IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Le due Europe dei diritti dinanzi alla Russia di Putin

L’illusione di fare entrare nel mondo post-moderno dei diritti umani i cittadini dell’Europa orientale si è infranta contro la profondità della storia abilmente trasfigurata da Putin e superficialmente ignorata dalle élite europee occidentali, sulla scia di quelle statunitensi.

La politica estera dell’UE rispetto alla crisi russo-ucraina prima del conflitto
Nella conferenza stampa che ha fatto seguito alla Relazione sull’attività della Corte costituzionale nel 2021, il Presidente Giuliano Amato ha adombrato il tramonto della strategia dell’UE incentrata sul soft power, anziché sull’hard power: «in tempi di lupi, quanto è efficace esercitare il soft power

Il problema starebbe, dunque, nei mezzi: rischierebbero di divenire inadeguati quelli incentrati sul potere di persuasione, convinzione e cooptazione, contrapposto al potere militare ed economico.

Ma siamo sicuri che il problema sia solo quello della scelta dei mezzi (vedi: passare a una difesa comune europea) e che non si tratti anche di un problema di fini? Era davvero compatta l’UE e i suoi Stati membri nelle scelte di politica estera relative all’Ucraina?

L’incoerenza più vistosa e più nota è quella relativa alla politica energetica tedesca e all’accordo tra la Germania di Angela Merkel e la Russia di Putin sul gasdotto Nord Stream 2, progettato per tagliare fuori l’Ucraina dal transito del gas russo verso i Paesi dell’Europa occidentale, Germania in testa. Un gasdotto percepito fin dall’origine dall’Ucraina come una minaccia alla propria sicurezza, non solo economica (perdita di almeno 1, 2 miliardi di euro all’anno), ma anche esistenziale, posto che perpetuare la centralità strategica della rete energetica in Ucraina avrebbe dovuto tutelarla da attacchi militari russi a tali infrastrutture. Per cui, non pare arbitrario ritenere che la scelta tedesca di completare il Nord Stream 2 abbia indebolito la leva della Germania e dell’Europa sulla Russia.

Si tratta di una visione condivisa anche da alcuni Paesi orientali dell’UE, primo tra tutti la Polonia, ove il gasdotto è stato ribattezzato “gasdotto Ribbentrop-Molotov” e dove a usare parole dure contro la scelta tedesca non sono stati solo i vertici dell’attuale partito nazionalista polacco, bensì lo stesso ex Presidente del Consiglio UE Donald Tusk, di specchiata fede europeista.

Non solo. Ma tale visione critica è condivisa dalla stessa Commissione UE, la quale però ben poco ha potuto contro la decisione tedesca.

Tuttavia, se l’Ucraina si è sentita abbandonata dall’UE sulla politica energetica quale leva di negoziazione con la Russia, non così è stato per un’altra politica, che pure non passa sotto l’etichetta di “politica estera”. Si tratta dell’accordo di associazione siglato dall’UE con l’Ucraina nel 2017, contenente fra l’altro l’abolizione dell’obbligo del visto per i cittadini ucraini che intendano recarsi nell’UE per un periodo compreso entro i novanta giorni. Abolizione del visto che avrebbe fatto enfaticamente affermare all’allora Presidente ucraino Poroshenko che si trattava per l’Ucraina della «scissione dall’impero russo»!

Si badi, è stata proprio tale abolizione dei visti ad aver agevolato la fuga dai bombardamenti russi dei civili ucraini verso gli stati europei confinanti, oltre al diverso grado di xenofilia dimostrato da Polonia, Ungheria, ecc., verso questa categoria di rifugiati.

Dunque, se con la politica estera dell’UE tradizionalmente intesa non si è riusciti a perseguire obiettivi unitari, tesi in particolare a indurre la conclusione degli accordi sul Donbass e/o a perseguire una politica energetica coerente con l’obiettivo di ridurre la dipendenza europea dall’autocrazia di Putin, con la politica dei visti l’UE ha pur sempre compiuto una scelta geopolitica. Si tratta di un mezzo che privilegia le scelte individuali e private dei cittadini (in questo caso ucraini), lasciando magari ambiguamente intravedere nella concessione della libertà di circolazione lo spiraglio di una futura adesione dell’Ucraina all’UE.

