IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Lo sguardo di Putin

Nel mirino l'accerchiamento calamitoso dell'Occidente: «Il collasso dell’Unione Sovietica è stato il maggiore disastro geopolitico del XX secolo». Ma «abbiamo saputo risollevarci», individuando nuovi vettori di sviluppo nella salvaguardia dei valori autenticamente russi».

Smarrimenti e incertezze
Sprofondiamo ormai da tempo. A precipizio, sia pure con attriti assai urticanti. Ancora impossibile valutare profondità e ampiezza della voragine aperta dell’89 e dai suoi vari post, con le loro scansioni del nostro ingresso nel Terzo Millennio. Né va meglio con l’esame puntuale di cause e antecedenti. Anche quando scevri da ogni malaccorta e sia pure inevitabile nostalgia per il «bel tempo andato»: «quando partiti e sindacati erano vivi …, un tempo ci si muoveva nelle sicure geografie di destra e sinistra. …. ecc ecc».
Arranchiamo a comprendere soprattutto se e come riusciremo a tradurre in soggettività politica, più o meno organizzata, l’immensa socialità profusa a piene mani nell’inesausta artificializzazione del mondo che ci circonda. L’abbiamo dissolto nei bit di una comunicazione infinita e negli atomi di un post-umano in perpetua interrogazione dell’ignoto. Ma lungi dal librarci nella libertà sconfinata promessa dal neoliberismo, corriamo verso una catastrofe ambientale, quando non finiamo prigionieri di inedite e mortificanti tribalizzazioni. Sono il frutto di una socialità eccitata da una individualizzazione senza freni, che puntualmente ci condanna al ruolo di apprendisti stregoni, vittime predestinate delle proprie macchinazioni. Quando la giostra si acqueta, puntuali e forzute si fanno avanti formule antiche, coriacee, con la loro offerta di ancoraggi sicuri alla mobilità e all’insicurezza picare e zingaresche delle reti: familismo, nazionalismo, sovranismo tutte dotate di solidi scettri, con autorità riconosciute, paternità onnipotenti.
Arranchiamo ancor più dal 24 febbraio, presi dal vortice di una «terza guerra mondiale». Al pari delle altre due, iniziata come «guerra civile europea». Come tale concepita e annunciata da Putin: una «operazione militare speciale» in un pezzo di mondo, l’Ucraina, che «è una parte inalienabile della nostra storia, cultura e spazio spirituale … i nostri compagni, le persone a noi più care – non solo colleghi, amici e persone che hanno servito insieme, ma anche parenti, persone legate dal sangue, dai legami familiari». Il tutto promettendo, a chi volesse opporsi, «conseguenze che non avete mai visto nella storia». E per non lasciar dubbi: «Siamo pronti per qualsiasi scenario. Tutte le decisioni necessarie al riguardo sono state prese, spero di essere ascoltato».
L’«impensabile» – l’«unthinkable» di Herman Khan, lo stratega della Rand Corporation immortalato come «Stranamore» da Stanley Kubrik – è tra noi. È divenuto incubo quotidiano, titolo di testa d’ogni giornale o annuncio televisivo. Radicato in uno scenario altro da quelli che hanno contornato le due catastrofi del XX secolo. Ora ci muoviamo in una geografia terremotata dall’innovazione radicale annunciata nel 1990 dall’allora segretario di Stato americano, James A. Baker III: «gli USA sono e resteranno una potenza europea». L’impegno, l’hanno mantenuto: nella Bosnia e nel Kosovo, sulla spinta innanzitutto delle divisioni e dell’ignavia europee. Su quelle onde hanno poi consolidato il loro ruolo di colonna portante dell’ordine continentale, saldi alla guida di una Nato divenuta faro e calamita nella disgregazione complessiva dell’Est europeo. Come dimenticare la discussione e lo scandalo suscitati nel 2003 dalle due contrapposte etichette apposte da Donald Rumsfeld alla Old Europe – Francia e Germania, soprattutto, dubbiose sulla proclamata «guerra al terrorismo» e sull’avveniente avventura irachena – e alla New Europe: l’ampio stuolo di paesi, nuovi membri o candidati, ansiosi di contribuire all’allargamento della Nato?
È al cuore di questa Europa che Putin mira quando scatena il maglio dell’aggressione all’Ucraina. Nel mirino l’accerchiamento calamitoso esercitato dall’Occidente, ad un tornante della storia in cui s’affollano liste e pressioni dei nuovi attori globali. Le parole impiegate negli annunci di guerra sono chiare: «Mentre la NATO si espande a est la situazione per il nostro Paese peggiora sempre di più, diventando pericolosa … Questa presenza a est sta nutrendo nei territori storicamente affini alla Russia un sentimento di ostilità verso la nostra Patria. Si tratta di territori posti sotto il pieno controllo esterno fortemente plasmato dalle forze della NATO. Questa situazione porta la Russia di fronte un bivio: vita o morte? Da questa decisione dipende il nostro futuro, come Stato e come persone … C’è in gioco la sovranità della Russia. La linea rossa, citata diverse volte, è stata superata. Loro l’hanno superata». Il tutto condito da ricostruzioni circa la capacità ucraina di padroneggiare l’energia nucleare, appresa in età sovietica, e di poterla ora riattivare con l’aiuto atlantico: «Se l’Ucraina ha un’arma di distruzione di massa, la situazione nel mondo cambierà drasticamente, soprattutto per noi» (così l’annuncio in tv dell’attacco all’Ucraina il 24 febbraio).
