IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Le conseguenze economiche della guerra

Si parla molto in queste settimane delle conseguenze economiche della guerra. Qui ci si soffermerà in particolare sul ruolo della Cina nella crisi e, in misura relativamente minore, sulle possibili conseguenze per l’Europa.

Un difficile equilibrio. La Cina è il primo paese importatore ed esportatore dell’Ucraina che ha, a suo tempo, aderito anche al progetto di nuova via della seta, manifestando grande sangue freddo, proprio alla vigilia dell’invasione. Alcune società cinesi hanno acquisito il controllo della Borsa di Kiev e sullo sfondo c’è il rapporto con gli Stati Uniti che minacciano ogni giorno sanzioni se la Cina aiuterà la Russia.

Il Governo cinese ha dichiarato a più riprese di essere favorevole ad un meccanismo di sicurezza europeo “equilibrato”, sottolineando come appaia necessario rispettare le legittime preoccupazioni in materia di sicurezza di tutti i paesi (compresa, quindi, la Russia) ma, nello stesso tempo, che bisogna anche rispettare l’integrità territoriale di tutti i paesi (compresa, quindi, l’Ucraina). Per altro verso la Cina non desidera, di norma, intromettersi negli affari interni dei vari paesi, accusando invece di solito, e correttamente, i paesi occidentali di farlo continuamente.

Per questa ragione la Cina auspica una soluzione negoziale del conflitto e la stessa Ucraina le ha chiesto di provare ad aiutare il processo, mentre più di recente anche gli Stati Uniti, mentre minacciano sanzioni nel caso il paese asiatico aiutasse la Russia, sembra abbiano chiesto il suo intervento per aiutare il processo di pace e cercherà presumibilmente, anche se molto in sordina, di spingere i due contendenti a trovare un’intesa (non è comunque chiaro quale sia il suo reale potere negoziale). Bisogna considerare, tra l’altro, che la Russia perseguirà i suoi obiettivi in Ucraina quale che sia l’atteggiamento della Cina. In ogni caso quest’ultima si trova al centro della scena anche suo malgrado e lo sarà presumibilmente ancora di più in un prossimo futuro.

Una volta Madeleine Albright, Segretaria di Stato Usa tra il 1997 e il 2001, definì gli Stati Uniti come la nazione “indispensabile”; oggi lo si può dire altrettanto per il paese asiatico, anche se sul piano economico la Cina può, indubbiamente, essere molto danneggiata dalla guerra. Nel 2021 il paese ha importato gas e petrolio per 316 miliardi di dollari e per quasi 200 miliardi di minerale di ferro. V’è inoltre da tener conto del potenziale impatto inflazionistico a valle dei prezzi più elevati delle materie prime e delle perturbazioni nelle catene di fornitura globali.

Lo stato dei rapporti Russia Cina e le analogie con il caso iraniano. Le sanzioni spingono necessariamente la Russia nelle braccia della Cina, anche se non è chiaro dove tale alleanza potrà arrivare operativamente e quanto la Cina vorrà e potrà fare. Intanto le sanzioni incideranno certamente sul livello del pil del paese. L’Iran, sottoposto alle sanzioni di Trump, ha visto nel 2018 e 2019 scendere suo pil pro-capite del 15%, mentre l’inflazione è andata alle stelle. Poi, tuttavia, l’economia non è collassata e si è stabilizzata ad un nuovo livello grazie anche alle vendite di contrabbando, mascherando l’origine dei prodotti, tramite una politica di import substitution e di diversificazione dei suoi sbocchi commerciali. Il paese ha continuato, tra l’altro, a esportare ogni giorno 1 milione di barili di petrolio grazie alla Cina e ad altri paesi. Un destino per qualche aspetto simile si potrebbe configurare per il caso russo. Qualcuno prevede per quest’anno per la Russia una caduta del pil che si dovrebbe aggirare intorno al 7-9%, mentre il livello di inflazione potrebbe raggiungere il 17%.