Una strategia che rispecchia l’intima natura dell’UE.

La politica estera di un “non-Stato” come l’UE rispecchia la sua identità: non può fondarsi “in positivo” su potere militare, territorio, popolazione, risorse (tutte prerogative detenute, più o meno debolmente, dai suoi Stati membri), bensì “in negativo”, su apertura dei confini nazionali, libertà di circolazione degli individui, non discriminazione di questi ultimi, anche se privi di cittadinanza di uno Stato membro, ecc. La visione “micro” ha però offuscato quella “macro”, posto che la scelta di favorire la libera circolazione degli ucraini in occidente ha comportato il costo geopolitico di rafforzare la visione russa dell’ineluttabile deriva dell’Ucraina verso ovest assieme con l’ossessione della gestione della periferia dell’impero.

L’accordo sui visti per i cittadini ucraini del 2017 ha rappresentato un tassello della politica estera dell’UE in Europa, che è appunto quella dell’allargamento ad Est, nell’illusione che le condizionalità cui è subordinata l’adesione comportino la capacità di influire concretamente sugli altri ordinamenti nazionali e sulla loro “costituzione materiale”. Illusione che sembra ancora più azzardata rispetto alla malcerta cultura costituzionale dell’Ucraina.

L’esito è stato ambiguo: il travaso di valori sembra ora invertito, con alcuni Stati membri dell’ex blocco sovietico impegnati a contrastare i decadenti valori occidentali e i fondamenti costituzionali dell’UE (rifiuto del primato del diritto UE, in primis, ma anche dell’indipendenza della magistratura in Polonia, controllo dei media in Ungheria, ecc.).

Ora quell’inversione sembra profilarsi anche sul piano dell’identità della politica estera europea: non più soft power, bensì hard power; non più ricerca di una terza via, alternativa al confronto muscolare tra USA e Russia, bensì adesione alla visione statunitense, da tempo sposata da Polonia e Paesi baltici, di un contrasto iper-ideologizzato alle mire neo-imperiali della Russia.

Prima del cambio di paradigma sui mezzi (da soft ad hard), sarebbe dunque da indagare quali siano i fini della politica estera dell’UE e, soprattutto, se siano perseguibili da tutta l’Europa a 27.

La politica estera “giudiziaria” della CEDU nei confronti della Russia e l’intima contraddittorietà dei due pluralismi
L’Occidente dei diritti umani ha “regalato” ai cittadini russi (e a quelli degli Stati ex satelliti dell’Unione sovietica) lo straordinario dispositivo giudiziario della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Se la ratifica della CEDU rappresentava, per gli Stati candidati all’entrata nell’UE, una precondizione necessaria per acquistare l’agognato status di Stati membri, per la Russia e gli altri Stati dell’ex blocco sovietico l’obiettivo geopolitico appare più sottile, ammesso che quest’ultimo sia stato consapevolmente perseguito dagli Stati occidentali.

Va innanzitutto ricordato che la CEDU non è (e, soprattutto, non era) soltanto un meccanismo di tutela giurisdizionale dei diritti che gli individui possono attivare direttamente dinanzi alla Corte di Strasburgo. Esso contempla anche la possibilità di ricorsi interstatuali, in una logica di controllo reciproco dei governi, ispirato all’esigenza di reagire politicamente alle più macroscopiche violazioni sistemiche dei valori liberal-democratici iscritti nella Convenzione. Diversamente da quanto avvenuto nel passato rispetto al colpo di stato dei colonnelli in Grecia, o a quello dei militari in Turchia nel 1980, contro la Russia non si sono avute coalizioni di Stati dell’Europa occidentale in reazione alla guerra in Georgia o all’annessione della Crimea, salvo l’eccezione dell’Olanda coalizzatasi all’Ucraina nel presentare un ricorso nel 2014.

Il ruolo “geopolitico” della CEDU si è dipanato lungo binari diversi, per certi versi affini alla logica “individualistica” dell’UE.