Lo scenario disegnato a teatro della decisione fatale è ultimativo e senza scappatoie. Vale la pena allora di provare a fermarsi un istante per comprendere meglio i timori che lo sommuovono e i disegni che se ne dipartono. Almeno per provare a non perdere orientamento e speranza.

Affreschi istituzionali e tentazioni geopolitiche
Doveva terminare la storia in quel fatale 1989 o magari distendersi in una lunga, interminabile stagione neoliberale. E invece hanno preso avvio scossoni e terremoti che hanno reso assai accidentato il passaggio al XXI secolo: Guerra del Golfo, fine dell’URSS, disintegrazione jugoslava, Bosnia, Kosovo. L’11 settembre ha poi fatto da porta ad un Terzo Millennio che non ci ha risparmiato né crisi finanziarie sconvolgenti né guerre: da quella impossibile «al terrorismo», alla seconda interminabile in Afghanistan, alla seconda guerra del Golfo nel 2003, per passare poi a Libia, Siria, o ai vari conflitti civili o variamente colorati su e giù per il globo, soprattutto a Sud. Fino ai tragici, ripetuti annunci di Papa Francesco «sulla Terza Guerra Mondiale a pezzetti».
Dall’89 ad oggi l’intero nostro presente è di fatto mappato, contornato da guerre: raramente con timbro ONU. Tutte con le loro etichette epocali, con i loro ossimori. Due tra tutte: «guerra umanitaria», «guerra al terrorismo». Sempre e solo «guerre celesti», quasi sempre a guida o conduzione «a stelle e strisce». Tutte ossessionate e istruite dall’esperienza vietnamita, dalla sconfitta e dalle perdite dolorosissime lì rimediate, e in parte da quella vista – e in un qualche modo sobillata – nell’Afghanistan invaso dall’URSS. Unico il comandamento messo a frutto: condurre possibilmente il tutto a distanza di sicurezza: ‘celestiale’, persino. E nelle forme più rapide: magari per ripristinare diritti nella paradossale negazione di quello fondamentale alla vita. Il tutto per risparmiare perdite e dolori al proprio campo. Tragiche illusioni pagate a carissimo prezzo. Basti pensare all’Afghanistan, il conflitto durato più a lungo nella storia USA. Soprattutto basta riflettere sul riflesso, sul rinculo domestico di quelle guerre: amplificazione e incrudelimento della «guerra civile», di quelle «cultural war» che da decenni – almeno dalla stagione della lotta per i diritti civili – scuotono e polarizzano la società americana; accentuazione ovunque del senso di smarrimento e insicurezza, corsa al rifugio – illusorio e impotente, il più delle volte – di nazionalismi e sovranismi.
Meno nota – magari appena evocata ma relegata in un angolo – la mappa delle guerre che hanno scandito la metamorfosi sovietico-russa e, soprattutto, l’ascesa di Vladimir Putin. L’elenco è noto: due interventi in Cecenia, fino al 2009, poi l’impegno in Georgia, con il riconoscimento come entità indipendenti di Abkazia e Ossezia del Sud (applicando il modello occidentale del Kosovo, gestito anche dalla Russia con la com-partecipazione alla Kosovo Force), l’intervento in Crimea (applicato richiamandosi all’intervento americano in Iraq), quello in Siria e infine in Kazakhistan. Il tutto giustificato dalla necessità di garantire la tenuta del tutto, spesso costellato dall’intervento di servizi e forze di sicurezza in emergenze non sempre limpide e comunque indirizzato – soprattutto nei primi anni Duemila – alla costruzione di una salda leadership di governo. Sono quelli gli anni più bui della presidenza eltsiniana e della devastazione oligarchica del paese.
