IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

L’Italia tra assillo della crescita e stagnazione secolare

La lotta contro il declino richiede la creazione di forme di vita più alte e più civili destinate ad articolare la nozione di ricchezza ben al di là degli standard interpretativi ai quali si attiene oggi il senso comune dell’economia.

Negli ultimi decenni, ma soprattutto dopo il 2000, l’economia del nostro paese ha fatto registrare tassi di crescita nettamente inferiori a quelli delle altre economie avanzate. Indubbiamente, questa circostanza costituisce soltanto uno degli aspetti del ‘declino italiano’; né il fatto di metterla subito in evidenza vuole suggerire l’idea che si tratti di quello più importante. A essa, tuttavia, si connette un peculiare motivo di difficoltà, del quale, in effetti, mi sento di affermare che costituisce un aspetto cruciale, di prima grandezza, della situazione nella quale siamo chiamati a muoverci. In questo contributo proverò appunto a dire di quale difficoltà si tratti, mentre il tentativo di fornire qualche idea al fine di venirne a capo è rinviato a prossimi interventi. Dunque, per ora, soltanto la ‘messa in forma’ di un problema, che tuttavia mi sembra già qualcosa – tra l’altro, proprio al fine di proteggere il discorso circa il declino italiano da approcci riduttivi, più o meno venati di economicismo.

Liberarsi dell’assillo della crescita, in Italia e altrove…

In breve, il fatto è che la debolezza della crescita fatta registrare dal nostro paese rende particolarmente difficile l’operazione di liberarsi dall’assillo della crescita che con tanta nettezza, in generale, in Italia e altrove, contraddistingue il modo prevalente di guardare ai fatti dell’economia – mentre è proprio di questa operazione che massimamente, oggi, vi è bisogno. Con il risvolto, anche, che qualsiasi strategia di contrasto del declino deve innanzi tutto scansare il modo nel quale l’argomento si presenta quasi di default – appunto la necessità di tornare a crescere, di crescere di più, non revocata in dubbio, semmai confermata, da quanti rivendicano al tempo stesso un ‘nuovo modello di sviluppo’ (formula dura da ascoltare, per quante volte è stata ripetuta).

Disastro ecologico e decrescita

In effetti, da tempo, la crescita fa problema ben oltre le vicende del nostro paese. Il di-scorso pubblico sull’economia continua a essere dominato dall’istanza del suo perseguimento, ma al tempo stesso colpisce la quantità di argomenti che ormai si sono accumulati sul filo della necessità di valutare quanto il suo perseguimento sia plausi-bile – vuoi in chiave normativa, di desiderabilità, vuoi in chiave di fattibilità.
Probabilmente, in questo ordine di idee, il dato più evidente è la straordinaria tenacia del nesso tra gli aumenti del Pil globale e il disastro ecologico in corso ormai da mezzo secolo, ormai riconosciuta apertis verbis anche dall’IPCC, al punto che il suo ultimo rapporto, sia pure qua e là, timidamente, prende in considerazione la possibile ragionevolezza di una qualche misura di decrescita. Tornerò sull’argomento, la cui importanza, però, non deve indurre a ritenere che sia l’unico. Così, almeno un cenno merita la vastissima letteratura, ormai risalente, dedicata ai molti altri limiti di significatività che il ‘linguaggio’ del Pil fa registrare al di là delle esternalità negative di tipo ambientale (per altro meglio concettualizzate come violazione dei planetary boundaries). Come pure è il caso di citare la corposa letteratura che verte sul giro di problemi restituito dall’immagine del tapis roulant, vale a dire la separazione, che oltre un certo limite viene a consumarsi, tra aumenti del reddito e aumenti di ‘soddisfazione’. Si corre per conseguire i primi, per ipotesi ci si riesce, ma non si avanza di un passo quanto alla seconda – e per la verità neppure quanto a variabili più ‘oggettive’, collocate nello spazio dei ‘funzionamenti’, per esempio lo stato di salute. Naturalmente, resta vero che se uno ha la disgrazia di vivere su un tapis roulant, e smette di correre, le cose vanno anche peggio…

Stagnazione secolare incombente?