Potremmo dire, con qualche semplificazione, che la politica giudiziaria perseguita dagli Stati europei occidentali attraverso la promozione della CEDU si sintetizza non tanto nel creare quell’“unione sempre più stretta tra gli Stati del Consiglio d’Europa”, che pure è proclamata nel Preambolo della CEDU, bensì nel conferire alla società civile russa (e alle altre società dell’Est Europa) gli strumenti giuridici per stabilizzare i regimi liberal-democratici affermatisi con la caduta del socialismo reale, così da reagire alla regressione verso l’autocrazia. All’assenza di un credibile progetto geopolitico di federare tutti gli Stati della “Grande Europa” (i 47 Stati che, prima dell’uscita della Russia, aderivano alla CEDU), fa da contraltare il differente progetto di stimolare negli individui una capacità di resistere, con lo scudo dei diritti giustiziabili dinanzi alla Corte di Strasburgo, alle pulsioni autoritarie del potere in carica.

La CEDU, tuttavia, non è più nelle mani di un sistema misto, in parte politico in parte giurisdizionale, con il Comitato dei ministri a fare da filtro (e da “guardiano”) alle decisioni della vecchia Commissione e della vecchia Corte. Con la riforma del 1994 (Protocollo XI, in vigore dal 1998), la CEDU è interamente giurisdizionalizzata. Nelle mani della nuova Corte, la Convenzione ha accentuato la sua natura di “living instrument”, con tendenze giurisprudenziali innovative (tese, in particolare, a cristallizzare quegli standard comuni emergenti dalla prassi internazionale e costituzionali della maggioranza degli Stati membri, a dispetto delle parche formulazioni testuali delle disposizioni della Convenzione).

Questa CEDU e, soprattutto, la giurisprudenza della “nuova” Corte, ha puntato a inoculare negli ordinamenti privi di solide basi democratico-liberali il virus benefico del pluralismo. Come emerge da una pluridecennale giurisprudenza di Strasburgo, il parametro che sintetizza tutti gli obblighi di garanzia dei diritti fondamentali iscritti nella CEDU è la “società democratica”, ossia quella società in cui è garantito, in primis, il pluralismo.

Ma il pluralismo iscritto nella Convenzione e tante volte celebrato nella giurisprudenza della Corte EDU si scontra frontalmente con l’ideologia sposata dal partito di Putin della “democrazia sovrana”, incentrata su una società organica, in cui i diritti individuali non precedono lo Stato ma sono da questo interpretati in via esclusiva e in modo da preservare l’unicità del corpo sociale. Non a caso, il primo episodio di aperta ribellione della Russia a una condanna CEDU trae origine dalle sentenze nel caso Markin c. Russia (del 2010 e del 2012), in cui un militare di carriera otteneva il riconoscimento del proprio diritto ai permessi parentali, mettendo in discussione il tradizionale ruolo della donna-madre nella società russa, nonché quello dello stesso servizio militare.

A questo progetto “antipluralista” del partito al potere in Russia da decenni si contrappone un altro tipo di pluralismo avuto di mira da Putin, con il convinto sostegno di molta parte dell’opinione pubblica russa. Si tratta dell’obiettivo di perseguire un sistema di relazioni internazionali multipolare, in frontale contrasto con l’unipolarismo affermato dagli USA con la fine dell’Unione sovietica e teorizzato dalla famigerata “fine della storia” di Fukuyama. Un obiettivo che è passato, in particolare, per la creazione dell’Unione economica euroasiatica, ispirata all’integrazione dell’UE, annunciata da Putin nell’ottobre 2011 ed entrata in vigore nel 2012. Un’Unione che lo stesso Putin avrebbe voluto allargare anche ai Paesi dell’UE (una “comunità armoniosa di economie da Lisbona a Vladivostok”). Una proposta le cui finalità pacificatrici erano, fin dall’inizio, assai ambigue; sicuramente una proposta sgradita agli USA e alla quale l’UE non ha saputo o voluto dare risposte, se non in ordine sparso.

Non va poi dimenticato che, proprio mentre si promuoveva l’allargamento ad Est della CEDU nell’utopia unificante della “società democratica” ignara della geopolitica, un allargamento di segno opposto veniva portato avanti: quello della Nato, con cui si perseguivano obiettivi geopolitici tanto ambigui (per i membri della stessa Nato), quanto pericolosi per l’opinione pubblica russa.

