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cultura politica e costituzionale

IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

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IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Elezioni USA, una guerra interna al capitalismo finanziario

Alle presidenziali USA la sfida tra Harris-Walz e Trump-Vance andrebbe più adeguatamente definita come uno scontro tra il capitalismo finanziario delle "Big Three" e quello che ne vuole indebolire il monopolio. Senza scomodare la contrapposizione “Sinistra” - “Destra”.

In seguito all’annuncio del ritiro di Biden dalla corsa presidenziale è emerso, con sempre maggiore chiarezza, uno scontro in corso all’interno del capitalismo finanziario statunitense. Provo a sintetizzarlo e forse anche a semplificarlo. Dopo la scelta di Vance come vicepresidente, dopo le prese di posizione di Musk, sta infoltendosi la schiera dei sostenitori – e finanziatori – di Trump. Si tratta di soggetti riconducibili ad un capitalismo che prova ad arginare lo strapotere delle Big Three, cioè dei superfondi ,Vanguard, Black Rock e State Street, ormai decisamente legati ai democratici. Sia Biden sia Kamala Harris hanno avuto e hanno nel loro staff figure chiave che provengono da Black Rock. Un personaggio come Jamie Dimon, il CEO di JP. Morgan, la banca dei superfondi, blandito da Trump, è stato a lungo in procinto di essere candidato per i democratici. Il presidente della Fed, con il sostegno di Yellen, ha accompagnato le strategie degli stessi superfondi, comprando a piene mani i loro Etf [Exchange Traded Funds, fondi d’investimento quotati in borsa che seguono la performance di un in-dice: ndr].

La cordata dei trumpiani contro gli oligopoli finanziari targati “democrats”

Contro questa simbiosi ha preso corpo, come accennato, una cordata di figure che vuole utilizzare il potere politico della presidenza Trump per combattere o limitare proprio lo strapotere delle Big Three. In tale sequenza compaiono alcuni grandi fondi hedge, come quello di John Paulson, preoccupati per la progressiva emarginazione da un “mercato” normalizzato dai superfondi, alcuni petrolieri non legati direttamente ai colossi dell’energia in mano alle Big Three, come Timothy Dunn e Harold Hamm di Continental Resources, ma figurano anche miliardari di lunga tradizione come i Mellon, infastiditi dallo strapotere di Fink, e personaggi alla Bernie Marcus, il fondatore di Home Depot, un colosso da 500 mila occupati, ostile al modello fabless delle big tech che vede affacciarsi nella sua creatura, ceduta proprio a Vanguard, Black Rock e State Street. Tra i capitalisti di Trump ci sono poi i proprietari dei casinò, come Steve Wynn e Phil Ruffin, spaventati dall’avanzata dei grandi fondi anche nei loro settori, e personaggi tipici del mondo trumpiano come Linda McMahon, fondatrice insieme al marito della Wold Wrestling Entertainement. In estrema sintesi, la possibilità di successo di Trump ha scatenato uno scontro duro all’interno del capitalismo americano destinato a determinare un cambiamento nei suoi equilibri interni e a indebolirlo.

Se si scorre la lista dei finanziatori di Kamala Harris invece si trovano numerosi esponenti della finanza legata, a vario titolo, ai grandi fondi. Spiccano infatti i nomi di Reid Hoffman, creatore di LinkedIn, ceduta nel 2016 a Microsoft per 26, miliardi di dollari e, da allora, membro del Consiglio di amministrazione della stessa Microsoft, di cui, come è noto Vanguard, Black Rock e State Street hanno oltre il 20%. Lo stesso Hoffman, oggi, ha una partecipazione rilevante in Airbnb, dove le Big Three sono azioniste di riferimento. Accanto a Hoffman figura Roger Altman, finanziere democratico di lungo corso, collaboratore di Carter e di Clinton con ruoli molto delicati, passato da Lehman e da Blackstone, e ora amministratore della banca Evercore, di cui Vanguard possiede il 9,46%, Black Rock l’8,6 e State Street il 2,6. Ci sono poi Reed Hastings, presidente di Netflix, dove Vanguard ha l’8,5, Black Rock il 5,7 e State Street il 3,8%, Brad Karp, a lungo legale di fiducia di Jp Morgan, Ray McGuire, presidente di Lazard Inc, in cui Vanguard è il primo azionista con il 9,5, seguito da Black Rock con l’8,5%, Marc Lasry, ceo di Avenue Capital Group, l’hedge fund vicino alle Big Three, e Frank Baker, proprietario di un private equity. Un posto di rilievo tra i donatori per Kamala Harris hanno anche diversi membri della famiglia Soros e vari protagonisti delle principali società di consulenza americane come Jon Henes e Ellen Goldsmith-Vein. In sintesi, la nuova potenziale candidata ha messo insieme una vasta cordata di donatori che vedono nella finanza trumpiana un pericolo per il monopolio “rasserenante” coltivato con cura dai super fondi, azionisti centrali delle principali società dell’indice S&P 500: si potrebbe immaginare così uno schieramento che intende difendere i principali player del risparmio gestito globale e della proprietà azionaria dei colossi in nome della tutela dei risparmiatori dagli scossoni generati da una vittoria repubblicana. Sia pur con segnali di condizionamenti “incrociati”.

