IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

L’intervista. Con gli occhi della CGIL, parla Massimo Bussandri

Non siamo mai stati tifosi del reddito di cittadinanza, ma è innegabile che durante l'emergenza ha impedito lo scivolamento di tante famiglie nell’indigenza. I costi dell’attuale crisi energetica siano pagati dalle imprese che hanno fatto extra profitti.

Il 29 aprile scorso è stato eletto quale nuovo Segretario Generale della Cgil Emilia Romagna, Massimo Bussandri. A lui ci siamo rivolti per alcune domande sui temi intorno ai quali ruota l’ultimo numero del web magazine, la “sinistra assente”. Nel ringraziarlo per la disponibilità, inizio subito con una considerazione ed una domanda di carattere generale, prima di entrare sui temi più specifici. In una delle sue ultime uscite pubbliche, prima di rassegnare le dimissioni, Draghi aveva ribadito ancora una volta che la vocazione del suo governo era quella del fare, “Questo governo – sottolineava- è costruito per fare”. Ora, senza altre specifiche questo approccio consegna l’azione di governo ad una questione di mezzi più che di fini, magari decisi da altri in contesti economico-finanziari sottratti al controllo democratico. Quali sono a tuo avviso i punti principali di una ipotetica agenda di governo che una politica rinnovata dovrebbe porre al centro della sua azione?

Nel provare a rispondere al quesito, potrei partire richiamando i temi che saranno al centro dell’imminente Congresso che prenderà avvio, con le assemblee di base, a partire dalla fine di settembre prossimo per concludersi con il Congresso nazionale Confederale nel marzo 2023. L’orizzonte profondo è quello della costruzione di un nuovo modello di economia e di società, che faccia perno su una ritrovata centralità del lavoro. I punti salienti da affrontare nel concreto dell’azione di governo sono: l’emergenza salariale, che riguarda sia i redditi da lavoro che le pensioni; l’emergenza precarietà; il welfare pubblico, da rilanciare con forza mediante investimenti in particolare nella sanità pubblica; la sicurezza sul lavoro. Occorre poi definire le modalità di un governo necessariamente pubblico delle tre grandi transizioni strategiche: quella demografica, quella ambientale e quella digitale. Come accennavo, la tensione di fondo dovrebbe essere l’aspirazione a un modello di società e di economia decisamente alternativo a quello che ci ha condotti dritti in una crisi climatica senza precedenti e sull’orlo di una guerra globale.

Parlami dell’emergenza salariale…

Secondo l’Ocse l’Italia è l’unico Paese europeo che negli ultimi trent’anni ha registrato una regressione del salario medio annuale del 2,9%. Già prima del Covid eravamo il “Mezzogiorno d’Europa”. Pandemia e guerra hanno funzionato come acceleratori e moltiplicatori di disuguaglianze già in essere. In questo Paese, da ogni emergenza si esce ogni volta sempre più diseguali e questa è già in qualche modo la “spia” di una latitanza della sinistra nella sua funzione storica quantomeno “minima” di soggetto politico redistributore della ricchezza, latitanza con la quale facciamo i conti da almeno un ventennio: paradossalmente, oggi corriamo il rischio di una uscita politica completamente a “destra” proprio quando il lavoro e le fasce sociali più in difficoltà avrebbero un disperato bisogno di “sinistra”.

Naturalmente quello che si è venuto a determinare in termini di emergenza salariale chiama in causa anche il nostro ruolo di sindacato, ci interroga sul perché non siamo riusciti a fare redistribuzione mediante le politiche contrattuali, anch’esse da rivedere, e ci interroga su come siamo organizzati per fare contrattazione (una contrattazione, fra l’altro, che sempre più dovrà divenire acquisitiva). Certo, le condizioni di contesto non hanno aiutato: una deregolamentazione sempre più selvaggia del lavoro ha isolato i sindacati. Nello specifico, l’assenza di una legge sulla rappresentanza sindacale ha consentito la proliferazione di “contratti pirata” (al CNEL risultano depositati ben oltre 900 contratti, dei quali circa 2/3 sottoscritti da sindacati di comodo che non rappresentano niente e nessuno); una vera e propria giungla che favorisce il dumping contrattuale e salariale, creando una specie di bazar della contrattazione nel quale le imprese possono scegliere a menù e che nuoce gravemente al lavoro, schiacciando verso il basso le dinamiche retributive.

