Condivido del tutto questa ipotesi. Con il passare dei giorni, la decisione di invadere l’Ucraina appare sempre più chiaramente come l’esito, per certi versi implicito, dell’ideologia nazionalista, pericolosamente neo-zarista, che alimenta da tempo la politica estera del Presidente russo e, insieme, il prodotto della disperazione di fronte all’incapacità di frenare la manovra di accerchiamento strategico a Ovest che si prende gioco delle sue ambizioni imperiali, proprio lì dove, secondo la retorica nazionalista, esse hanno le loro radici storiche e simboliche: l’Ucraina, culla della Russia e componente essenziale della sua identità nazionale. Insomma, la guerra come frutto di improvvisazione (è ormai chiaro che l’offensiva è stata decisa senza un’adeguata pianificazione militare, politica e diplomatica), ma anche adempimento destinale della missione storica di restaurazione della potenza russa umiliata dalla fine della guerra fredda (cfr i discorsi di Putin).
Tuttavia, penso che oltre a interrogarci, come fa Friedman, su quali potrebbero essere le mosse di Putin messo con le spalle al muro, faremmo bene a chiederci a nostra volta: «qual è la nostra buona via d’uscita?» E dico nostra, intendendo certamente l’Europa – che è più di ogni altra parte del mondo esposta alle conseguenze militari, economiche e politiche della guerra – ma anche l’umanità tutta, che si trova di fronte al pericolo concreto di una catastrofe nucleare globale.
Ma andiamo con ordine, partendo dall’analisi di Friedman.
«Putin non ha una buona via d’uscita e questo mi terrorizza», scrive l’editorialista del New York Times. Se qualcuno pensa che l’instabilità che la guerra in corso sta provocando sui mercati globali e sulla geopolitica abbia raggiunto il picco si illude. Non abbiamo ancora visto nulla al confronto di ciò che avverrà quando Putin capirà pienamente che le sue uniche scelte in Ucraina sono soltanto come perdere: «perdere presto e in piccolo e un po’ umiliato o perdere tardi, alla grande e profondamente umiliato.» La Russia è il terzo produttore mondiale di petrolio e possiede circa sei mila testate nucleari: perdere questa guerra provocherà inevitabilmente shock finanziari e politici di dimensioni globali. Poiché Putin non può ammettere la sconfitta, perché questo equivarrebbe alla fine del suo regime, «potrebbe continuare a insistere, fino a quando non penserà all’arma nucleare.» Sono terrorizzato – conclude Friedman – «perché c’è solo una cosa peggio di una Russia forte sotto Putin, ed è una Russai debole, umiliata e disordinata, che potrebbe fratturarsi e trovarsi in un prolungato tumulto interno alla leadership, con diverse fazioni che lottano per il potere e tutte quelle testate nucleari.» Credo che sia un’analisi corretta. Ammettiamo per un attimo che Putin riesca a costringere le autorità ucraine ad accettare le sue imposizioni. Ciò non sarebbe affatto la fine della guerra, che continuerebbe in altre forme: i russi dovrebbero infatti fronteggiare la resistenza militare degli ucraini, sostenuti militarmente dagli occidentali per molti anni, con il conseguente dissanguamento economico e morale in un pantano afgano al proprio confine; qualcosa di simile a quello che è avvenuto con le guerre cecene, però senza più il sostegno degli occidentali, che anzi continuerebbero a colpire la Russia con le sanzioni economiche, politiche e militari. L’economia e la società russa non sono in grado di reggere una simile prospettiva. Infatti, la prosecuzione della guerra, oltre a rendere sempre più difficile il compromesso, come ha scritto giustamente Alberto Negri sul Manifesto, finirà per provocare un disastro economico e sociale.