A tutto ciò, nell’ultimo decennio, si è aggiunto un certo numero di analisi accomunate dall’idea che le economie dei paesi ricchi devono oggi fare i conti con la prospettiva di un’incombente o già iniziata secular stagnation. Questa volta, dunque, giudizi di tipo ‘positivo’, lontani dal tenore variamente ‘critico’ delle letterature che prece-dono: qualunque cosa pensiamo della crescita, ci piaccia o no, vi sono buoni motivi per aspettarci che di fatto ce ne sarà di meno, e/o che sarà associata a fenomeni di in-stabilità finanziaria sempre più vistosi (secondo un trend già manifesto negli ultimi decenni). Come pure degno di nota è il fatto che giudizi del genere non sono appannaggio esclusivo di autori più o meno eterodossi, sempre propensi a pensar male, ma circolano anche, con una certa larghezza, all’interno del pensiero economico ‘ufficiale’ – almeno da quando Larry Summers, già capo economista della World Bank e Segretario al Tesoro degli Stati Uniti, nonché rettore di Harvard, ha rispolverato la locuzione e il concetto in un discorso tenuto otto anni fa presso il Fondo monetario internazionale.
Nel dibattito che è seguito, ha preso piede la tendenza a distribuire le posizioni dei partecipanti su due versanti, a seconda che la prospettiva sia ricondotta a fattori operanti dal lato della domanda ovvero dell’offerta. Forse, la distinzione si è irrigidita oltre il dovuto, ma naturalmente non è questa la sede per tentare una valutazione ponderata di tutti gli argomenti in campo. Molto brevemente, quindi, mi limiterò a dire le indicazioni essenziali che, per parte mia, ricavo dal dibattito.

(a) Il problema non riguarda la distanza tra l’output effettivo e l’output potenziale dell’economia (come nel contributo di Summers). E neppure, pertanto, riguarda l’impossibilità che il tasso d’interesse, dato il suo lower bound, scenda fino al punto di ottenere che i due aggregati vengano a coincidere (via crescita della domanda di beni capitale). Tra l’altro, un approccio del genere implica l’adesione al quadro analitico incentrato sull’idea dei loneable funds – vale a dire sulla domanda/offerta di fondi a prestito, frutto delle scelte di risparmio compiute dalle famiglie e dalle imprese, con le banche a fare soltanto da ‘intermediari’ – che veramente si vorrebbe vedere messa da parte.

(b) Il problema, come tra gli altri lo intende Gordon, riguarda proprio il potenziale di crescita dell’economia – pur sempre misurato nello ‘spazio’ dei beni e dei servizi il cui flusso forma l’aggregato noto come Prodotto interno lordo (dunque in termini monetari).

(c) Tre sono i fattori che più al fondo giustificano l’idea che oggi, dal potenziale di crescita dell’economia, misurato come detto, ci si debba aspettare (si debba pretendere) meno che in passato.

(c.1) Il peso crescente, nella composizione settoriale delle attività produttive, di ambiti variamente affetti dal “benefico morbo dei costi” che Baumol ha scoperto oltre cinquant’anni fa, vale a dire l’incidenza di attività contraddistinte da condizioni intrinsecamente avverse alla sostituzione del lavoro vivo con quantità crescenti di tecnologie. Con il risultato, per quanto le riguarda, di un livello di produttività pressoché stabile, o comunque destinato ad aumentare con lentezza – che d’altra parte, proprio per-ché necessariamente tale, non ha niente a che vedere con dati di inefficienza, arretratezza o simili.

(c.2) Al capo opposto dello spettro merceologico, alcuni tratti salienti dell’innovazione tecnologica di stampo digitale, il cui contributo alla crescita della produttività – come testimoniato per tempo dal Solow Paradox – è molto meno pacifico di quanto ci si potrebbe attendere. Delle controversie che ne sono derivate, a me sembra, si può venire a capo osservando che le innovazioni di stampo digitale hanno determinato una specie di disaccoppiamento tra l’entità delle trasformazioni materiali, vistosissime, e la consistenza delle stesse in termini economici (di nuovo il dato leggi-bile nel Pil). Certamente va in questa direzione la diminuzione dei coefficienti di capitale fisso (di due o tre ordini di grandezza) segnalata dallo stesso Summers; ma anche l’enorme quantità di servizi forniti a prezzo zero, perché tale è il loro costo marginale, torna a dire che macroscopici cambiamenti sul piano delle ‘cose’ – dei prodotti, dei consumi, dei comportamenti –non trovano riscontro in analoghe evidenze sul piano delle grandezze monetarie chiamate a ‘crescere’. Il che, conviene aggiungere, è ben lungi dal costituire soltanto un problema statistico, di nuovo di significatività dei sistemi di contabilità nazione, visto che dalle grandezze di cui si fa questione dipendono per intero i redditi distribuiti dal sistema.