Massimo, pensi come me che gli squilibri sono tanti e tali che non è più possibile andare avanti con questa rigida suddivisione dei compiti tra Stato e Mercato, col primo rigorosamente “funzionale” al secondo, come pure tenne a rimarcare la Merkel poco prima di lasciare?

Anche lo Stato dovrebbe riorientare le proprie priorità. Quando si dice che lo Stato è stato assente nell’ultimo trentennio neoliberista, si dice una verità molto parziale. Risorse pubbliche anche ingenti sono state spese, ma indirizzate prevalentemente a sostegno di un mercato che non ha fatto redistribuzione. La spesa pubblica va riorientata verso una funzione sociale, di riduzione delle disuguaglianze. L’idea di riallineare le spese militari al 2% del Pil non è altro che la prosecuzione di un’impostazione di spesa pubblica nella direzione sbagliata. Nelle tre grandi transizioni il ruolo dello Stato diventa fondamentale: pensiamo ad esempio alle sfide della digitalizzazione, che è una grande opportunità per il mondo produttivo così come nel rapporto tra cittadini e Stato, ma se lasciata a se stessa, senza governo pubblico, rischia di essere un ulteriore fattore di allargamento delle disuguaglianze.

Sull’emergenza gas, ad esempio, cosa ritieni si debba fare, in questo caso anche al livello europeo?

E’ chiaro che si tratta di un problema vivo e reale, che rischia di impattare tanto su lavoratori e pensionati e sulle loro famiglie, quanto sulla tenuta produttiva delle imprese: nel nostro territorio, come nel resto del Paese, il sistema produttivo dipende ancora in larga misura dal metano, che in Emilia-Romagna copre il 52% del consumo interno lordo. Un problema che richiede interventi coordinati a livello europeo in grado di mettere un tetto ai costi e provvedimenti urgenti nella direzione di svincolare i costi dell’energia da quelli del gas, come peraltro richiesto da più parti. Vorrei tuttavia sottolineare come all’origine del rincaro vi siano stati anche forti elementi di speculazione, che vanno colpiti, e non vorrei nemmeno che in autunno partissero tentativi di “speculazione occupazionale”, cioè un utilizzo in qualche modo “peloso” dell’emergenza gas per riorganizzare le imprese su fabbisogni occupazionali ridotti. In Italia più che altrove, poi, scontiamo anche i pesanti ritardi nell’investimento sia pubblico che privato sulle fonti rinnovabili: certo, lo scenario di guerra ci sta facendo precipitare nell’emergenza gas, ma già la grave crisi climatica annunciata da almeno un ventennio avrebbe dovuto suggerire ai Governi di questo Paese un impulso molto più forte e deciso alle energie alternative, che non solo sono rinnovabili, ma aumentano il grado di autonomia energetica del Paese.

Sulla precarietà, invece?

Siamo anche in questo caso tra i Paesi europei con il più alto tasso di precarietà. Credo che il precariato sia ormai non solo una condizione lavorativa, ma una condizione sociale a 360 gradi. Non esiste più un modello universale di precarietà. Oggi esistono, a differenza del passato, tanti tipi di precarietà, siamo nella società delle mille precarietà difficili anche da contestualizzare: c’è quella in qualche modo “storica”, di ingresso nel mondo del lavoro; c’è quella diventata purtroppo strutturale anche nel pubblico impiego e nella manifattura, con il proliferare di contratti a termine e somministrazioni anche per la copertura di funzioni produttive stabili; e poi c’è quella addirittura permanente, la “stabile precarietà” (se non fosse un ossimoro) del terziario e della logistica arretrati, quella dei mille lavoretti a chiamata e delle tante “partite iva” usate e abusate. Come accennato, si fa fatica ad intercettare e rappresentare questi lavoratori, in particolare quelli ascrivibili all’ultima tipologia. Questa precarietà dilagante non consente alle nuove generazioni, che in buona parte la subiscono, di mettere in campo progetti di vita maturi e consapevoli ed è ormai questione che va affrontata anche in sede di contrattazione sociale territoriale, oltre che rafforzando i tratti inclusivi della contrattazione “classica” di categoria.

