IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

L’ipocrisia della legalità internazionale

La guerra in Ucraina sta esasperando l’ipocrisia della legalità internazionale manifestatasi al termine della guerra fredda con la caduta dell’URSS. L'Europa è diventato lo spazio periferico dove è .possibile fare caccia grossa?

Il dibattito sulla guerra in Ucraina e, più in generale, sulle dinamiche internazionali che intorno a questa si muovono – compreso il rilancio di un’«Europa geopolitica» che ha «una responsabilità globale» contro «la politica imperialista, revisionista e contraria al diritto internazionale di Putin» (cfr. O. Scholz, Discorso del 9 maggio 2023 al Parlamento europeo), e che esalta la proposta della Commissione relativa all’Act in Support of Ammunition Production, al fine di accelerare «as soon as possible» (piano ASAP) la produzione in Europa di armi da inviare in Ucraina, secondo la tipica logica della guerra totale che inizia proprio quando verso la guerra converge anche la struttura socio-economica degli Stati (cfr. T. Breton, Conferenza stampa del 2 maggio 2023 a Stoccolma) – sta esasperando l’ipocrisia della legalità internazionale manifestatasi al più alto livello al termine della guerra fredda con la caduta dell’impero sovietico e con l’imprudente giudizio sulla (presunta) fine della storia.

L’universalismo teorico e la giuridicizzazione della guerra

Il presupposto di questa ipocrisia può essere individuato nella retorica dell’universalismo teorico, con il suo corollario della giuridicizzazione della guerra, formalizzato nell’istituzione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite.

Lo scoppio della guerra in una terra di confine tra spazi politici plurali ha tuttavia squarciato il velo dell’ipocrisia che rivestiva l’idea della formazione di un mondo unificato e pacificato da un diritto globale sganciato dagli spazi materiali (e, dunque, politici, perché non esistono idee politiche senza uno spazio alle quali riferirle): questa idea si è rivelata niente di più che una narrazione, e una narrazione interessata. La fuga nella de-spazializzazione aveva mostrato ormai da tempo tutta la sua inconsistenza, ma certamente la guerra le ha dato ora il colpo di grazia nel modo più drammatico. In estrema sintesi: quella in corso è una guerra che ha a che fare con l’appropriazione di «spazi» (materiali, politici, culturali), con il tracciamento di «linee», di «striature», su un globo terrestre niente affatto «liscio», in una contingenza nella quale una parte contesta – a torto o a ragione: non è questo il punto – il nomos (in senso schmittiano: unità di Ordnung e Ortung) che si è imposto negli ultimi trent’anni. Quella parte sta dicendo – nel modo più sanguinario – che non ci sta più.

È l’intero dibattito in corso – rigorosamente orchestrato all’unisono – che esprime l’ipocrisia segnalata: l’esaltazione a più riprese della retorica dell’universalismo teorico (dalla quale consegue la legittimazione della lotta del Bene contro il Male, della democrazia contro le autocrazie, ecc.) ha sinora impedito di mettere in campo tutti gli sforzi e i comportamenti politici che potrebbero tentare di arrestare il conflitto armato. Il sintomo più evidente di questa esaltazione è consistito nella formale criminalizzazione del nemico avvenuta con il mandato di arresto emesso lo scorso 17 marzo dalla Corte penale internazionale nei confronti di Vladimir Putin (https://www.icc-cpi.int/news/situation-ukraine-icc-judges-issue-arrest-warrants-against-vladimir-vladimirovich-putin-and).

La trasformazione del nemico in criminale

La trasformazione del nemico in criminale è un effetto della differenza categoriale tra esterno e interno, propria del pensiero politico moderno. In un immaginario teorico nel quale esiste un unico diritto globale unificato su uno spazio «liscio» non ci possono essere nemici politici ma solo criminali da processare sulla base di quel presunto unico diritto. In questa idea di legalità internazionale non può esistere neppure la guerra tra nemici, ma solo un’attività di polizia internazionale contro i criminali, appunto: è l’esaltazione del Responsibility to protect principle (paragrafi 138-139 della Risoluzione adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 16 settembre 2005) e della liability personale del sovrano (e della fine della sua impunibilità) sotto l’unica legge internazionale.