La “corda corta” di Kamala

Kamala Harris si è presentata in North Carolina per esporre il proprio programma volto a difendere la classe media, peraltro individuata nei possessori di reddito fino a 400 mila dollari annui, impegnato in un’azione di sostegno all’edilizia popolare privata e con l’indicazione di una strategia di contenimento delle speculazioni sui prezzi. In sintesi, un programma assai generico, che la candidata democratica ha definito economia delle opportunità. Tuttavia, il riferimento alla volontà di ostacolare le speculazioni sui prezzi ha spaventato le Big Three, che, come accennato, hanno investito sui democratici per evitare ‘l’altro capitalismo’ domiciliato presso il clan di Trump. Così è uscito il “New York Post”, poco dopo Ferragosto, con un titolo gridatissimo in cui la Harris era definita comunista proprio per il fatto di voler controllare i prezzi e aumentare la spesa federale. In merito a ciò, è bene sottolineare che il “Post” è di proprietà della News Corp., nel cui azionariato compaiono Rupert Murdoch e le Big Three, queste ultime con oltre il 20 per cento. Appare chiaro che i super fondi sono stati solerti ad usare un veicolo trumpiano per far capire ad Harris cosa non può fare. In pratica non può fare politica contro il monopolio delle speculazioni. In realtà esiste qualcuno che sembra pensare che Harris sia un po’ comunista.

Equivoci interessati

Su “Repubblica” del 21 agosto 2024 Paolo Mastrolilli ha intervistato, assai compiaciuto, Bernie Sanders, “l’unico senatore socialista” americano. Il compiacimento di Mastrolilli derivava dalla dichiarazione di convinto, quasi adorante, sostegno di Sanders a Harris. Partendo dal presupposto che Trump è un pericoloso fascista, Sanders si è profuso in elogi per Biden, il presidente più ‘progressista’ della storia moderna USA e ha invitato a votare per Harris perché ne continui l’opera. Certo, ha aggiunto, Bernie, bisognerà batterà la resistenza dell’1 per cento della popolazione costituita dai super-ricchi che, ha sostenuto candidamente, “non sono stati mai così bene”. Forse perché gli ultimi presidenti hanno fatto di tutto per agevolarli? Sanders aveva scritto un libro sul sistema economico Usa, attaccando i grandi fondi; deve averlo dimenticato in qualche trasloco.

Siamo allora davvero di fronte allo scontro interno ad un capitalismo che, da un lato sta costruendo la sua fortuna sul monopolio finanziario inteso come strumento della riduzione del rischio per i cittadini divenuti ormai soggetti finanziari attraverso le loro polizze, e dall’altro sta conoscendo la formazione di un blocco destinato a indebolire tale monopolio nella speranza di non essere escluso dalla bolla in atto e che ha bisogno della politica, a cominciare da quella monetaria, con tassi decisamente più favorevoli, per poter contare. Al di là delle pur fondamentali narrazioni popolari, queste elezioni contengono una dura guerra tra gruppi finanziari.