Ritengo, caro Salvatore, che al punto in cui siamo giunti non basti l’azione contrattuale, ma occorra agire anche la leva legislativa. Va rivista profondamente la legislazione sul lavoro. A partire dal nostro Congresso andrà proposto al Paese e alle forze politiche un bilancio sociale della legislazione del lavoro elaborata negli ultimi due decenni e culminata nel Jobs Act. Come si è tradotta sulla pelle viva dei lavoratori? Ha prodotto redistribuzione delle garanzie, come era nelle previsioni, oppure un allargamento macroscopico dell’area della precarietà e del lavoro povero? Ancora, ha aumentato la base occupazionale oppure il lavoro si è indebolito ulteriormente, divenendo più ricattabile e povero? La tesi nostra confermata dai fatti è che la moneta cattiva scaccia sempre la buona e mai il contrario.

Siamo in una fase storica nella quale credo vada superato il dilemma che spesso si è riverberato anche nel nostro dibattito: primato della contrattazione contro primato della legislazione. In questa fase, per provare a mettere mano all’emergenza salariale e all’emergenza precarietà, abbiamo bisogno di agire entrambe le leve e se quella contrattuale dipende in larga misura da noi, per agire la leva legislativa abbiamo bisogno di una rete di alleanze sociali e di corrispondenze politiche. Servirebbe, ad esempio, rimettere mano da parte di una politica rinnovata ad una riforma fiscale per spostare il carico fiscale dal lavoro e dalle pensioni, che oggi lo sostengono per oltre l’80%, alle rendite, ai profitti esosi e ai grandi patrimoni. L’ultima parziale riforma fiscale, a cui ci siamo opposti con uno sciopero generale assieme alla UIL, si è dimostrata essere tutta a favore dei redditi superiori ai 40 mila euro. Ribadisco, non abbiamo bisogno di “flat tax”, non occorre abbassare ma spostare il peso del gettito fiscale, perché la posta in gioco è uno stato sociale da rilanciare con forza e non da liquidare.

C’è una specifica questione sociale che riguarda la nostra regione? Se sì, quali sono a sua volta i termini?

La nostra regione è un territorio storicamente forte, ma non vive isolata dal contesto generale e non può farcela da sola. Vorrei sottolineare un aspetto piuttosto preoccupante: il saldo demografico negativo, in cui la denatalità non è più compensata da un saldo migratorio positivo interno, soprattutto dal Sud, che finora ha contribuito a rendere fortemente competitiva la manifattura di questa regione. E’ quello che gli studiosi chiamano “inverno demografico”: l’Emilia Romagna è ormai una regione costituita per oltre un quarto da anziani, con una popolazione in età lavorativa sempre più ristretta e concentrata nelle fasce di età più alte. Sarebbe miope credere che la questione demografica non impatti sul nostro modello di sviluppo, visto che abbiamo bisogno di attrarre manodopera da altri luoghi, di evitare le migrazioni verso l’estero (anche il nostro territorio, negli ultimi anni, non è stato immune dal fenomeno della “fuga dei cervelli”) e anzi di attrarre nuovi talenti. Così come sarebbe miope credere che la questione demografica non impatti sul nostro modello sociale. Con una popolazione sempre più anziana la conseguenza è la messa a rischio dei sistemi di protezione sociale e la pandemia ha poi aggravato questa situazione sul fronte sanitario. Per scelta politica nazionale, mancano all’appello le risorse per coprire le spese sostenute da tutte le Regioni per l’emergenza Covid. La priorità accordata con voto quasi unanime del Parlamento alle spese militari, come accennato, non aiuta. Nella nostra regione il saldo passivo è di almeno 500 milioni. Si rischia un cambio di paradigma in negativo. Siamo arrivati ad assistere all’appalto di alcuni punti di pronto soccorso, con medici che escono dal sistema pubblico per rientrarvi come soggetti privati associati, con costi che lievitano per le casse pubbliche. Falle che vanno tamponate immediatamente, altrimenti diventa alto il rischio che il privato si accaparri i pezzi più appetibili e remunerativi della sanità, lasciando una sanità pubblica residuale per i più poveri e fragili, con un bisogno di cura che lascia il campo alle esigenze di profitto del mercato. Non lo possiamo consentire.