Come noto, dopo le devastazioni provocate dalle guerre di religione, il pensiero politico moderno era nato con l’obiettivo di disarmare il conflitto: la sicurezza è la cifra della modernità e dunque la guerra ne è il suo problema originario. Allo Stato, e al diritto da questo prodotto, viene affidato un compito ordinativo: «far perdere alla relazione amico-nemico la sua indeterminatezza, stabilizzarla, spazializzarla» [Galli, 205]. Lo Stato è creatore di pace interna attraverso la sua legge, che non esprime contenuti materiali di giustizia, ma (solo) la volontà del sovrano. La distinzione categoriale tra interno ed esterno ha questo scopo: se all’esterno può succedere di tutto (c’è lo stato di natura), all’interno dei confini di quella porzione di spazio che è lo Stato la legalità garantisce la pace. Coloro che mettono a rischio la pace interna sono dunque dei criminali, non dei nemici, «poiché sono interni all’ordine politico, e solo una legge dello Stato li definisce tali, mentre i nemici non sono criminali, ma sono altri Stati che stanno fuori dell’ordine politico, cioè sono in rapporto naturale con lo Stato; solo per questo possono fargli guerra, la quale dunque non è un crimine ma una possibilità (rischiosa) delle relazioni naturali fra soggetti» [Galli, 205].

La retorica dell’universalismo giuridico ha esteso la dicotomia interno/esterno al «grande spazio» delimitato dalla «linea dell’emisfero occidentale» [Schmitt, 368 ss.]. La giuridificazione della guerra, la sua criminalizzazione, principale effetto della universalizzazione del diritto che deve regolarla, ha eliminato la distinzione categoriale tra interno ed esterno. Esiste un unico spazio politico liscio in cui vige un’unica legge; esiste un solo unico interno in cui i più forti possono e devono esercitare attività di polizia internazionale qualora quell’unica legge sia violata o vi sia il pericolo che possa venire violata. In questo unico interno ci possono essere solo criminali, non nemici.

È noto che il nomos dello jus publicum europaeum era stato costruito proprio per delimitare uno spazio dentro il quale gli Stati europei nei loro conflitti si consideravano tutti reciprocamente iusti hostes, perché era uno spazio delimitato, regolato, razionale, dove anche i conflitti erano soggetti al rispetto di regole, perché all’interno di quello spazio non poteva più esserci la guerra “giusta” che aveva legittimato le peggiori nefandezze nelle epoche precedenti durante le guerre di religione. Ma ovviamente all’esterno di quello spazio tornava a essere legittima la guerra giusta. Lì fuori erano gli spazi di cui appropriarsi, su cui tracciare nuove linee. Era dunque uno spazio agonale, perché delimitava un campo di lotta, un agone extraeuropeo nel quale potevano essere confinate le lotte per la spartizione del mondo. Oltre le linee di amicizia finiva l’Europa e cominciava il “nuovo mondo”. Qui cessava il diritto europeo e qui aveva fine dunque anche la regolazione della guerra operata dal diritto internazionale, così che la lotta per la conquista territoriale diventava sfrenata.

L’imperialismo della globalizzazione

Ciò che conta per il tempo presente è che questo nomos entra in crisi con l’avanzata della linea dell’emisfero occidentale, dove qui l’Occidente viene a identificarsi con gli Stati Uniti. La linea dell’emisfero occidentale si è progressivamente spostata fino a sbattere contro la Russia: in 30 anni si è spostata di circa 1500 Km, da Berlino a Tallin. L’attività occidentale di basing con cui gli Americani hanno popolato l’Europa e le steppe dell’Asia centrale di basi militari non è nient’altro che appropriazione di spazi (politici, economici, tecnologici, marittimi, culturali). Quella che abbiamo chiamato globalizzazione si è rivelata la forma più completa dell’imperialismo, «quella che consiste nel tentativo di una determinata società di universalizzare la propria particolarità, istituendola tacitamente a modello universale» [Bourdieu, 67]. É invece sempre più apertamente contestata dai grandi Paesi non occidentali emergenti la tradizionale pretesa dell’Occidente di parlare a nome dell’intera comunità internazionale, dettando i criteri di valutazione politica, economica e culturale che valgono poi a decidere le appartenenze ai «grandi spazi». Con il crollo dell’Unione Sovietica si è preteso costruire una morale globale senza politica, senza spazi: ci sarebbe un unico “dentro” e chi non ci sta è un criminale. Gli epiteti con cui è stato additato il nemico rivelano la sua totale insensatezza, la sua radicale disumanità: non è un nemico, un justus hostis, contro cui si fa una guerra, ma è un criminale che deve essere portato davanti ai tribunali internazionali che applicano un diritto globale che non ha più una legittimazione statale, ma che è a presidio dell’intera umanità.

