nella sfera politica e a calpestare gli interessi collettivi. Tale scenario è dunque un incubo spaventoso per coloro che pretendono lo scettro del mondo!

Il dilemma Usa: perdere l’Europa o la Russia?

Nella seconda decade del secolo, dopo il fallimento della campagna di Russia (1991-2000), quando la conquista capitalistica dell’erede dell’Unione Sovietica sembrava a portata di mano, gli Usa fanno i conti con l’incresciosa rinascita della Federazione Russa sotto la guida di V. Putin. Tale rifioritura pone gli Stati Uniti davanti a una dolorosa alternativa: dar corpo a un reset con Mosca accettandone l’inevitabile saldatura con l’Europa, ovvero scegliere il male minore, perdere la Russia. Scartata la prima opzione, giudicata inconcepibile – l’Europa costituisce per gli Stati Uniti, la perla delle perle, irrinunciabile per ragioni di identità politico-culturale e interessi strutturali – essi puntano a dissanguare la Russia in altro modo, accerchiandola con basi militari, orchestrando rivoluzioni colorate in Cecenia e Georgia, provocandola con l’espansione Nato in Ucraina e l’aggressione alle popolazioni russofone in Crimea/Donbass, e spingendola in tal modo verso la sponda cinese. Washington investe sulla riemersione delle fratture russo-cinesi di epoca sovietica, sottovalutando tuttavia le cointeressenze che proprio allora andavano emergendo tra i due. D’altra parte, l’impero americano reputa di trarre comunque beneficio: tensioni, sanzioni, rivolte e conflitti restano essenziali alla Teoria del Caos, che arricchisce corporazioni e produttori di armi, preme sui prezzi energetici e sul corso del dollaro, assicura una seconda vita alla Nato e rende l’Europa più sottomessa e sfruttata, immaginando persino di indebolire la Cina, sfidante strategico dell’Impero malato.

L’incubo di quest’ultimo è costituito dalla saldatura Russia-Europa, due calamite in spontanea attrazione: storia comune, medesima religione, intreccio di culture, stesso colore della pelle (non paia eccentrico evocarlo) e altro ancora. In economia, l’Europa ha sete di energia, la Russia di capitali, macchinari e beni finiti di qualità. In un ipotetico raccordo euro-russo, gli Usa si troverebbero emarginati al di là dell’Atlantico, lontani dall’heartland, quel cuore della terra irrinunciabile per chiunque intenda dominare il mondo.

L’incubo di una saldatura dell’Eurasia

A tale saldatura poi potrebbe unirsi la Cina, che con la Belt and Road Initiative mira ad accorciare le distanze tra Estremo Oriente ed Europa attraverso l’infrastrutturazione dei paesi intermedi. Il potere del mondo passerebbe così dalla talassocrazia anglofona (Regno Unito, Canada, Australia, Nuova Zelanda) alla tellurocrazia multipolare (Europa, Russia, Asia Centrale, Cina e col tempo India e Sud Est asiatico), spostando verso Est il centro economico e demografico del pianeta, creando un diverso ordine mondiale.

Pechino non intende sostituirsi agli Usa quale dominus unipolare, non ne ha la forza, la tradizione bellicosa e l’interesse, mirando piuttosto a un multipolarismo anti-egemonico centrato su pace, equilibrio e inclusione, un orizzonte foriero di angoscia per le oligarchie imperiali Usa, a loro volta alle prese con perdita di credibilità morale (guerre[ix], colpi di stato, sostegno allo stato terrorista di Israele) e persino obsolescenza del potere militare. Le oltre 800[x] basi militari in 80 paesi (oltre alle 145 basi in 42 paesi[xi] del vassallo britannico) non incutono più la paura di un tempo.

Nuovi rapporti di forza anche militari …

La Cina ha una sola base, a Gibuti (dove ce l’ha persino l’Italia) contro i pirati somali, ma possiede forza militare sufficiente a difendersi, compresi missili ipersonici non intercettabili, come Iran, Houti yemeniti, russi e forse altri. Secondo qualificati analisti (tra i tanti, gli americani S. Ritter, D. Macgregor, R. McGovern, L. Wilkenson, J. Sachs e L. Johnson altri) un ipotetico conflitto Usa-Cina (o Usa-Russia, come in parte già avviene in Ucraina) combattuto con armi convenzionali, vedrebbe gli Stati Uniti subire una cocente sconfitta, che includerebbe la pressoché immediata distruzione delle sue flotte, a meno che non ricorrano all’arma nucleare, esiziale per tutti.