Si sta poi affacciando il tema, che diventerà esplosivo nei prossimi anni, di quella che io chiamo la “generazione grigia”: lavoratrici e lavoratori ultra-sessantenni, che le riforme pensionistiche di stampo draconiano del decennio passato costringeranno a lavorare fino a 68-69 anni. Uomini e donne spesso figli di genitori molto anziani da assistere, spesso genitori di figli in condizioni di precarietà da aiutare, talvolta nonni di nipotini da accudire. Una generazione di “quasi-anziani” che rischia di dover sostenere il mondo sulle proprie spalle. Un tema oggi molto sottovalutato ma che impone una seria riflessione sui sistemi di protezione sociale.

La nostra regione ha sempre mostrato nella sua lunga ed esaltante storia manifatturiera una speciale inclinazione all’export, detto altrimenti una vocazione “mercantilista”. Reputi che la nuova situazione geopolitica da un lato e la crisi conclamata della globalizzazione richiedono una messa in discussione di quella particolare vocazione?

E’ un modello che nasce anche dal protagonismo e dalle intelligenze delle lavoratrici e dei lavoratori. Vocazione manifatturiera, vitalità produttiva, eccellenze: quasi una necessità l’export. Sarà da rivedere? In un contesto, che in tanti preconizzano, di almeno parziale de-globalizzazione, con scambi commerciali per blocchi continentali omogenei, il quadro di riferimento si stringe e le catene del valore si accorciano. L’export difficilmente potrà essere a tutto campo come lo è stato in un passato anche recente.

Ritorno ai temi più dibattuti in questo momento nel Paese, il sindacato a me pare giustamente abbia aperto al salario minimo, stando però attenti a conciliarlo con la contrattazione. Ci puoi spiegare più nel dettaglio questa posizione che secondo me arricchisce la discussione sul tema?

I termini del dibattito stanno cambiando. Il salario minimo costruito come salario legale puro, svincolato dalla contrattazione, continua a presentare a mio avviso molte criticità, perché concede una “via di fuga legale” a chi non vuole sottostare ai contratti. Ma legare il salario minimo alla contrattazione, a cui venga finalmente attribuita un’efficacia erga omnes sostenuta da una legge sulla rappresentanza sindacale aprirebbe una prospettiva diversa, a cui guardiamo con favore. Faccio questo ragionamento: nello scenario internazionale l’Europa, se nelle prospettive nefaste che la guerra sta aprendo non vuole finire come il vaso di coccio tra i vasi di ferro, deve sostenere la domanda interna attraverso la tutela dei redditi medio-bassi, lo stesso vale per il nostro Paese. Puntare su un reddito legale tout court, sganciato dalla contrattazione, porta con sé il rischio di una compressione ulteriore dei redditi da lavoro e di un lavoro ulteriormente impoverito, in perfetta continuità con le politiche degli ultimi decenni; legare invece il salario minimo alle dinamiche della contrattazione, all’efficacia erga omnes dei contratti e alla certificazione della rappresentanza offre una prospettiva completamente diversa.

Le polemiche sul reddito di cittadinanza?

