IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

L’analisi. Il 25 settembre della sinistra, una disfatta autoinflitta

La destra ha vinto ma non ha sfondato. Il dato elettorale e la ridottissima rappresentanza parlamentare sono il prodotto della secessione della sinistra dai ceti popolari e dei ceti popolari dalla politica, il cui risultato più visibile è l’astensionismo di massa.

Il voto dice molte cose, che vanno meditate: la destra ha vinto ma non ha sfondato; il suo successo è il risultato dell’astensione. In termini assoluti la destra guadagna 100 mila voti sul 2018 e il centrosinistra ne perde 200 mila. Un’inezia. Non va però sottovalutata la vittoria di FdI. Alcuni commentatori tendono a vedervi il semplice avvicendamento di leadership (da Berlusconi a Salvini, a Meloni). Questa considerazione coglie un punto e ha certamente dalla sua la volatilità dell’elettorato italiano, che negli ultimi anni ha “bruciato” velocemente varie opzioni (Renzi, M5S, Salvini). Non è detto che lo stesso debba accadere anche per la Meloni. E comunque c’è un dato che non deve essere mai dimenticato: il centrodestra ha mutato i suoi equilibri interni e cambiato tre leadership, ma non ha dilapidato il suo patrimonio elettorale complessivo. A dimostrazione del fatto che il consenso alle forze che lo compongono ha una base valoriale e programmatica comune solida, che rende possibile travasi non traumatici tra forze che possono apparire reciprocamente fungibili agli occhi di una parte del loro elettorato. La negazione dell’antifascismo come fondamento morale del progetto di democrazia e di società contenuto nella Carta costituzionale è uno dei tratti identitari comuni. L’altro elemento che accomuna e rende osmotica la coalizione è il suo radicamento in quella parte della borghesia imprenditoriale italiana antistatalista e liberista nei proclami, ma nei fatti sempre bisognosa di assistenza economica e politica per reggere sul mercato e affrontare il conflitto sociale. Uno strato sociale che per competere tende a privilegiare il taglio dei costi (in primis quelli dei salari), l’evasione e l’elusione fiscale (sempre accompagnata dalla domanda di nuovi e più radicali tagli alle tasse), la svalutazione monetaria come strumento principe per la riconquista di margini di concorrenzialità. Per questo settore della società, quindi il liberismo berlusconiano prima, il federalismo antistatale e antifiscale della Lega poi e infine il nazionalismo dei Fratelli d’Italia appaiono come soluzioni in fondo equipollenti per fronteggiare il medesimo problema.