… e vecchie tattiche

In Estremo Oriente un ipotetico conflitto Cina-Stati Uniti potrebbe accendersi nel Mar Cinese Meridionale e Orientale o su Taiwan. Le basi militari Usa in Giappone (55.000 soldati) e in Corea del Sud (24.000) più che alla Corea del Nord, di cui a Washington importa poco, guardano a Cina e Russia-Siberia. Nelle parole di Paul Keating, ex Primo Ministro australiano, la Cina è una minaccia non per quello che fa, ma per quello che è[xii]. Troppo grande, popolosa, con un’economia cresciuta senza il permesso dei padroni del mondo, impermeabile al neocolonialismo imperiale. E dunque deve essere contenuta in ogni modo, minacce, sanzioni, l’Aukus[xiii], il Quad[xiv], accordi bilaterali estorti col ricatto (Le Filippine!) e persino con la Nato, che estende ora un’informale competenza dall’Atlantico al Pacifico (vertici di Vilnius, Madrid, Bruxelles e Washington[xv]), violando spirito e lettera dell’Alleanza, nel silenzio succube e umiliante dei vassalli europei.

Attraverso Taiwan, in particolare, gli Stati Uniti lavorano da anni a uno scenario simile a quello ucraino. Con la favola infantile di difendere la libertà (quale, dove, come?) l’impero unipolare cerca di spingere la Cina a usare la forza contro l’isola ribelle. In un ipotetico conflitto per interposta nazione – fino all’ultimo taiwanese! – gli Usa reputano così di poter dissanguare la Cina, interrompendone l’ascesa economica e quindi politica/militare. Ma gli abitanti delle due sponde non sono sprovveduti. Pechino non supera la linea d’ombra, mentre Taiwan non intende cadere nella trappola dei venditori di guerre senza fine. Rebus sic stantibus, la sola evenienza che potrebbe indurre Pechino a considerare un ipotetico ricorso alla forza è costituita da una dichiarazione d’indipendenza da parte di Taipei e non si vede la ragione che potrebbe indurre la dirigenza dell’isola a incamminarsi su questa strada (foriera di blocchi navali, bombardamenti, devastazioni, vittime civili e militari e via dicendo) quando di fatto – ciò che conta davvero – Taiwan indipendente lo è già. Un conflitto sugli Stretti sarebbe ipotizzabile solo se la dirigenza di Taipei si piegasse alla corruzione o alle lusinghe del bellicismo statunitense. A Taiwan e in Cina Popolare, tuttavia, i dirigenti hanno la testa sulle spalle. A loro avviso, sarà la storia a indicare il corso degli eventi, e un giorno, vicino o lontano, si giungerà a un compromesso per entrambi accettabile. In ogni caso, Taiwan è terra cinese.

 Epilogo

 La propaganda americana dipinge la Repubblica Popolare come una minaccia alla sicurezza dell’Occidente. Una menzogna grande come una montagna, essendo gli Usa la nazione più armata della storia, protetta da due oceani e a distanza siderale dalla Cina, la quale non dispone certo di flotte minacciose che incrociano nel golfo del Messico o davanti alla California.

È esistito un tempo in cui il riverbero degli Stati Uniti, nel bene e nel male, si stendeva sul mondo intero. Oggi la scena è mutata, la super-potenza non riesce a contenere il risveglio dei nuovi protagonisti. Il baricentro del pianeta si sposta ad Oriente. L’élite atlantica, con le propaggini europee e asiatiche, non riesce a garantire nemmeno ai paesi amici il benessere di un tempo: le classi medie scompaiono, si diffondono povertà e disoccupazione, denaro e potere sono quel che resta dell’etica sociale.

Nello sconforto dei tempi, le ansie superano le aspettative. Solo la storia dirà. Un sano realismo suggerisce tuttavia un’attesa operosa, lavorando al risveglio della ragione e dell’indignazione, ciascuno come può, provando a smentire un pensatore del secolo scorso che affermava: chi dice la menzogna bene (e ad alta voce) prevale su chi dice la verità male (e sottovoce).

[i] Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite

[ii] https://fortune.com/2022/02/25/ukraine-invasion-china-xi-jinping-russia-vladimir-putin-relationship-foreign-policy/

[iii]Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa, Egitto, Iran, Etiopia, Emirati Arabi Uniti, Indonesia

[iv] Shanghai Organization Cooperation

[v] Regional Comprehensive economic partnership

[vi] https://en.wikipedia.org/wiki/List_of_countries_by_GDP_(nominal)

[vii] Tailandia, Bielorussia, Bolivia, , Cuba, Kazakistan, Malesia, Uganda, Uzbekistan

[viii]Purchasing Power Parity

[ix] Daniele Ganser, Le guerre illegali della Nato, Ed. Fazi, 2022

[x] https://www.albor-notizie.it/2019/11/16/800-basi-militari-usa-per-il-controllo-del-pianeta/

[xi] https://www.jonathan-cook.net/blog/2020-11-27/us-war-machine/

[xii] https://todayspaper.theaustralian.com.au/infinity/article_popover_share.aspx?guid=eb20aa9b-6849-49dd-8db2-0efc77f5027d

[xiii] Australia, Regno Unito e Usa

[xiv] Usa, Australia, Giappone e India

[xv] https://www.nato.int/cps/en/natohq/official_texts_227678.htm

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