(c.3) Il rincaro dell’energia in termini assoluti e reali, vale a dire il venir meno di fonti contraddistinte da alti o altissimi ritorni di energia per ogni unità di energia impiegata. Nel caso dei fossili si è passati da rapporti intorno a 1:30 a rapporti intorno a 1:10: e le fonti rinnovabili, in genere, sono contraddistinte da valori ancora più bassi.

(d) L’enorme aumento delle diseguaglianze e la parossistica espansione dei mercati finanziari. Di entrambi i fenomeni, del resto collegati, va detto che certamente sono nemici della crescita e che la loro entità deve molto a scelte politiche più o meno consapevoli. Ma è importante aggiungere che queste ultime sono intervenute, amplificandole, su cause già operanti nella configurazione di base che l’economia ha assunto all’uscita dalla Golden Age (i precedenti punti c.1 e c.2, altri ancora), e che larga parte dei conseguenti danni ‘aggiuntivi’ va imputata all’ostinato “perseguimento della crescita a tutti i costi, anche in presenza di fondamentali ostili” (T. Jackson), che in esse, pure, è leggibile.

Un caso italiano? Meglio ragionare di nuova normalità

Indubbiamente, tutto ciò va molto al di là del caso italiano (casomai, la parte ‘positiva’ lascia trasparire un certo debito nei confronti dei dati americani). Ma proprio la generalità degli argomenti presi in considerazione contiene il punto che soprattutto importa aver presente nella riflessione circa il modo di affrontare il declino che il nostro paese vive da trent’anni. Se mai ha avuto senso ragionare nei termini di un qual-che standard occidentale, del quale possibilmente mettersi all’altezza, nulla del genere, nell’ordine dei problemi che stiamo discutendo, appare oggi proponibile. Oggi, per quanto riguarda la crescita, la realtà economica dei paesi ricchi e le teorie che cerca-no di leggerla non offrono alcun punto riferimento che possa (o debba) essere considerato alla stregua di un benchmark al quale cercare di adeguarsi. Piuttosto, in mate-ria di crescita (di variazioni del Pil), tutto invita a ragionare nei termini della ricerca di un new normal – come tutto, fin dall’inizio, invita a concepirlo nel segno di una elevata dose di ‘riflessività’, in tutti i sensi che il termine può assumere. E dunque sarà bene che anche il discorso circa il contrasto del declino italiano partecipi di questo processo ‘esplorativo’, se pure non deve ridursi alla rincorsa di un quadro già trascorso nei fatti e nelle idee, sebbene durissimo a morire nell’ideologia e nella percezione consolidata degli interessi da difendere.
Purtroppo, nel nostro caso, il prodotto di due negazioni non è un dato positivo: sebbene vi siano moltissimi motivi per criticare l’assillo della crescita, una crescita mancata non è affatto cosa della quale potersi rallegrare. Un conto è immaginare un new normal, un altro è tenersi a quello vecchio e non riuscire a renderlo operante. Per-ciò, veramente, ha senso parlare di ‘declino’ – e perciò, in effetti, bisogna dire che la situazione nella quale siamo chiamati a muoverci risulta due volte disdicevole. Tuttavia, sebbene i motivi di ritardo accumulati negli ultimi decenni rendano alquanto scomoda l’operazione di immaginare una novità cospicua, e avanzata, legata alla maturità dei tempi in cui viviamo, il tentativo di delinearla non sembra rinunciabile. Dunque, per concludere, proviamo a dirne qualche cosa in più.