Non è detto, insomma, che l’economia del paese collasserà, come sembrano peraltro indicare le prime notizie del dopo-sanzioni, mentre è più facile che ciò avvenga per quella ucraina. Quello tra la Russia e la Cina appare un matrimonio di convenienza (i due paesi non si amavano tradizionalmente troppo), in cui comunque i rapporti di forza sono tutti a favore del secondo attore citato. Per altro verso si tratta di due economie complementari.

Il quadro della situazione nei vari comparti. Sul piano finanziario l’esclusione solo parziale dalla rete swift – non sono comprese nel blocco le transazioni in petrolio e gas – non appare più, almeno per il momento, l’”arma nucleare” di cui si parlava. E, tuttavia, non può che portare la Russia a inserirsi nella rete autonoma cinese, la Cips, che stentava a decollare e che potrebbe ora trovare nuova linfa. La crisi potrebbe anche contribuire ad aumentare gli sforzi cinesi di rendersi sempre più autonomi dal dollaro, attivando tra l’altro ancora più velocemente il renmimbi virtuale. Ma si tratta di uno sforzo di lunga lena e i cinesi procedono cautamente.

Il 26 febbraio del 2022 le potenze occidentali hanno congelato le riserve della banca centrale russa detenute presso le loro istituzioni monetarie. Questa misura appare senza precedenti e rappresenta, come sottolinea un articolo di Le Monde dell’11 marzo, un colpo di tuono nel pianeta monetario. Essa lascerà forti tracce perché significa che la sicurezza delle riserve di un paese detenute all’estero non è più garantita per nessuno. Questo spingerà molti paesi a diversificarsi almeno in parte dal dollaro e ad impiegare una fetta delle loro riserve anche in Cina, spingendo anche da questo lato ad una crescita della moneta del paese, anche se il cammino per un suo ruolo di primo livello appare ancora lungo.

Su di un altro piano va ricordato che l’UE è il principale partner commerciale della Russia. Con quest’ultima che esporta quasi tre volte tanto verso la UE rispetto alla Cina, anche se gli accordi tra i due paesi contigui mirano a portare presto l’interscambio a 250 miliardi di dollari all’anno contro i 147 del 2021. L’Ue è oggi, comunque, il principale acquirente del gas russo, anche se proprio in queste settimane Cina e Russia si sono messe d’accordo per la costruzione di un nuovo gasdotto che porterà il gas in Cina dagli stessi giacimenti da cui esso parte oggi per l’Europa, rendendo in 2-3 anni la Russia meno dipendente dalle vendite in Europa.

Sul piano strettamente economico, non vi è dubbio che gli interessi della Cina verso il mondo occidentale sono molto maggiori che verso la Russia; La Cina dirige più di un terzo delle esportazioni verso i paesi occidentali, contro una percentuale minima (tra l’1 e il 2%) verso la Russia. Ma qui non si tratta, ovviamente, di una questione soltanto economica.

Come la Russia se la potrebbe in parte cavare. Potrebbe riuscire a stare in piedi per molte vie. Intanto, ci sono le entrate derivanti dalla vendita del gas in Occidente (non trascurabili). La Russia sta, inoltre, cercando (apparentemente con successo) di stringere più forti accordi con l’India, terzo più grande paese importatore di energia al mondo (che si trova di fronte alla collera della popolazione per il forte aumento del prezzo dei carburanti), offrendo prezzi scontati e l’utilizzo negli scambi delle rispettive valute nazionali (come punto di riferimento eventuale lo yuan cinese, per il petrolio come per i fertilizzanti, mentre proseguono gli accordi della Cina con l’Arabia Saudita per il pagamento degli acquisti di petrolio sempre in yuan). Mentre nel frattempo, nonostante diverse dichiarazioni contrarie, l’UE non può fare a meno del gas russo, se non in un’ottica di medio termine (intorno ai 5 anni).