Con perseverante applicazione la guerra è stata costantemente impugnata a strumento principe per preservare e conservare l’intero. Ma anche – e soprattutto – a colonna portante di una riscrittura dall’alto delle regole di convivenza in un organismo complesso sottoposto a tensioni inaudite, paventate ai primi passi della neonata CSI come dissoluzione imminente. La frammistione continua tra guerra e separatismi – ora avversati, si pensi alla Cecenia; ora promossi, Abkazia e Ossezia o più recentemente Crimea o Donetsk e Lugansk – di fatto si è affermata come elemento cardine di quella costruzione della «democrazia sovrana» o «democrazia gestita», secondo la traduzione di Timothy Snyder, che costituisce l’elemento distintivo del putinismo: una riscrittura sistemica delle regole istituzionali che dall’alto ha irregimentato la dialettica sociale e ridisegnato convenienze e opportunità del sistema economico. L’anarchia di oligarchie, il più delle volte a formazione e struttura regionali, dedite al saccheggio delle risorse e del patrimonio pubblico è stata lentamente ma decisamente destrutturata, per riorientarla nella decisa affermazione di una cleptocrazia istituzionalizzata a vari livelli, contigua allo Stato. Il tutto per effetto di uno scontro formidabile sostenuto in forme molteplici tra gli oligarchi dell’epoca eltsiniana, variamente legati spesso a organizzazioni criminali, e la classe dei “siloviki”, uomini d’apparato, spesso provenienti dai servizi o in senso lato da settori della sicurezza statale, ricollocati nei gangli fondamentali dell’amministrazione pubblica, deputata istituzionalmente alla ristrutturazione di ampi settori produttivi: riorganizzazione generale, fortemente centralizzata, di finanza, industria estrattiva e pesante, media, produzione di armi ecc.
La riconquista di una certa stabilità istituzionale è divenuta perciò la chiave per una parziale ricucitura sociale che ha permesso – sia pure nella parossistica esaltazione di straordinarie diseguaglianze sociali – la diffusione e lo sviluppo di un consumismo vagamente orientato a modelli occidentali, fondativo di ampie fasce di ceto medio. Il balzo delle quotazioni del petrolio (da 35 dollari per barile fino a 150) proprio all’alba della prima presidenza Putin fu manna dal cielo. Nel frattempo si iniziava a rimodellare ampiamente dall’alto l’armatura istituzionale, costruendo la cosiddetta «verticale del potere»: revisione della legge elettorale con innalzamento della soglia di sbarramento, riorganizzazione a maglie larghe del sistema federale e dei vari governatorati, ora di nomina presidenziale, sottomissione al parere del presidente dell’intero percorso legislativo, rivisitazione del sistema politico, con la tappa fondamentale della fondazione del partito putiniano «Russia Unita». A vari livelli si iniziava a picconare decisamente il sistema di formazione delle oligarchie regionali, riportando sotto il controllo centrale gangli fondamentali della vita pubblica e della regolazione politico-economica.
Sono anni in cui le essenziali cure di governo – spesso militari – sono tutte rivolte all’interno, finalizzate alla conquista di stabilità e sviluppo. In politica estera si afferma una linea attendista. Non vengono sottaciuti appunti e critiche al modo in cui la dissoluzione del vecchio blocco di Varsavia e di parti dell’ex URSS lentamente vengono a disporsi nell’Unione Europea o nella Nato che si allargano ad Est. Ma esse sono di fatto composte entro forme di consultazione e collaborazione, più o meno istituzionalizzate. Putin non ha mai minimamente messo in discussione le formule di cooperazione ereditate da Eltsin, in particolare l’ Euro-Atlantic Partnership Council (1991), il programma di Partnership for Peace (1994) oppure il fondamentale Founding Act on Mutual Relations, Cooperation and Security firmato a Parigi nel maggio 1997 fondativo del Permanent Joint Council. Anzi, dopo l’11 settembre 2001, la Russia concede l’utilizzazione del suo spazio aereo alla coalizione internazionale impegnata nella campagna in Afghanistan e, soprattutto, nel maggio del 2002 al Summit Nato di Roma viene raggiunto un accordo complessivo per dar vita al Nato-Russia Council allo scopo di combattere il terrorismo e approfondire la cooperazione in campo militare, anche attraverso esercitazioni comuni e l’approfondimento dell’inter-operabilità.
Mugugni e divisioni momentanee turberanno il clima di collaborazione: ad esempio, per il riconoscimento del Kosovo, dal lato occidentale, o per gli interventi in Georgia da parte della Russia. Ma non vi saranno grandi sconvolgimenti quando verranno a conclusione i due grandi round di allargamento: Repubblica Ceca, Ungheria e Polonia che diventano membri dell’Alleanza nel 1999 dopo la candidatura al vertice Nato di Madrid del 1997; Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Slovenia, Slovacchia e Romania nel 2004. Seguiranno poi nel decennio successivo e per varie tappe Albania e Croazia, Montenegro e Macedonia del Nord. Meno spigoloso ancora l’atteggiamento della Russia e del primo Putin, nei suoi iniziali due cicli di presidenza, nei confronti dell’Europa o dell’Occidente tutto. Basti pensare alla partecipazione della Russia e dello stesso Putin al G8 sino alla crisi del 2013-2014 causata dall’intervento in Crimea.