Lo schema politico-economico dei democratici è stato, finora, molto comprensibile. Jerome Powell, il presidente della Federal Reserve, ha annunciato più volte che i tassi di interesse americani sarebbero rimasti alti. La vicenda di Powell, in questo senso, è molto interessante. Collaboratore di Nicholas Brady, sottosegretario al Tesoro con Bush, si è legato a Carlyle Group e ha creato una propria banca d’affari privata, per entrare poi nel board della Federal Reserve, insieme a Jeremy Stein, su designazione del presidente Obama. Nominato da Trump nel febbraio del 2018 alla guida della Federal Reserve, in sostituzione di Janet Yellen, considerata troppo vicina ai democratici, è stato confermato da Biden, durate la cui presidenza ha sposato la linea del contrasto all’inflazione con una politica monetaria restrittiva che ha certamente favorito i grandi detentori del risparmio gestito – le  Big Three, appunto – togliendo liquidità ai mercati e contribuendo, al contempo, a reggere la dollarizzazione perseguita dallo stesso Biden per finanziare la sua ingente spesa federale, costruita sul debito.

Alti tassi e geopolitica

È chiaro infatti che gli Stati Uniti vogliono continuare a drenare risparmio da tutto il mondo per finanziare la propria economia, ma per pagare tassi così alti in modo da attrarre i risparmiatori globali hanno bisogno che il dollaro sia l’unica valuta mondiale, accettata sia in termini finanziari sia in termini geopolitici. In tale ottica, Biden ha preferito la strada dell’ingigantimento della spesa federale per finanziare la ripresa di un’economia produttiva negli Stati Uniti, resa possibile dal dollaro forte, rispetto ad una dinamica di natura concorrenziale agevolata da tassi d’interesse più bassi. Anche per questo al vertice Nato del giugno 2024 si è proclamato l’ingresso dell’Ucraina, con l’immediato sostegno di un’Europa ben felice del suo atlantismo che le impone il dollaro con cui gli Stati Uniti finanziano la loro economia proprio a discapito di quella europea. Se gli Stati Uniti mostrano i muscoli e gli “alleati” europei si allineano, il biglietto verde continuerà ad essere la sola moneta dell’Occidente e l’economia americana potrà tornare a produrre e a non essere solo di carta. Intanto le agenzie di rating, di proprietà dei grandi fondi, hanno declassato il debito della Francia “socialista” perché prevenire è meglio di curare. Nato, pagelle delle agenzie di rating e politica estera aggressiva sono tre elementi cardine del “modello” dem che non può ammettere alcuna forma di isolazionismo e deve perseguire il primato militare mondiale, secondo le affermazioni della stessa Harris.

L’ostilità di Trump verso la Nato è invece il segno di una contrapposizione politica tangibile rispetto al progetto dem ed esprime l’idea che l’alleanza militare non possa essere utilizzata a fini economici e monetari, per centrare i quali servono altre strategie. Il candidato repubblicano alla conferenza di Nashville dei “Miners” ha dichiarato il suo favore per bitcoin e cripto valute, annunciando la costituzione di una riserva strategica ad hoc e un Consiglio di presidenza sul tema. Ha sostenuto, modificando le sue antiche posizioni, che le criptovalute possono rappresentare una risorsa per l’economia americana, in grado di tutelare lo stesso dollaro da rischi di progressivo abbandono internazionale. Trump non ama la politica degli alti tassi della Federal Reserve che generano un dollaro troppo forte per le esportazioni di imprese a stelle e strisce, oberate proprio dal costo del credito, e che rischiano di limitare la diffusione del biglietto verde, perché eccessivamente oneroso per i suoi utilizzatori, specie se paesi emergenti.