L’Occidente non è il mondo. Molti Stati in Asia, Africa, America Latina non hanno condannato l’invasione dell’Ucraina. O lo hanno fatto in modo blando. Per quanto riguarda la Cina, intanto essa può assorbire, volendo e potendo, grandi quantità di prodotti energetici. La Russia possiede poi, tramite la sua banca centrale e una banca di sviluppo, circa 140 miliardi di dollari in obbligazioni del paese asiatico, circa un quarto delle sue riserve valutarie, ovviamente denominate in yuan, denaro che può utilizzare in alcuni casi per far fronte alle sue necessità. I giornali intanto, quasi subito dopo l’annuncio delle prime sanzioni, hanno cominciato a raccontare che presso le filiali moscovite delle banche cinesi già centinaia di imprese russe erano arrivate chiedendo di aprire dei conti in yuan, mentre diverse imprese dello stesso paese accettano da allora pagamenti nella stessa valuta. Si racconta poi di una fabbrica di cioccolato russa che ha esaurito in pochissimi giorni le sue scorte di alcuni prodotti grazie all’acquisto on-line da parte di molti cinesi che simpatizzano per la causa del paese amico. Anche un’impresa ucraina di cioccolato ha cercato di fare lo stesso tipo di operazione, ma i giornali non dicono se e con quale successo.

Gli scambi commerciali sembrano procedere, tra alti e bassi, abbastanza regolarmente nei due sensi. Con qualche eccezione: alcune imprese cinesi che hanno incorporati nei loro prodotti dei componenti statunitensi, si stanno ritirando dalla Russia (vedi il caso Lenovo). In ogni caso, molti investitori cinesi, dopo l’annuncio delle sanzioni, si sono precipitati ad acquistare titoli azionari di una decina di imprese del loro paese che hanno rapporti d’affari rilevanti con la Russia, nell’aspettativa di un aumento delle attività tra Mosca e Pechino. Una scelta azzardata? Intanto, comunque, il valore di tali titoli è salito fortemente.

Va, d’altro canto, registrato che la grande banca AIIB – formata a suo tempo su iniziativa di Pechino per fornire finanziamenti a progetti dei paesi emergenti e della quale i tre principali azionisti sono Cina, India e Russia – ha sospeso le operazioni per quanto riguarda i finanziamenti a Russia e Bielorussia, ma non all’Ucraina. La mossa, giustificata ufficialmente con l’aumento del rischio di credito, non ha alcun effetto pratico, perché in questo momento non c’è nella sostanza in ballo nessun progetto importante, ma segnala una certa attenzione e un certo messaggio del paese del dragone. La notizia potrebbe servire alla Cina anche per rimarcare come ci sia un’autonomia della banca rispetto al paese asiatico e sempre della Cina rispetto alla Russia.

Si segnala anche che tra il 10 e il 14 marzo la Cina ha inviato due convogli con aiuti umanitari alla società della croce rossa ucraina. Curiosamente entrambi i belligeranti stanno usando nelle battaglie droni cinesi DJI, il più grande produttore al mondo di tali congegni, anche se essi originariamente erano stati concepiti per usi civili.

Alcuni aspetti della situazione economica dell’Europa dopo lo scoppio della guerra. Mentre con l’invasione dell’Ucraina l’UE ha mancato l’ennesima occasione per mostrare una sua voce autonoma rispetto a quella degli Stati Uniti, anzi indicando a tratti un volto persino più oltranzista, a Bruxelles c’è un clima di grande preoccupazione per le forniture di gas e di petrolio. Le stesse centrali a carbone europee hanno un ruolo chiave ancora oggi per assicurare gli approvvigionamenti del continente e non si saprebbe, almeno nel breve termine, come sostituire il carbone russo con quello proveniente da altre fonti. Lo stesso problema, in forma ancora più grave, avrebbero gli stessi cinesi. Intanto le fabbriche delle auto europee, soprattutto quelle tedesche, si devono fermare perché mancano ormai i cavi elettrici, prodotti in Ucraina da importanti imprese, mentre tale difficoltà si aggiunge alla chiusura delle fabbriche delle auto europee in Russia (continua anche la carenza di semiconduttori).