Vecchi sipari e nuove attrattive
Rispetto al mugugno continuo con cui dal lato russo l’allargamento della Nato sarà accompagnato, poche voci si leveranno in Occidente a suonare l’allarme per la pace e la stabilità future. George Kennan, padre putativo del contenimento e del mondo bipolare – sia pure in aperta critica delle loro accentuazioni militaristiche – parlerà di «errore fatale»: nella sua visione, l’allargamento appariva come detonatore per future pericolose fiammate del nazionalismo russo anti-occidentale. L’occasione per il suo allarmato editoriale sul «New York Times» del 5 febbraio 1997 saranno le prime notizie sulle candidature di Repubblica Ceca, Ungheria e Polonia. Anni dopo, allo scoppio della crisi in Crimea, sarà un altro grande della diplomazia a «stelle e strisce», Kissinger, a sollevare il problema in un editoriale sul «Washington Post» e nel suo fondamentale World Order: evitare rotture irreparabili, l’Ucraina magari aderisca all’UE ma non alla Nato e si provi a risolvere il problema della Crimea consensualmente.
A dar voce, invece, al mainstream atlantico ha provveduto per anni Zbigniew Brzezinski. Fin dal 1993, nel suo Out of Control, passando per The Grand Chessboard (1998), fino a The Choice del 2004 egli ha insistito a senso unico sulla centralità dell’Ucraina negli equilibri geopolitici complessivi: «l’Ucraina è un cardine geopolitico, nel senso che la sua stessa esistenza come Stato indipendente contribuisce alla trasformazione della Russia. Senza l’Ucraina la Russia cesserebbe di essere un impero euroasiatico». Al contrario, «se la Russia conquisterà il controllo dell’Ucraina», con le sue risorse e il controllo del Mar Nero, ritornerà automaticamente un «potente Stato imperiale, tale da abbracciare Europa ed Asia, con ripercussioni immediate sull’Europa centrale, con la Polonia trasformata nella zona cardine del confine orientale di una Europa unita». Di qui la sua insistenza e la sua collaborazione nel rafforzamento del generale accordo sulla formazione della Confederazione degli Stati Indipendenti, CSI, ad opera nel 1991 di Federazione Russa, Bielorussia e Ucraina, conseguito con il Memorandum di Budapest del 5 dicembre 1994. Una pagina poco nota e commentata, ma di fondamentale importanza per gli avvenimenti successivi. Con quell’accordo storico l’Ucraina aveva deciso di smaltire l’enorme scorta di armi nucleari ereditato con la dissoluzione dell’URSS, aderendo al trattato di non proliferazione delle armi nucleari. Le migliaia di testate nucleari sarebbero poi state inviate in Russia per lo smantellamento nei successivi due anni con l’aiuto finanziario anche degli USA. In contropartita Russia, Stati Uniti e Regno Unito – seguiti poi da Cina e Francia – assicuravano all’Ucraina sicurezza, indipendenza ed integrità territoriale nei confini riconosciuti al momento della formazione della CSI. In questo modo, senza mortificare la voglia di indipendenza della stragrande maggioranza degli ucraini – celebrata dal referendum generale del 1° dicembre 1991, con oltre l’84% di partecipazione popolare, il 90% di sì e persino il 54% di favorevoli nella russofona Crimea – si provava ad offrire alla Russia una garanzia inoppugnabile sulla perpetua volontà di amicizia e buon vicinato. Più tardi allo scoppio della crisi in Crimea Brzezsinki avrebbe indicato la via d’uscita in una ‘finlandizzazione’ condordata dell’Ucraina.
Speculari a quelle di Brzezsinki – ma senza esasperazioni – le posizioni prevalenti nelle principali correnti di opinione in Russia nei primi anni Duemila: il rapporto con l’Ucraina è decisivo per il futuro della Russia e della sua influenza nel mondo. Del resto si trattava di una postura tradizionale, vero e proprio fulcro della geopolitica classica. Superfluo il richiamo ai grandi del passato – da Karl Haushofer a Halford Mackinder – e alle loro elucubrazioni sull’«Eurasia», regione perno, vero e proprio Heartland, «cuore della Terra», da cui dipendono le sorti degli equilibri mondiali. Il dibattito, il confronto e a volte lo scontro accompagneranno il cosiddetto «allargamento della Nato» ad Est nel passaggio agli anni Duemila. Il tutto in una sostanziale riproposizione del vecchio bipolarismo e a dispetto del suo sostanziale tramonto anche in quest’area.
Alcuni dati, però, finiscono con l’essere trascurati in questo scenario dominato dall’egemonia americana e dal nuovo clima imposto soprattutto dall’11 settembre. Relegati sul fondo rimangono alcuni dati essenziali, destinati però ad esercitare il loro peso sia nell’immediato sia a distanza di tempo.
Come e quanto pesa lo strumento militare ampiamente e senza molti limiti utilizzato da Putin – ad esempio in Cecenia, soprattutto nella seconda tornata di quella guerra – nello spingere in pratica la totalità degli Stati dell’ex Patto di Varsavia o ex sovietici a cercare sicurezza, a chiedere l’adesione alla Nato? Perché un movimento tanto unitario e compatto di un intero mondo? Tutto frutto del potere di attrazione, del soft-power a «stelle e strisce»? O, peggio, di una caparbia volontà degli USA di scavare in quella miniera geopolitica, magari sotto l’influsso esercitato dai neocons di Bush II, alla ricerca di una chiara supremazia anche rispetto agli antichi alleati europei. È il caso sicuramente già segnalato di Rumsfeld e delle sue elucubrazioni su Old e New Europe, «Vecchia e Nuova Europa».