La follia di una crescita esponenziale del 3% annuo

La ‘norma’ che ancora oggi domina la scena (si veda per esempio la valanga di modelli recensita dal già citato rapporto IPCC) è quella di una crescita esponenziale in-torno al 3% all’anno, a tempo indeterminato. Un diverso livello di riflessività significa innanzi tutto il riconoscimento della “follia”, per citare Boulding, di un’assunzione del genere: qui non è possibile, ma basterebbe fare mente locale sull’esatto significato dell’ipotesi per rendersi conto di quanto sia insensata. In effetti, la sua configurazione sembra contenere un motivo di impossibilità intrinseca, per qualche verso dicibile a priori, che il corso storico, da qualche tempo, si è preso il disturbo di rendere evidente. Né si tratta soltanto dell’inevitabile pressione sui planetary boundaries che lo stesso Boulding aveva in mente: la figura di una crescita esponenziale, presa sul serio, possiede al tempo stesso una schietta pregnanza antropologica, che si potrebbe rintracciare in tutti i percorsi, normativi e positivi, ai quali ho fatto cenno.
Il suddetto 3% è appunto la quantificazione di quello che ho chiamato l’assillo della crescita – il cui abbandono può mettere capo a esisti diversi. Non necessariamente, in particolare, a una vera e propria decrescita, cioè a una riduzione del flusso di beni e di servizi che chiamiamo Pil: altrettanto bene, in termini concettuali, si può immaginare una crescita di tipo lineare, oppure una situazione di ‘stato stazionario’, come quella alla quale andavano i favori di John Stuart Mill. Tutte e tre queste possibilità differiscono da una crescita di tipo esponenziale a tempo indeterminato – dalla “potenza dell’interesse composto”, come la chiamava Keynes – con sufficiente nettezza affinché la preferibilità dell’una o dell’altra non sia affatto cosa ovvia.
Naturalmente, tanta indeterminatezza è accettabile soltanto provvisoriamente, in attesa di passi avanti, che infatti sono l’obiettivo di un programma di ricerca nel qua-le sono impegnato presso il CRS. Ma l’argomento, anche così, non è del tutto privo di mordente. In primis, il fatto stesso che il saggio di variazione dell’attività produttiva diventi materia disponibile al vaglio della critica significa niente di meno che lasciarsi alle spalle la logica dell’economia capitalistica, da sempre consegnata al dovere di massimizzarlo; in secondo luogo, si sposi o meno l’idea della decrescita, è comunque vero che si tratta di mettere in conto valori molto inferiori alla norma che oggi vige nei modelli. E se proprio dovessi indicare quale sia l’ipotesi alla quale, in questo momento, mi sento più vicino, proporrei l’idea di uno stato quasi-stazionario – nel quale tuttavia, come dirò, avvengono continui cambiamenti.

Ci sono più cose in cielo e in terra…

Adesso, però, il punto più importante è la possibilità che l’assillo della crescita sia messo da parte all’esito di una scelta schiettamente positiva (dunque qualcosa di di-verso da un passaggio obbligato), cioè nei termini di un avanzamento rispetto al quadro dominato dalla necessità di espandere le attività comprese nel Prodotto interno lordo – ché soltanto a questa condizione, ragionevolmente, la diversa normalità che si ha di mira può essere collegata all’istanza di capovolgere il dato di un declino. In proposito, allora, dirò che l’essenziale sta in tutto ciò che di diverso dalla crescita del Pil può prendere fiato una volta che quest’ultima cessi di dominare il quadro – sul presupposto che veramente “ci sono più cose in cielo e in terra /di quante essa ne possa sognare nella sua filosofia”. E siccome l’unico modo di rendere credibile un’affermazione del genere è quello di nominare ciò di cui si tratta, ecco un primo tentativo di ricognizione, inteso a mettere insieme dati di realtà e determinazioni concettuali sufficienti a dar conto di quanto articolate e cospicue siano le “manifestazioni di vita umana” (Marx) non traducibili nel linguaggio della ‘crescita’ che abbiamo motivo di desiderare:

– la cura del Sé, la formazione delle intelligenze e delle sensibilità, la partecipazione in proprio al mondo del sapere, altro ancora di analogo tenore ‘educativo’;
– le relazioni e le attività di mondo vitale, affidate alle irripetibili identità personali dei partecipanti;
– il godimento e la cura comune dei beni comuni, naturali e non;
– la tocquevilliana “arte di associarsi”, ovvero facoltà di agency messe a frutto in chiave di reciprocità;
– la libertà dell’Esprit du don, modernamente inteso, che soffia dove vuole;
– la partecipazione ‘discorsiva’ alle scelte collettive, alla vita pubblica, che veramente andrebbe messa per prima, come una specie di operatore logico, chiamato a intervenire su tutti gli ‘argomenti’ che precedono.

Propongo di includere la possibilità di queste esperienze nell’idea di una ‘vita buona’, o forse meglio, nell’idea di una “forma di vita propriamente umana”, così come siamo in grado di concepirla all’altezza delle attuali condizioni storiche. E però, anche a scanso di equivoci, conviene commentarle come segue.