Le radici dell’astensionismo di massa

Ciò che ha fatto la differenza, determinando la vittoria della destra in questa tornata elettorale è dunque la crescita dell’astensionismo che ha penalizzato soprattutto le forze politiche che avrebbero dovuto far parte del “campo largo”, e che invece si sono presentate divise e contrapposte. A quali gruppi sociali appartengono gli astenuti? Ovviamente a tutti, ma in particolare a quelli più diseredati. Il crollo della partecipazione concentra in sé la prolungata secessione della sinistra dai ceti popolari e dei ceti popolari dalla politica, la crescente passivizzazione delle masse popolari che dura ormai dalla crisi della Repubblica dei partiti. Alcuni sostengono che ciò non sia altro che il risultato dei cambiamenti sociali e culturali prodotti dalla fine del fordismo e dalla formazione della società liquida, che avrebbero disgregato le basi sociali dei partiti di massa novecenteschi. Non si può però trascurare il modo in cui i gruppi dirigenti delle principali formazioni politiche hanno affrontato questi processi sul piano teorico e pratico. Incominciando dall’adozione delle ricette della “sinistra” anglosassone e non solo (Blair, Clinton Schroeder), sostanzialmente centrate sulla presunta capacità della globalizzazione capitalistica, purché opportunamente favorita dalla deregolazione, di risolvere automaticamente i problemi di equità sociale ed emancipazione. Facendo questa scelta si è finito per ridurre la politica a gestione amministrativa da parte di élite di “competenti”. Il popolo, schumpeterianamente, è stato emarginato; al più è chiamato a esprimere una preferenza tra le élite in competizione. Conseguenze necessarie di questa impostazione sono il partito leggero, la priorità data alla governabilità e alle compatibilità. Fino al prevalere del governo tecnocratico. Quando ciò accade la democrazia smette di essere progressiva, perché non vive nelle lotte con cui i ceti popolari conquistano coscienza di sé, dignità, benessere, in una parola: libertà. La debilitazione della partecipazione politica colpisce inevitabilmente le forze che dovrebbero rappresentare le aspirazioni delle classi lavoratrici, accentuandone i tratti oligarchici e il moderatismo, isolandole dal popolo. Spezzato il rapporto organico tra la democrazia e la sua pratica, tra l’agire politico collettivo e la conquista di dignità e benessere, la Costituzione stessa rischia di apparire un testo retorico. Nel secondo dopoguerra la sinistra italiana si è assunta il compito di colmare lo iato tra ‘buoni sentimenti’ e una realtà concreta fatta di diseguaglianze ed esclusioni di fatto. Quella narrazione e pratica della Carta repubblicana non hanno retto all’impatto di una seducente modernizzazione neocapitalista che ha declinato in forme del tutto originali e inedite, a suo modo rivoluzionarie, le grandi domande di liberazione e di giustizia. Tuttavia oggi, anche il fascino della costituzione neocapitalista si sta progressivamente esaurendo. Troppo forte è diventato lo scarto tra le promesse del globalismo individualista e la crescente povertà materiale e sociale di larga parte della popolazione. Questo non restituisce naturalmente e meccanicamente attualità etico-politica al programma fondamentale contenuto nella Carta del 48, ma ne riabilita un profilo decisivo, quello capace di incarnare l’aspirazione all’autonomia e alla dignità che sono alla base sia delle rivendicazioni sul piano delle libertà civili, sia di quelle socio-economiche, purché si sappia ricostruire, in forme adeguate al nuovo contesto storico, quella prassi democratica e inclusiva. Compito non facile, certo. Però – e la disastrosa sconfitta del 25 settembre lo sta dimostrando – la strada scelta finora dalla sinistra riformista è senza sbocco. Il crescente disagio sociale ed esistenziale che serpeggia nel corpo sociale dei paesi occidentali chiede di essere interpretato e rappresentato. Le risposte che la destra dà a questa nuova situazione sono pericolose e regressive. Da qui l’esigenza di riprendere il cammino dalla Costituzione, da difendere, certamente, ma più ancora da attuare nella sua ispirazione di fondo. Non in nome della triade Dio, patria e famiglia, ma in nome di fondamentali principi di emancipazione e civilizzazione scritti a chiare lettere nel suo breve ed essenziale testo.

La responsabilità del PD

Questo compito non può essere assolto se non si affrontano alcuni nodi politici. Il primo di questi riguarda la maggiore forza della sinistra, quella che ha oggettivamente il peso e la responsabilità maggiore nel determinare l’attuale stato delle cose. Dal destino del PD dipende anche quello della sinistra italiana e, in ultima istanza, la qualità della democrazia nel nostro paese. L’identità e l’azione del maggiore partito della sinistra finiscono per riverberarsi in modo positivo o negativo sulle altre forze che si collocavano nella sua stessa area, condizionandone le prospettive. Quale bilancio possiamo trarre della sua presenza sulla scena politica a quasi 15 anni dalla sua nascita? Se da una parte le politiche riformistiche che ha proposto hanno attirato la maggior parte del voto progressista e di sinistra, dall’altra esse sono state rigettate dall’elettorato come proposte di governo: in nessuna delle quattro consultazioni svoltesi in questo quindicennio, il PD e le forze a esso coalizzate hanno ottenuto una maggioranza politica e parlamentare. Un calo di consensi per il PD che nell’ultima occasione ha raggiunto livelli drammatici. Un problema che non si potrà risolvere con l’ennesimo cambio di leader, qualche ritocco nella comunicazione e un aggiornamento delle alleanze. C’è bisogno di una nuova analisi delle dinamiche interne e internazionali, una visione della società e del modello di sviluppo da realizzare, un nuovo lessico.