A cercar meglio si possono trovare altri dati che spiegano i movimenti sulla scena: ma di tutti i protagonisti. Gli Europei non sono stati con le mani in mano dopo la caduta del Muro. E anche loro hanno funzionato da calamita. La deriva da Est verso Occidente non è a senso unico verso la Nato. Anche la UE appena nata a Maastricht sfodera attrattive. Ma non a tutto campo. Quando ha provato a fare il salto da comunità economica a unione politica non ce l’ha fatta. Non è riuscita a liberarsi dal generale quadro di condizionamento segnato dalla Guerra del Golfo, e dallo strapotere lì esercitato dagl USA. Si è divisa infine nei suoi ranghi alti al G7 di Londra sugli aiuti a Gorbaciov e rispetto ai primi passi della dissoluzione jugoslava. E così, avviandosi al traguardo di Maastricht, ha mancato l’appuntamento sulle questioni fondamentali della politica estera e di sicurezza. Ha finito col dividersi tra due ipotesi: quella franco-tedesca di cominciare a costruire un esercito europeo e quella anglo-italiana di non abbandonare il coordinamento strategico con la Nato. E così nelle tavole della legge per la nuova Europa non v’è posto per una politica estera e di difesa comune ed è rimasto l’abbraccio atlantico per gli stati che aderiscono a quel Patto.
Più al fondo del dibattito tra i costituenti europei – scandagliati solo dagli specialisti e di fatto sottaciuti al grande pubblico – alcuni grandi nodi. Inghilterra e Francia, Grandi Europei, hanno atomica e potere di veto in Consiglio di Sicurezza all’ONU. A chi passerebbe l’esercizio di queste supreme, ultime, prerogative se si riuscisse a dar vita ad una configurazione federale di politica estera e di sicurezza simile a quella prefigurata in campo monetario con l’Euro? E poteri siffatti sarebbero compatibili con una seconda corazza atlantica? O la renderebbero obsoleta o magari bisognosa di un ripensamento radicale?
L’Unione Europa nasce così monca a Maastricht e amputata di prerogative nel campo della sicurezza. Sprigiona fascino per attrarre ma non in misura sufficiente a guarire da vecchi mali. E nei paesi che da Est vengono ad allargare il perimetro pesano vecchi malanni e abitudini consolidate: meglio non cedere completamente sovranità. Piuttosto contrattarla e duramente. Visegrad diventerà l’etichetta di un allargamento continuamente rimesso in discussione, costantemente chiamato a nuove conferme dall’esercizio della «democrazia sovrana». Più sicuro e limpido l’orizzonte della Nato. Almeno fino a che le acque non si intorbidano.

Uno sguardo cangiante e ossessivo
Il cielo comincia ad oscurarsi già nel 2005, quando Putin inizia a traguardare l’inevitabile passaggio di consegne presidenziali a Medvedev e all’indomani di quelle «rivoluzioni colorate» che nel biennio 2003-2005 hanno rimesso in discussione tra Georgia, Ucraina, Kirghizistan e Bielorussia i vecchi poteri. Soprattutto hanno rivelato profondi influssi occidentali. Nel discorso presidenziale alla Duma del 25 aprile 2005 inaugura quello che diverrà un leit-motiv permanente, sottoposto poi nel tempo ad arricchimenti progressivi: «il collasso dell’Unione Sovietica è stato il maggiore disastro geopolitico del XX secolo». La Russia intera ne è stata sconvolta, sì da far temere lo sfascio definitivo come agonia prolungata del sistema sovietico sotto l’assalto del terrorismo, di oligarchie senza scrupoli, di un’economia in rotoli e di una arrembante povertà. Ma «abbiamo saputo risollevarci», individuando nuovi vettori di sviluppo nella salvaguardia dei valori autenticamente russi.
Ecco: combinare bisogno di innovazione e tradizione per conquistare la stabilità. E quale migliore scelta se non il privilegio e la primazia accordati alla Chiesa ortodossa nella chiamata a soccorso al capezzale di una realtà uscita boccheggiante dagli anni di Eltsin? O ancora lo strumento della repressione – anche crudele – per ogni atto di separatismo, ogni conato terroristico – reale o esagerato, magari costruito – che si affacci a turbare la vita comunitaria. Di qui l’accento continuo, condito anche dall’esibizione esteriore della propria religiosità, sulla centralità della Ortodossia nella lunga storia russa, come perno capace di conferire unità ad una realtà multi-etnica e multi-culturale. Di qui il privilegio accordato, fin dai primi passi come presidente, a consiglieri quali Tikhon Shevkunov, teorico della Russia come «Terza Roma», ultimo baluardo rispetto alla corruzione di Bisanzio, mai contrastata dall’Occidente traditore e in disarmo spirituale. Di qui l’inizio di tante celebrazioni per tanti momenti della lunghissima vicenda russa, sì da mettere in parentesi il periodo sovietico e da iniziare a differenziare meriti e colpe storiche di questo o quel leader: ad esempio, la lenta ma continua rivalutazione di Stalin, eroe della guerra nazional-patriottica contro il nazismo, o la condanna per il Lenin che tratta con la Germania e tiene a battesimo l’Ucraina novecentesca.