Per quanto riguarda i minerali, va segnalato il caso del palladio, di cui la Russia produce il 40% del totale mondiale e i cui prezzi sono aumentati di quasi il 50% da gennaio ai primi giorni di marzo (il metallo è utilizzato anche in Europa nella produzione dei catalizzatori delle marmitte nelle auto a benzina, nonché in quella dei semiconduttori). Ma i due paesi sono produttori importanti anche di altri minerali e gas importanti, utilizzati nella produzione di chip, smartphone e veicoli elettrici. L’Ucraina vende circa il 90% del gas neon usato in particolare nella produzione di semiconduttori. Sempre l’Ucraina vende il 40% del kripton, altro gas raro. Anche i prezzi di alluminio e nickel, di cui la Russia è un importante produttore, appaiono sotto tensione. Comunque, il paese ha bloccato la loro esportazione.

La Russia e l’Ucraina sono poi dei grandi produttori ed esportatori di cereali. Con i processi di riscaldamento climatico, la Russia in un paio d’anni ha sviluppato prodigiosamente i suoi raccolti ed oggi è il primo esportatore mondiale di grano, mentre l’Ucraina è poco da meno (il primo paese è anche il primo esportatore di fertilizzanti). I due paesi rappresentano oggi un terzo degli scambi mondiali nel settore e da quando è scoppiata la guerra i prezzi, che erano già prima in rilevante salita, sono aumentati ancora intorno al 40%. L’ultimo raccolto cinese e quello canadese sono andati abbastanza male, mentre gli alti prezzi del carburante e dei fertilizzanti stanno facendo sì che gli agricoltori americani, pur in presenza di rilevanti aumenti nei prezzi del grano, si interroghino perplessi su quanto seminare la prossima volta. Nel frattempo la Fao stima che sino al 30% delle aree coltivate a grano e a semi di girasole in Ucraina o non saranno seminate o non saranno poi raccoglibili (mentre anche un importante paese agricolo come l’Argentina blocca le esportazioni di diversi prodotti agricoli) L’eventuale passaggio da parte dei paesi europei all’acquisto di cereali dal Canada e dagli Usa, altri grandi produttori, presenta a sua volta dei rischi per la sicurezza alimentare. Il grano canadese è trattato con glifosato, erbicida potenzialmente cancerogeno, mentre il mais statunitense utilizzato per i mangimi animali utilizza sostanze ogm.

Russia ed Ucraina rappresentano anche un quinto del commercio mondiale di mais e circa l’80% della produzione di olio dai semi di girasole. I francesi si preoccupano intanto per la sacra baguette, mentre si scopre che l’Italia importa ogni anno il 50% del suo consumo di grano tenero e il 40% di quello duro (una volta almeno, la pasta si faceva nel nostro paese con il grano dell’est). Ma soffriranno molto di più paesi come il Libano (dai primi di marzo la farina è scomparsa dai negozi e il prezzo del pane è aumentato del 70%), la Libia, lo Yemen, il Bangladesh, l’Egitto (già il più grande esportatore di grano nell’impero romano ed oggi il più grande importatore del mondo), in generale il Nord Africa e i paesi del Medio Oriente, la Turchia ed altri ancora che basano una parte significativa del loro consumo sull’Ucraina e sulla Russia. Per alcuni di questi paesi si profila un’escalation di fame e povertà, con rilevanti minacce alla stabilità politica. Del resto, l’Africa Orientale era già prima minacciata dalla fame a causa della persistente siccità della regione.

Se si considera anche il fatto che, secondo i dati della Fao, nel 2021 i prezzi dei prodotti alimentari sono aumentati in media del 28% e che l’effetto degli aumenti dei prezzi degli input per la produzione agricola non si è ancora nella sostanza sentito (si tratta dunque di una bomba a scoppio ritardato), sembra ci siano proprio le condizioni per una crisi alimentare globale. Incidentalmente, va segnalato che l’Ucraina rappresenta anche il più grande mercato nero di armi in Europa.