Nel 2014 la Russia è stata condannata dalla Corte permanente di arbitrato dell’Aja a risarcire alle società petrolifere controllate dall’oligarca Khodorkovsky la fantasmagorica cifra di 50 miliardi di dollari, condanna cui il governo di Putin ha reagito denunciando il trattato alla base della condanna (Energy Charter Treaty). Per gli stessi fatti, la Corte EDU ha condannato la Russia a un indennizzo di più di due miliardi di euro.

Le condanne in questione colpivano un elemento fortemente identitario della Russia di Putin: la vittoriosa lotta contro gli oligarchi del periodo caotico di Eltsin. Un periodo segnato da una crisi economico-sociale drammatica, con crollo del pil e drastico abbassamento dell’aspettativa di vita. Un caos che è ricordato – non solo da Putin – come una profonda umiliazione della Russia, dalla quale quest’ultima è riuscita a riscuotersi grazie all’ex funzionario del KGB. Per cui, ciò che nell’immaginario collettivo occidentale è celebrato come la fine della guerra fredda e la liberazione di milioni di cittadini dal totalitarismo sovietico, assume tinte ben diverse nella memoria condivisa dei cittadini russi (ma anche ungheresi, ecc.).

La reazione non si fece attendere: alla condanna del 2014 seguiva immediatamente l’approvazione di una legge del 2015 che consentiva alla Corte costituzionale russa di pronunciarsi sulla legittimità costituzionale di simili pronunciamenti, mimando strumentalmente la dottrina delle Corti costituzionali tedesca e italiana sui limiti costituzionali alla penetrazione dei vincoli internazionali. Finché nel 2019 la Costituzione russa è stata modificata, in modo da sancirne inequivocabilmente la superiorità sul diritto internazionale e da consentire alla stessa Corte costituzionale di filtrare discrezionalmente le condanne della Corte EDU cui giudici e potere politico avrebbero potuto dar seguito; il tutto, ovviamente, dopo che la stessa Corte costituzionale era stata sottoposta al controllo del Presidente e del Consiglio della Federazione.

La recente fuoriuscita della Russia da Consiglio d’Europa e CEDU, innescata dalla sospensione decisa dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa in reazione all’invasione dell’Ucraina, pone dunque fine a un’ambiguità estrema di rapporti tra Russia e CEDU protrattasi per ben più di un decennio.

 

La contro-storia dell’UE raccontata da Snyder e i suoi tranelli
L’illusione occidentale di far entrare nel mondo post-moderno dei diritti umani e del pluralismo culturale (politico, religioso, ecc.) i cittadini dell’Europa orientale si è così infranta contro la profondità della storia e delle sue radici plurali, abilmente trasfigurate dal potere di Putin (ma anche di Orbán, di Kaczyński, ecc.) e superficialmente ignorate dalle élite europee occidentali, sulla scia di quelle statunitensi.

Invero, la pubblicistica statunitense dotata di più raffinati strumenti di analisi storica batte da anni il tasto della critica alla falsa coscienza dei Paesi fondatori dell’UE.

Per Timothy Snyder, gli Stati-nazionali protagonisti dell’integrazione europea avevano alle spalle una storia, più o meno di successo, di potenze imperiali. Essi videro nell’integrazione europea non tanto il mezzo per perseguire la pace – come amiamo raccontarci noi europei –, bensì il rimedio alla perdita dell’imperialismo: «La presenza dell’Europa garantì un atterraggio morbido dopo la fine degli imperi». Decolonizzazione e prima fase dell’integrazione europea andarono di pari passo (non ci sono solo i più noti casi di Francia, Belgio, Regno Unito e Olanda, ma anche quelli di Portogallo e Spagna, in cui la caduta dei regimi autoritari giunse poco dopo la perdita delle colonie). Non per caso, uno dei primi ideologhi dell’integrazione europea, Kojève, progettava nel 1945 la creazione di un “impero latino”, guidato dalla Francia e incentrato sul mediterraneo e l’Africa.

Le forze politiche che oggi parlano di uscita dall’UE per riacquistare la sovranità nazionale non sanno di cosa parlano, posto che ciò che ha consentito agli Stati europei “di successo” di funzionare fino alla prima guerra mondiale non è stata la forma “Stato”, bensì la forma “Impero”. Non è un caso che, finora, a uscire dall’UE sia stato il Regno Unito, ancora legato alle sue ex-colonie dai legami del Commonwealth.