Il mondo non è uno, ma plurale

La fine della guerra fredda, con la fine della struttura duale del mondo, è stata la grande occasione dell’universalismo: affermazione dei diritti umani, progettazione di ordini mondiali non più Stato-centrici, trasformazione dell’ONU da struttura di Stati in istanza d’intervento ubiquitario a proteggere le popolazioni minacciate da tiranni, giuridificazione della politica internazionale e della guerra, divenuta crimine attuato da individui di cui si può esigere la traduzione davanti a corti internazionali: «Ma questo intreccio di diritto internazionale e diritti umani a forte connotazione morale, questo globalismo giuridico, questo universalismo, non sanno fare i conti col fatto che il mondo non è uno, ma plurale; e di conseguenza i dispositivi universalistici non sono neutri, ma politicamente orientati; la pace ha i propri “signori”, che esibiscono il proprio potere e il proprio diritto di giudicare e punire, praticando la “guerra umanitaria”, la guerra unilateralmente giusta, e istituendo Tribunali penali internazionali» [Galli, 249].

Il tramonto definitivo dello ius publicum europeum

La guerra in Ucraina rimette senz’altro l’Europa al centro delle tensioni e dei calcoli strategici dei principali attori; ma lo fa in un contesto nel quale è evidente a tutti – a cominciare dai protagonisti diretti e indiretti della guerra – che il baricentro politico, economico e strategico del sistema internazionale si sta spostando altrove. Anzi, non possiamo illuderci: se la guerra militare è sintomo di perifericità, se non addirittura il marchio della propria perifericità, ci sarebbe da chiedersi se la spaventosa guerra in Ucraina non sia l’ultimo sintomo della destituzione dell’Europa da centro del mondo e del tramonto definitivo dello jus publicum europaeum.

Squarciato il velo dell’ipocrisia abbiamo realizzato che non esiste l’universalismo, che il globo non è un unico spazio liscio, che esistono diversi universalismi che sono in conflitto e che la giuridicizzazione della guerra è una sottile e fragile maschera che nasconde il dato tragico che la politica non può fare a meno della guerra, e che questa, quindi, «non è un’interruzione del logos ma ne è l’origine e non solo lo strumento; o almeno ne è l’ombra; e che lo sforzo immane della ragione, volta a normalizzarla, non può del tutto rischiarare, perché è un’ombra che la ragione ha in sé originariamente» [Galli, 209-210].

La violenza dell’uomo è originaria. Freud lo ripete a più riprese: «coloro che preferiscono le fiabe sono sordi quando si parla loro della tendenza nativa dell’uomo alla “cattiveria”, all’aggressione, alla distruzione, e quindi anche alla crudeltà». E ancora: «La storia primordiale dell’umanità è piena di assassinii. Ancor oggi quella che i nostri figli imparano a scuola come storia universale non è in realtà altro che una lunga serie di uccisioni fra i popoli» [Freud, 140]. La storia dell’uomo non può essere separata secondo Freud dalla storia della violenza dell’uomo contro l’uomo: «anche noi, considerati in base ai nostri moti di desiderio, altro non siamo, come gli uomini primordiali, che una masnada di assassini» (Freud, 145).

Non resta che prendere atto che la guerra c’è davvero, e c’è nel cuore dell’Europa: dobbiamo concludere che il vecchio continente è diventato lo spazio periferico dove è possibile fare caccia grossa?

Testi di riferimento

Bourdieu, Controfuochi 2: per un nuovo movimento europeo, Manifestolibri, Roma, 2001.

Freud, Il nostro modo di considerare la morte, in Id., Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte (1915), in Id., Opere, vol. VIII, a cura di C. L. Musatti, Bollati Boringhieri, Torino, 1980.

Galli, Guerra, politica, nemico, in Id., Forme della critica. Saggi di filosofia politica, Il Mulino, Bologna, 2020.

Schmitt, Il Nomos della Terra nel diritto internazionale dello «Jus Publicum Europaeum» (1950), Adelphi, Milano, 1991.

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