Sono stanco nel senso che mi sento sfibrato, logorato dalle notizie, dalle immagini strazianti che ogni giorno, in ogni ora del giorno, ci vengono dai mezzi televisivi e, però, anche dai commenti che, anch’essi in ogni ora del giorno, su queste notizie e su queste immagini si imbastiscono. Da un lato, la pena, la sofferenza suscitate dalla morte e dalla distruzione che si sono impadronite dell’Ucraina e del suo popolo: una guerra “sacrilega” l’ha definita Papa Francesco, perché offende la sacralità dei corpi e delle vite e avvelena gli animi. Dall’altro, un profluvio di parole che giungono a sommergere la cruda eloquenza dei fatti. I vocabolari dei sinonimi impallidiscono rispetto alla competizione degli aggettivi con cui viene definito Putin: come se quel che avviene non bastasse a condannarlo. Le antitesi alle quali questa guerra viene riportata per mostrare che essa tocca anche noi si sprecano, tra democrazia e dittatura, tra diritti e violenza, tra ragione e sopraffazione, tra umanità e bestialità: come se la guerra non fosse sempre la stessa, come se tutte le guerre non fossero sempre tutte queste cose chiunque le abbia scatenate, come se i corpi e le vite non fossero sempre uguali a chiunque appartengano. Quasi a far capire che ci sono guerre “giuste”. Mentre la guerra è sempre “sacrilega”. Solo che per dire questo bisognerebbe averlo detto sempre e a gran voce, ovunque le guerre si svolgano e quale che sia la religione e il colore delle popolazioni che le subiscono: come da anni fa Papa Francesco ad ogni Angelus della domenica e in ogni occasione, ricordando le guerre dimenticate.
E insieme a questo sempre le stesse questioni: bisogna, o no, mandare le armi in Ucraina? cosa dobbiamo fare di più: aumentare le sanzioni per ridurre la Russia alla fame? istituire la no fly zone? inviare contingenti armati? Solleticando così le molte spinte, non solo ideali, ad espandere il conflitto di quanto è necessario a provocare la resa della Russia e la caduta violenta di Putin. Tutto questo appartiene alla logica dei mezzi di comunicazione che devono accendere conflitti e antagonismi per tenere legato il pubblico al video e incrementare la loro audience. Ma fa pensare che i mezzi mediatici con cui questa guerra si sta anche combattendo ricalchino lo stesso cliché, e che le parole, da pietre, sono ormai armi di questa guerra sempre più digitale. E fa pensare, in generale, che qualcosa di altro si possa muovere dietro un allineamento che non è insolito, ma non sembra sia stato mai così spinto e insistito dalla fine della seconda guerra mondiale. Tanto pesante da spingere a insolentire intellettuali del calibro di Luciano Canfora, Franco Cardini, Carlo Rovelli.