Nel biennio 2007-2008 inizia un nuovo ciclo a partire dalla chiusura della guerra cecena e dalla cesura nella carica presidenziale, dopo i primi due mandati consecutivi. La «democrazia sovrana» di Vladimir Surkov, specialista di pubbliche relazioni assurto al ruolo di consigliere principe di Putin, inizia a dispiegare tutto il suo potere suadente, mentre inizia a farsi ossessivo il richiamo a Ivan Alexandrovich Ilyin, filosofo espulso nel 1922 dalla Russia, riparato dapprima a Berlino e poi a Zurigo, profondamente influenzato dalla vicenda fascista e nazista, e approdato a concezioni filosofiche fortemente segnate dal misticismo religioso. Col tempo, il richiamo a questa figura centrale nella cultura russa di stampo conservatore e nelle elaborazioni putiniane si farà così continuo da convincere alcuni attenti studiosi – tra i quali, ad esempio, Timothy Snyder – a intravedere nel filosofo il teorico di una sorta di «neozarismo» putiniano. E così sulla scorta delle suggestioni fornite da Ilyin, sulla necessità di trasfigurare nell’eterna, necessitata figura del «redentore», la più moderna affermazione di un «dittatore democratico», Surkov ridefiniva come pilastri del nuovo Stato russo e delle sue rivisitate istituzioni democratiche la centralizzazione, la personificazione e l’idealizzazione del potere. Di qui il bisogno di unità dietro un solo individuo: s’avverava il sogno di Ilyin di un individuo che si riscopre libero immergendosi in una comunità che si sottomette ad un leader.
Il tutto favorito da una economia in cui la crescita inizia a sfiorare il 7% annuo, grazie ai prezzi vantaggiosissimi sui mercati internazionali dell’energia. E così Putin, traguardando già oltre la futura presidenza Medvedev, può mettere in cantiere la riforma dell’istituto presidenziale, portato da 4 a 6 anni a partire dal 2012, quando potrebbe essere rieletto (nel 2020 si provvederà ad allungare la presidenza di altri due possibili mandati). Intanto si conduce la guerra in Georgia, conclusa con il riconoscimento dell’indipendenza di Ossezia e Abkazia, e inizia lo smarcamento in campo internazionale rispetto al basso profilo finora osservato.
Di rilievo due discorsi del biennio 2007-2008. Nel primo, partecipando all’abituale appuntamento in Germania, a Monaco, sulla sicurezza europea, si produce in un forte attacco alla Nato, dichiarando che la sua estensione «non ha alcuna relazione con i bisogni della sua modernizzazione». La denuncia è molto netta: è in atto «una seria provocazione che riduce il livello della reciproca fiducia». L’anno seguente, poco prima di lasciare la presidenza della Federazione Russa, partecipa direttamente nell’aprile 2008 ad un meeting della Nato a Bucarest. I toni sono particolarmente diretti e combattivi. Dopo aver contestato l’opportunità e la legittimità di basi per la «difesa missilistica avanzata» in Polonia e Repubblica Ceca, dirige un attacco frontale al ventilato, sia pur lontano, ingresso di Ucraina e Georgia nell’Alleanza atlantica: «la Nato non può garantire la propria sicurezza a spese della sicurezza di altri paesi» e denuncia la «totale demonizzazione della Russia» in corso ad opera di paesi un tempo alleati.
Si gettano così le basi per una complessiva revisione della politica estera. Quando Putin quattro anni dopo riassumerà le sue vesti presidenziali i toni muteranno definitivamente. Intanto lentamente si darà corso ad una ulteriore revisione costituzionale ed istituzionale, particolarmente attenta alla nuova permeabilità di idee e comunicazioni veicolata dai social network. Memori dei vari sommovimenti variamente colorati negli anni passati, ora si mette sotto torchio le ONG, di qualsiasi colore o radice, nazionale o straniera: sottoposte a controllo della Corte costituzionale, possono vedere i propri membri multati o imprigionati per possibili minacce all’ordine costituzionale o alla sicurezza. Il giro di vite si allarga anche alle nuove società di comunicazione online, costrette a conservare su server sul territorio russo i dati su ogni utente, pena la cessazione delle attività. Si penetra infine nel sancta santorum familiare: con il sostegno della Chiesa ortodossa si procede alla depenalizzazione di buona parte delle violenze domestiche. Val la pena anche di ricordare ora come, nel 2011 sul finire del mandato presidenziale di Medvedev, si tenga il congresso fondativo di «Russia Unita», il cui momento culminante sarà costituito dall’annuncio della terza candidatura di Putin a presidente.