Come ti è noto, non siamo mai stati “tifosi” del reddito di cittadinanza, la nostra idea fondamentale era e rimane quella di un “lavoro di cittadinanza”: riteniamo cioè che lo Stato debba determinare le condizioni di una piena e buona occupazione. E’ innegabile, tuttavia, che nell’emergenza degli ultimi due anni e mezzo il reddito di cittadinanza abbia fatto da parziale cuscinetto, impedendo lo scivolamento di decine di migliaia di famiglie nella condizione di indigenza. Nel nostro territorio, numeri alla mano, è sempre rimasto uno strumento residuale. Le polemiche, fra l’altro alimentate proprio da settori imprenditoriali della nostra regione, sul reddito di cittadinanza come fattore ostativo al reperimento di manodopera sono del tutto pretestuose, se pensiamo ai numeri davvero molto ristretti dei percettori. La manodopera non si trova perché, come detto, continua a calare la popolazione in età lavorativa e dunque è più difficile incrociare domanda e offerta, e poi perché fortunatamente in Emilia-Romagna molti giovani sono ancora nelle condizioni di poter rifiutare contratti indecorosi e salari sotto la soglia della dignità.

Per ultimo ti chiedo le tue previsione e, perché no, speranze per la nostra regione e più in generale per il nostro Paese collegandole al prossimo Congresso della Cgil, che si celebrerà dopo le elezioni politiche

Ci attendono due sfide, entrambe decisive: la prima è la necessità di allargare gli spazi della democrazia e della partecipazione nel Paese, dentro e fuori dai luoghi di lavoro; la seconda, sfidare la politica e soprattutto la sinistra alla ricostituzione di una rappresentanza politica del lavoro, quasi assente negli ultimi vent’anni. Questo darebbe più forza anche a noi nel nostro sforzo di rappresentanza sociale del mondo del lavoro.

Sono sfide difficili da sostenere perché il nostro Paese è nel pieno di un’emergenza democratica, anzi quell’emergenza democratica si aggira per l’intera Europa come uno spettro; solo, da noi è più acuta che altrove, certificata dalla scarsa partecipazione al voto in tutte le ultime tornate elettorali. Le masse popolari non vedono più nella politica lo strumento di risoluzione dei loro problemi, questo è un fatto pericoloso. E lì dentro c’è anche una parte del mondo che noi rappresentiamo.

Gli scenari pericolosi possono essere di due tipi: o quello di una presa del potere da parte di una destra autoritaria e anticostituzionale oppure l’altro, quasi altrettanto allarmante, di un governo tecnocratico che faccia a meno del popolo, con l’affacciarsi un “populismo dell’élite”, sia pure nel quadro di rispetto delle forme esteriori di democrazia e libertà. Il fatto è che sempre più persone considerano la democrazia un esercizio inutile, è un sentimento che come prima organizzazione di massa del Paese abbiamo il dovere di contrastare perché, se dovesse diventare strutturale, saremmo all’esaurimento della ragione politica del ‘900 che recava la promessa di emancipazione delle classi subalterne. Da qui la sfida alla politica per rilanciare una rappresentanza larga del lavoro che possa prendere ispirazione, ad esempio, dalla nostra Carta dei Diritti del 2016.

La principale nota di speranza, forse e nonostante i luoghi comuni, è data da tanti giovani e giovanissimi, quelli dei “Fridays for Future” e non solo, che incarnano con le loro stesse forme e stili di vita un modello sociale ed economico alternativo non solo al neoliberismo, ma per certi versi allo stesso paradigma economico capitalistico. Un’istanza di trasformazione radicale che proviene da mondi differenti rispetto a quelli tradizionali del movimento operaio, che esige una rappresentanza sociale allargata. Dobbiamo avere l’umiltà di riconoscerlo e al tempo stesso l’orgoglio e la convinzione di riconnetterlo col mondo del lavoro, da cui non si può prescindere per una prospettiva di emancipazione che preveda un cambio di modello di sviluppo. Ecco, per concludere, occorre creare ponti di relazione con i movimenti sociali, giovanili, ambientalisti e pacifisti in grande fermento.

Stampa o salva l’articolo in Pdf

Newsletter

Privacy *

Ultimi articoli pubblicati