Trump, le criptovalute e il progetto di una nuova centralità monetaria USA

In quest’ottica bitcoin e criptovalute diventano non solo un oggetto su cui costruire operazioni speculative, magari guidate da fondi hedge vicini allo stesso Trump, ma il mezzo per definire una nuova strumentazione monetaria “ideologicamente” più popolare e antistatuale che può mantenere la centralità monetaria statunitense, spostandola sul piano digitale. In questo senso, Trump vuole “americanizzare” la cripto e, in coerenza con un simile atteggiamento, ha fatto sapere che non rimetterà in circolazione le criptovalute sequestrate dalle autorità federali, per quasi 9 miliardi di dollari, per costituire la già ricordata riserva strategica e per evitare scossoni ai circa 50 milioni di americani in possesso di criptovalute. Soprattutto ha dichiarato che sostituirà i vertici della Sec, l’autorità di vigilanza della Borsa, a partire da Gary Genser, da sempre ostili verso quel tipo di strumenti di pagamento.  Lo stesso Trump ha anche accennato alla possibilità di unire logisticamente impianti di AI, altamente energivori con Miners, per ottimizzare lo sfruttamento dei picchi energetici altrimenti dispersi, così da tendere alla leadership mondiale sull’intelligenza artificiale e sul mining. Nella medesima logica ha accennato al fatto che gli acquisti governativi di Bitcoin dovrebbero raggiungere il 4 o 5 percento del volume totale disponibile. In una simile prospettiva si colloca anche la strategia delle stablecoin: le aziende che emettono stablecoin legate al dollaro devono comprare l’equivalente in titoli di stato USA, quindi sostituendo il circuito dell’eurodollaro con quello delle stablecoin, di fatto, gli USA riprenderebbero il controllo di quella mostruosa massa monetaria in dollari sparsa per l’intero globo che ora è prevalentemente controllata dalla City.

Una presa di posizione così netta può essere letta come l’ennesima polemica del capitalismo rampante contro le Big Three che usano i bitcoin per creare ETF ma hanno sempre mostrato grande diffidenza nei confronti del panorama complessivo delle cripto perché bitcoin e criptovalute ridurrebbero il monopolio della liquidità detenuto dalle stesse Big Three grazie al risparmio gestito. Moltiplicare gli strumenti di pagamento favorisce chi è fuori dal monopolio della liquidità e apre spazi liberi, anche in termini speculativi, al di fuori delle scelte di Vanguard, Black Rock, State Street e del loro braccio armato Jp Morgan. La presa di posizione a Nashville ha mirato, di nuovo, quindi, a costruire un consenso verso il candidato repubblicano da parte di quella vasta parte di americani che non si riconoscevano nel modello “democratico” dei grandi fondi, capaci di operare una riduzione dei rischi per la loro condizione di monopolio e quindi in grado di garantire a milioni di americani polizze sanitarie e previdenziali non sostenute dallo Stato. Le criptovalute sono un pezzo del paradigma libertario e dello spirito “competitivo” del capitalismo che Trump vuole declinare in salsa patriottica contro la Wall Street delle élite, secondo quanto sostenuto dal candidato Vance.  È probabile, alla luce di ciò, che oltre a Gary Genser, Trump, qualora vincesse, farebbe fuori anche Jerome Powell proprio per la sua politica di alti tassi, in questo momento alimentata attraverso un’enorme quantità di emissioni a breve termine, fatta per tenere i tassi a lungo termine alti senza deprezzare i titoli. La vittoria di Trump sarebbe un vero terremoto finanziario sul versante istituzionale che obbligherebbe ‘i padroni del mondo’ a fare i conti con la politica, magari modificando la struttura di vertice del capitale finanziario; un ‘rimpasto’ necessario per definire le tensioni con l’economia comunista cinese, in questo momento del tutto inconciliabile con l’assetto democratici-Big Three.

Progressismo non è sinonimo di “sinistra”

Quasi tutta la stampa italiana, Manifesto compreso, ha celebrato la candidatura di Tim Walz come vicepresidente nei termini della scelta di “sinistra”. Si tratta di una definizione decisamente azzardata per un personaggio che in materia di politica economica e finanziaria è sostanzialmente in linea con Harris. Non a caso per corroborare questa definizione, i media nostrani hanno citato le dichiarazioni di Trump e il sostegno di un sempre più confuso Sanders. Il vero tema è che per la stampa italiana “Sinistra” rappresenta un sinonimo stretto di “progressismo”; una categoria che abbina aperture ampie sui diritti e sulle libertà ad una profonda fede capitalistica. Dunque, Harris-Walz vs Trump-Vance dovrebbe essere definito nei termini dello scontro tra capitalismi, senza scomodare il termine Sinistra e senza dover citare l’appoggio di Dick Cheney alla Harris che si è dichiarata favorevole persino al fracking.

 

 

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