Quegli Stati che nacquero su basi etnico-nazionali dal disfacimento degli imperi centrali (austroungarico e ottomano), senza poter divenire a loro volta imperi, durarono poco più di un decennio tra le due guerre. Dopo la caduta del Muro di Berlino, gli Stati dell’Est-Europa usciti dal dominio sovietico scelsero un “ritorno all’Europa” sulla scorta della lezione del 1918 e del 1945: «lo Stato nazionale non può durare in assenza di una qualche struttura più grande». «Nel 2013, la UE includeva tanto i centri dei vecchi imperi marittimi che si erano disgregati dopo la Seconda guerra mondiale, quanto le ex periferie degli imperi terrestri che si erano disintegrati durante o dopo la Prima». Ma la debolezza dell’UE consiste nella politica dell’«inevitabilità» e nella narrazione della «nazione saggia», che induce i cittadini degli Stati fondatori a pensare «che le loro nazioni esistessero da tantissimo tempo e che, imparando dalla storia, avessero fatto le scelte migliori», la guerra in Europa aveva insegnato loro che «la pace era buona cosa». Questa favola della «nazione saggia» rese più facile il processo di decolonizzazione, «permettendo agli europei di distogliere lo sguardo sia dalla loro sconfitta nelle guerre coloniali, sia dalle atrocità che vi avevano commesso». «Recitando questa favola, i leader e le società potevano autoelogiarsi per aver scelto l’Europa, mentre di fatto l’adesione all’Europa era stata una necessità esistenziale dopo la fine dell’impero».

Nelle società dei Paesi dell’Est, invece, circola un’altra favola, quella della vittimizzazione subita tra le due Guerre, dimenticando che i loro Stati nazionali erano condannati al fallimento «non solo per le colpe di soggetti esterni, ma anche per la loro stessa struttura: senza un ordine europeo, avevano ben poche chance di sopravvivere».

Putin e i suoi ideologi avrebbero abilmente sfruttato queste due “favole”, dell’ovest e dell’est, incentrate sulla volontarietà dell’adesione al progetto europeo, anziché sulla necessità di quest’ultimo, fiancheggiando anche economicamente i partiti anti-europeisti (UKIP, Front National, ecc.), puntando a disgregare l’UE per far avanzare il proprio progetto di una integrazione euroasiatica di segno inverso, incentrata sulla Russia e sui valori premoderni, se non proprio autenticamente fascisti, di cui essa sarebbe portatrice.

Le insidie di questa lettura, pure riccamente documentata sul versante russo, sembrano risiedere nella logica del “TINA” (There is No Alternative), di thatcheriana memoria, stavolta sintonizzato su frequenze geopolitiche e non economiche. L’integrazione europea rischia di uscirne come una camicia di forza geopolitica priva di alternative, quale che sia il ricettario socio-economico che essa è stata ed è in grado di veicolare e imporre ai cittadini dei suoi Stati membri.

La prospettiva è interessante e foriera di innovative letture critiche per una nuova generazione di studi sull’integrazione europea, salvo che sembra troppo scopertamente richiamare all’ordine gli Stati membri dell’UE e le loro opinioni pubbliche, affinché si allineino alla politica estera unipolare statunitense, nella sua guerra santa contro il “satana russo” (in preparazione dello scontro con la Cina?).

Ora che la tragedia della guerra in Ucraina sta rivelando impietosamente le derive autocratiche del regime putiniano, occorrerà un grande sforzo critico per evitare di aderire a quella “contro-storia” statunitense e allinearsi alla strategia della tensione tra occidente e oriente europeo.

Quello che di buono può trarsi dalla lezione di Snyder sta nella sua critica alla carente educazione storica comune dei cittadini europei: senza giungere all’utopico appello dell’ex Ministro Paolo Savona su una scuola comune europea che lasci agli Stati membri la sola materia della “storia nazionale”, occorrerebbe chiedersi come possa aversi una difesa comune senza avere almeno un’ora di insegnamento di storia dell’integrazione europea gestito a livello sovranazionale.

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