Inflazione e recessione. I primi mesi del 2022 registrano una crescita ulteriore del tasso di inflazione in Occidente, anche se va comunque sottolineato che le ragioni dell’aumento dei prezzi sono in parte diverse per Stati Uniti e per UE. In febbraio nella Ue ha raggiunto il 5,8% e si pensa che potrebbe superare il 7% da qui alla fine dell’anno se il conflitto dovesse durare, mentre sempre in febbraio negli Stati Uniti si registra un +7,9%, cifra che rappresenta quasi un record. Ad essere interessati dall’onda inflazionistica sono soprattutto i prodotti energetici, le altre materie prime e i cereali, a cui si aggiungono il panico e la speculazione, oltre all’ulteriore aggravamento delle condizioni logistiche.

Intorno al 10 marzo il prezzo del gas ha raggiunto i 200 dollari per megavattora, mentre quello del petrolio brent era l’11 marzo a 112 dollari al barile. Anche i prezzi del carbone sono aumentati moltissimo. Tra l’altro si vanno fermando in Europa fonderie, acciaierie ed altre imprese in settori energivori. Ricordiamo poi, come aggravante, che l’euro si va indebolendo contro il dollaro e che quindi i prezzi, che sono normalmente espressi in dollari, risulteranno alla fine nei paesi dell’euro ulteriormente in salita. Più in generale, l’euro dovrebbe uscire indebolito dalla crisi, mentre si rinforzerà il dollaro, come sempre quando si manifesta qualche sciagura.

Gli aumenti progressivi, già iniziati, dei tassi di interesse negli Stati Uniti dovrebbero avere presumibilmente l’effetto di portare ad un calo nelle quotazioni delle Borse, alimentate a lungo dal denaro facile. Ma si teme, e a ragione, soprattutto per quelle europee. Quanto potrà resistere la BCE nel tenere i tassi di interesse fermi? Ad un certo punto le banche centrali, potrebbero preferire una recessione piuttosto che perdere la battaglia contro l’inflazione. Molto dipenderà dalla durata della guerra e dai risvolti economici e politici della stessa. In ogni caso nel 2022 vi sarà assai probabilmente in Occidente, in particolare in Europa, una forte riduzione dei tassi di crescita. Gli Stati Uniti sembrano più protetti con il loro isolamento geografico, l’abbondanza delle risorse energetiche, il relativamente basso livello di scambi commerciali con il resto del mondo.

Si levano così delle voci pessimistiche. Il capo della Volkswagen, Herbert Diess, il 9 marzo, in una sua dichiarazione, ha avvisato che una guerra prolungata in Ucraina avrebbe conseguenze molto peggiori sull’economia europea rispetto a quelle portate dal coronavirus. L’interruzione nelle catene di fornitura globali potrebbe avere come conseguenza forti incrementi di prezzi, scarsità di energia e inflazione elevata. Ancora più pessimista Martin Wolf del Financial Times che scrive che la combinazione del conflitto, degli shock nelle catene di fornitura e degli alti livelli di inflazione appare inevitabilmente destabilizzante e conduce presumibilmente ad una crisi economica.  Intanto a scorrere anche un solo numero de Il Sole 24 Ore, quello del 13 marzo, si possono leggere molti titoli allarmati: “Aziende senza materie prime”, “Allevamenti ko”, “Ghisa, poche alternative per uscire dallo stallo”, “Il distretto di Sassuolo senza argilla da piastrelle”, “Il record del grano gela le produzioni alimentari”, “Stangata sui costi di produzione, l’industria italiana va in panne.

Cosa succederà infine ai salari? Nel 2021 in tutti i paesi del G-7 essi sono rimasti, ed anche di molto, indietro rispetto all’inflazione, mentre molti “esperti” economici, a cominciare dal governatore della Banca d’Inghilterra, chiedono moderazione ai sindacati, ma non fanno lo stesso con le imprese.  Una situazione molto complicata e dagli esiti imprevedibili anche sul piano sociale.

Stampa o salva l’articolo in Pdf

Newsletter

Privacy *

Ultimi articoli pubblicati