(a) La loro estraneità all’universo dei beni e dei servizi che formano il Pil non significa che questi ultimi non abbiano niente a che fare con il tipo di vita che vogliamo (poter) vivere. L’assillo della crescita assolutizza le pretese della ricchezza che si misura in forma monetaria – ma la sua assolutizzazione può essere criticata riconoscendo al tempo stesso che tuttavia non è affatto priva di ragioni, parziali finché si vuole, ma non per questo uguali a zero.

(b) Ancora, la loro collocazione oltre il perimetro del Pil non significa che si tratti di puri e semplici ‘gesti dello spirito’, tanto liberi da risultare infine evanescenti. Piuttosto, delle manifestazioni di vita umana appena entrate nel discorso, va detto che anch’esse, non diversamente dalle attività che concorrono alla formazione del Pil, implicano tempo dedicato, energie, risorse personali, attenzione, ecc., nonché attese di reciprocità, strutture, forme organizzate, ecc.

(c) La possibilità che esse ‘prendano fiato’ riposa sull’ipotesi che gli aumenti di efficienza messi a segno nel conseguimento di ogni unità di Pil siano appunto destinati a ‘fare spazio’ allo svolgimento delle attività che le concretano. Il che, va detto, ricorda molto da vicino la nozione di stato stazionario che si legge in Mill (ma Marx e Keynes ragionavano più o meno nello stesso modo). Nella situazione immaginata, “the industrial arts might be as earnestly and successfully cultivated”, e perciò, come anticipato, cambiamenti sono continuamente all’ordine del giorno. Soltanto, il fine non è quello di ottenere maggiori quantità dello stesso genere di cose (maggiori unità di Pil), bensì di liberare tempo ed energie a vantaggio di disposizioni, capacità e attitudini manifestate nel quadro di altri tipi di rapporto (diversi da quelli che presiedono alla formazione del Prodotto interno lordo).

(d) Allo stesso modo, sotto l’ipotesi di un Pil quasi-stazionario, si può immaginare che “the industrial arts” possano conseguire guadagni di efficienza sufficienti affinché le attività produttive e di consumo assorbano quantità via via minori di energia e materia, fino al punto di diventare coerenti con il rispetto dei planetary boundaries. Appena più in particolare, l’ipotesi è che un Pil quasi-stazionario nei paesi ricchi con-senta di ridurre la pressione sui planetary boundaries in misura sufficiente affinché il Pil dei paesi poveri possa crescere nella misura di cui vi è bisogno. Se così non fosse, bi-sognerebbe concludere che quello dei paesi ricchi non deve mancare di decrescere (salvo dire in che modo e in che misura, e per quanto tempo).

Nuovi obiettivi di civiltà

Di nuovo ci siamo molto allontanati dal caso italiano. Nella migliore delle ipotesi, le cose appena dette possono fornire soltanto una cornice – alcune coordinate da tenere presenti nel tentativo di immaginare una strategia di rimonta sul declino degli ultimi decenni. Però, direi, una cornice pertinente, dalla quale il carattere e il contenuto del-la strategia verrebbero a dipendere in modo sostanziale. Intanto, ripetiamolo, nel senso di evitare la fallacia del riferimento a una ‘normalità’ di stampo occidentale-medio, della quale bisognerebbe mettersi all’altezza; e poi, soprattutto, in chiave positiva, nel senso di concepire il contrasto del declino nei termini del conseguimento di nuovi obiettivi di civiltà, leggibili come in controluce, a me pare, nel repertorio delle manifestazioni di vita umana che ho cercato di delineare. Così, per citare un autore italianissimo, lo ‘spazio’ della lotta contro il declino sarebbe proprio quello della “creazione di forme di vita più alte e più civili” – tutt’altro che disincarnate, prive di corposità ‘economica’ (cfr. commento (b)), ma destinate ad articolare la nozione di ‘ricchezza’ molto al di là degli standard interpretativi ai quali il senso comune dell’economia si attiene oggi in tutti i suoi risvolti.
Il resto riguarda gli ‘istituti’ e le ‘misure’ in grado di dar corpo a una prospettiva del genere: i loro tratti essenziali, simili sotto ogni cielo, e le particolari difficoltà che i deficit accumulati dal nostro paese frappongono alla loro messa in opera. Ma questa, come accennato, sarà materia di altri contributi.

Stampa o salva l’articolo in Pdf

Newsletter

Privacy *

Ultimi articoli pubblicati