È a partire da questo momento che il suo sguardo si colora ora di nuove, più accese sfumature, mentre la spesa per armamenti raddoppia il suo peso nel bilancio pubblico statuale. Il pensiero di Putin si arricchisce di nuovi apporti, come frutto della diffusione anche in Russia di esperienze quali quelle tipiche nel mondo anglo-sassone dei think-tank. Spiccano tra i tanti, per l’assiduità della loro attività, circoli di discussione e elaborazione teorica quali il Valdai Discussion Club, omaggiato annualmente dalla presenza di Putin al periodico meeting, o l’Izborsk Club, fondato dallo scrittore neofascista Aleksander Prochanov e vagamente ispirato alle dottrine del filosofo cristiano Nikolaj Alexandrov Berdjaev o dello storico Lev Gumilev. Al centro delle teorizzazioni di quest’ultimo gruppo una netta propensione geopolitica, ma soprattutto geo-filosofica, sull’Eurasia, o meglio sulla Mongolia come fonte autentica del carattere russo, tale da tenerlo al riparo dalla decadenza occidentale. Lì una possibile patria, sorgente di una comunità allargata dall’Oceano Pacifico fino alla malaticcia penisola europea ad Occidente. Pronto ad attivarsi entro queste generali prospezioni, un personaggio come Alexandr Dugin, assai presente in varie iniziative europee ed italiane, con le sue teorizzazioni sull’Ucraina come barriera frapposta al destino euro-asiatico della Russia contemporanea. Per questi tratti del suo pensiero assai vicino a Putin e alle sue teorie sull’Ucraina come parte costitutiva della civiltà russa.
Riecheggiando le idee di Carl Schmitt su terra e mare, rivisitate da Dugin, le teorie propalate dall’ Izborsk Club, fondato non a caso nel 2012, si appuntano sull’eterna lotta del sano e virtuoso popolo della terra contro il popolo del mare, vuoto e astratto. La geopolitica vira in filosofia e battaglia delle idee o di civiltà contrapposte. L’Europa sta morendo insidiata da mali molteplici: matrimoni gay, promozione della pederastia, crisi della famiglia. L’Occidente ha però attivato anche una macchina ideologica formidabile che ora minaccia dall’interno la società russa, in un cannoneggiamento diretto verso la Chiesa ortodossa, base spirituale della nazione.
Bisogna perciò reagire attraverso un piano straordinario di mobilitazione, culturale e economico, per concentrare ogni risorsa nella preservazione della sovranità russa e della sua cultura profonda. Questo martellamento produce un mutamento fondamentale negli indirizzi di politica estera. Lo testimonia il documento ufficiale di politica estera, il Foreign Policy Concept del 18 febbraio 2013, firmato dal ministro degli Esteri Lavrov e approvato direttamene dal presidente Vladimir Putin. In un futuro dominato dai processi di globalizzazione e da caos e lotta per l’accaparramento delle risorse, è necessario riconquistare grandi spazi adeguati a preservare patrimoni, giacimenti di cultura e civiltà. Di qui la necessità di garantire rapporti e legami nell’intera area euro-asiatica. Perché non prevedere perciò che nei colloqui in corso su futuri legami tra Ucraina e UE venga inclusa anche la Russia, grazie soprattutto al suo retroterra vitale in tempi così bui e di crisi dei meccanismi decisionali.
In quello stesso 2013, al Valdai Club, a settembre Putin si spinge anche più avanti. Sull’onda sempre del pensiero di Ivan Ilyin parla di un «modello organico» russo di cui l’Ucraina fa da sempre organicamente parte: «Abbiamo tradizioni comuni, una mentalità comune, una storia e una cultura comuni». Perché rompere questa unità con i colloqui in corso tra Ucraina e UE sotto la presidenza Janukovic?
Inizia allora una attenzione spasmodica nei confronti dell’Europa e della politica europea. Nascono molteplici tentativi di penetrare in quel mondo, di intessere legami, provare ad esercitare influenza. Di qui i rapporti intessuti con vari leader: da Gerhard Schröder al ceco Milos Zeman, eletto presidente nella Repubblica Ceca nel 2013, o Silvio Berlusconi, dal 2011 periodicamente ospite di Putin in Russia. O l’appoggio, la lenta penetrazione in partiti e movimenti contrari all’approfondimento dell’UE o votati a forme regionali o nazionali di ispirazione sovranista o separatista. Si pensi ancora alla preferenza accordata a leader quali Nigel Farage o Marine Le Pen, su una rete televisiva come Russia Today, con i suoi canali in varie lingue, oppure financo i finanziamenti, più o meno occulti, a questo o quel partito o movimento. Si pensi ad esempio all’accordo di cooperazione con gli austriaci del Freiheitliche, premiati nel 2017 con il 26% dei voti e ammessi a dicembre nel governo di coalizione. Oppure – caso assolutamente eclatante – alla figura di Donald Trump e alla relazione speciale istituita con Putin sulla base di una ventilata reciproca simpatia, oltre che di una serie di ‘affari’ in terra russa in corsia preferenziale. È assai arduo comprendere quanto e come la facilità nello stabilire simili relazioni abbia favorito la visione presso le élites raccolte attorno a Putin di un Occidente di fatto senza più spina dorsale, incapace di decisioni risolute in tempi bui. A testimoniarlo, comunque, stanno parole precise di Putin, assai simili a quelle pronunciate dal patriarca Kirill in una analoga occasione. Per Putin, sempre al Forum di Valdaj del settembre 2013, «Molti Paesi euro-atlantici stanno negando le loro radici, tra cui i valori cristiani che sono alla base della civiltà occidentale. Stanno negando i principi morali e la propria identità: nazionale, culturale, religiosa e perfino sessuale. Mettono in vigore politiche che pongono allo stesso livello delle numerose famiglie tradizionali, le famiglie omosessuali: la fede in Dio equivale ormai alla fede in Satana».