Cosa c’è oltre il PD?

Al tempo stesso è ormai chiaro che la riconquista di consensi, specie quelli dei ceti popolari, non passa dalla pura e semplice radicalizzazione delle posizioni politiche. I ripetuti insuccessi delle formazioni e delle alleanze elettorali alla sinistra del PD dimostrano che c’è un problema più complesso che non si risolve con l’accentuazione della radicalità programmatica e della coerenza e limpidezza delle posizioni. È evidente quindi che è necessaria una profonda riflessione sui limiti intrinseci a ciascuna di queste impostazioni. Forse allora necessita un nuovo programma fondamentale nel quale poter federare forze diverse. Di ciò ha bisogno la democrazia italiana e non solo la sinistra. È possibile risolvere questa equazione prescindendo dal Movimento 5 stelle, che ha mutato in parte, e forse non ancora convintamente la sua collocazione politica, ma si è presentato agli elettori come una forza progressista? Non sarebbe suicida non agevolarne e sollecitarne la compiuta collocazione in questo campo?

Lì dove cresce il pericolo cresce anche ciò che salva

Le cause della vittoria della destra sono prevalentemente da ricondurre al fatto che la sinistra è apparsa, sempre di più, come la principale garante dello status quo, dei meccanismi sociali ed economici e dei loro esiti. Gli studi comparatistici di cui disponiamo dimostrano che il caso italiano è più grave di altri, sia per le dimensioni del divorzio tra le classi lavoratrici e la sinistra, sia per gli effetti in termini di aumento delle disuguaglianze e quindi di risentimento sociale prodotti dalla corsa ad accaparrarsi il voto centrista dei ceti medi favorita dal sistema maggioritario. Il “melonismo” si è inserito in questo varco e può vantare delle chance di successo nella gestione del potere governativo proprio in virtù delle sue caratteristiche genetiche, che affondano le loro radici nella storia, contraddittoria ma non discontinua, della destra post-missina. Il proposito del leader di FdI è, non casualmente, quello di conciliare, coniugandoli, neoliberalismo economico (e fondamentalismo atlantista) con l’interesse nazionale declinato in senso identitario e tradizionalista. È “finita la pacchia” è la messa in forma di un sentimento che spiega, assai più della generica volontà di cambiamento, il risultato elettorale. Siamo di fronte ad un progetto politico-costituzionale che va preso sul serio, molto sul serio Intanto è prevedibile che gli scarsi margini di manovra in campo economico e sociale verranno compensati da un’offensiva contro i diritti civili, contro l’autodeterminazione delle donne, contro gli immigrati, contro le forme di autonomia culturale e di antagonismo sociale. La “responsabilità, tanto richiamata dovrà giocoforza essere esercitata in campo economico-finanziario, dove sono più stringenti i vincoli esterni (salvo assumere qualche posa gladiatoria a favore di pubblico), mentre il riconquistato primato della politica e della sovranità verrà esercitato nel tentativo di imporre il ritorno ad un certo modello di ordine morale e all’irrigidimento della disciplina del lavoro obbligato imposto ai più poveri. Un disegno pericoloso, ma anche un terreno d’impegno che può consentire di ricomporre nella pratica politica l’unità costituzionale della dignità della persona, nelle sue molteplici e interconnesse dimensioni (di genere, di classe, di etnia, di orientamento sessuale). Per farlo serve federare i progressisti attorno ad un progetto di opposizione e forse più ancora di rifondazione in nome di una rinnovata lettura del Programma Fondamentale della nazione, la Costituzione Repubblicana. Non un fortino consolatorio e nostalgico, la difesa formalistica del testo, ma una vitale postazione d’attacco che ha i suoi obiettivi di medio e lungo periodo: attuazione e sviluppo dei principi della Carta del ’48.

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