Su questo stesso sfondo, ma ancora più deciso, Dugin, sulle orme di Samuel Huntington e del suo «scontro di civiltà», identifica in Ucraina il punto focale di uno scontro non più contenibile. Qui l’universalismo liberal-americano, l’atlantismo, l’occidentalismo incarnati dall’attuale dirigenza ucraina si scontrano con la tradizione euro-asiatica ortodossa, russa, anti-americana ma non anti-europea: perché l’Europa ha il suo vero cuore pulsante nella sua dimensione continentale terrestre, nei suoi legami euro-asiatici. Con mosse simili, di fatto la Russia prova a mettersi alla testa di un vasto e variopinto fronte, accomunato da una grande attenzione per le mosse di Vladimir Putin e per una possibile rivoluzione conservatrice. Unico il grido levato da tutti: «rischiamo di vivere nel mondo descritto dai romanzi di Aldous Huxley e Anthony Burgess, una società edonistica, ignara della Patria, della Famiglia, di Dio».

Conclusioni provvisorie
Se questo è lo sguardo con cui Putin legge il mondo che ci circonda, sono chiare le motivazioni dell’attacco all’Ucraina. Riguadagnare spazio vitale, intanto verso il Mar Nero e le promesse che di là vengono di nuove «vie della Seta». Subito dopo muovere nei confronti di una Europa in bilico e in difficoltà nel dialogo con l’«amico americano», indebolito dallo scisma di Trump e dall’amarissima ritirata afghana. La minaccia subito brandita persino dell’arma fatale, serve a complicare subito la ricerca di una risposta efficace da parte della comunità atlantica tutta, costretta immediatamente a contemplare precipizi fatali. A ingarbugliare il tutto ci si è messa però la inattesa resistenza ucraina. Adesso è tutto più difficile. E vengono fuori i lati più deboli.
Una sfida geostrategica è stata gestita tramutandola – sulla scorta di una attivistica rivisitazione dello «scontro delle civiltà» di Huntington – in una «crociata» della civiltà mongola contro quella occidentale, di una sana Russia profonda contro la decadente Bisanzio d’Occidente, contro la sua deboscia inarrestabile. A chiamare alla battaglia è però una élite tra le più debosciate al mondo, una oligarchia dimentica di fatto della propria patria e dei propri simili e dedita ad una delle spoliazioni più radicali del proprio pezzo di mondo: pronta poi ad esportare la ricchezza conquistata ovunque, al sicuro da possibili, sia pure improbabili, ganasce dello Stato russo. Di qui la teorizzazione tanto insistita quanto risibile del nuovo nazismo annidato in Ucraina e Occidente: un male da estirpare, mentre ogni giorno si celebra l’abbraccio con una destra radicale assai tiepida nella presa di distanza da tristi ascendenze novecentesche. Sono tutti fronti che rendono debole la posizione di Putin, in un momento in cui la guerra non solo si prolunga ma soprattutto sparge attorno a sé miasmi di lunga durata e persistenza. Quanto costerà il post-guerra, se e quando verrà? E non solo in termini economici, ma di inimicizie durature, di rotture assai difficili da sanare?
Meglio non avventurarsi in simili prospezioni assai rischiose e inutilmente fantasiose. Meglio interrogarsi su alcune pressanti domande dirette. Può l’Europa o meglio l’UE reggere ancora e in queste forme, nel carapace atlantico, uno scontro di queste dimensioni e pericolosità? Avviarsi finalmente per la costruzione di una vera identità, di una reale presenza globale non è questione di un 2% nelle spese militari. Sono ben altre le decisioni da assumere, ancora più complicate ora che l’Inghilterra se ne è andata e premono quelli di Visegrad. Quale Europa, con quali poteri e quali visioni del mondo? Ancora minacciato dall’atomica? È il caso o no – su questo terreno fondamentale su cui si gioca davvero la partita per una reale identità europea – di giocare fino in fondo la partita? A partire da una firma decisa su quel trattato di proibizione delle armi atomiche su cui soprattutto alle nostre latitudini hanno imperversato finora silenzi e reticenze?

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