IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Lo stallo messicano

Sul New York Times dell’otto marzo, Thomas Friedman scrive di essere spaventato perché Putin non ha a disposizione nessuna “buona via d’uscita”

Condivido del tutto questa ipotesi. Con il passare dei giorni, la decisione di invadere l’Ucraina appare sempre più chiaramente come l’esito, per certi versi implicito, dell’ideologia nazionalista, pericolosamente neo-zarista, che alimenta da tempo la politica estera del Presidente russo e, insieme, il prodotto della disperazione di fronte all’incapacità di frenare la manovra di accerchiamento strategico a Ovest che si prende gioco delle sue ambizioni imperiali, proprio lì dove, secondo la retorica nazionalista, esse hanno le loro radici storiche e simboliche: l’Ucraina, culla della Russia e componente essenziale della sua identità nazionale. Insomma, la guerra come frutto di improvvisazione (è ormai chiaro che l’offensiva è stata decisa senza un’adeguata pianificazione militare, politica e diplomatica), ma anche adempimento destinale della missione storica di restaurazione della potenza russa umiliata dalla fine della guerra fredda (cfr i discorsi di Putin).
Tuttavia, penso che oltre a interrogarci, come fa Friedman, su quali potrebbero essere le mosse di Putin messo con le spalle al muro, faremmo bene a chiederci a nostra volta: «qual è la nostra buona via d’uscita?» E dico nostra, intendendo certamente l’Europa – che è più di ogni altra parte del mondo esposta alle conseguenze militari, economiche e politiche della guerra – ma anche l’umanità tutta, che si trova di fronte al pericolo concreto di una catastrofe nucleare globale.
Ma andiamo con ordine, partendo dall’analisi di Friedman.

«Putin non ha una buona via d’uscita e questo mi terrorizza», scrive l’editorialista del New York Times. Se qualcuno pensa che l’instabilità che la guerra in corso sta provocando sui mercati globali e sulla geopolitica abbia raggiunto il picco si illude. Non abbiamo ancora visto nulla al confronto di ciò che avverrà quando Putin capirà pienamente che le sue uniche scelte in Ucraina sono soltanto come perdere: «perdere presto e in piccolo e un po’ umiliato o perdere tardi, alla grande e profondamente umiliato.» La Russia è il terzo produttore mondiale di petrolio e possiede circa sei mila testate nucleari: perdere questa guerra provocherà inevitabilmente shock finanziari e politici di dimensioni globali. Poiché Putin non può ammettere la sconfitta, perché questo equivarrebbe alla fine del suo regime, «potrebbe continuare a insistere, fino a quando non penserà all’arma nucleare.» Sono terrorizzato – conclude Friedman – «perché c’è solo una cosa peggio di una Russia forte sotto Putin, ed è una Russai debole, umiliata e disordinata, che potrebbe fratturarsi e trovarsi in un prolungato tumulto interno alla leadership, con diverse fazioni che lottano per il potere e tutte quelle testate nucleari.» Credo che sia un’analisi corretta. Ammettiamo per un attimo che Putin riesca a costringere le autorità ucraine ad accettare le sue imposizioni. Ciò non sarebbe affatto la fine della guerra, che continuerebbe in altre forme: i russi dovrebbero infatti fronteggiare la resistenza militare degli ucraini, sostenuti militarmente dagli occidentali per molti anni, con il conseguente dissanguamento economico e morale in un pantano afgano al proprio confine; qualcosa di simile a quello che è avvenuto con le guerre cecene, però senza più il sostegno degli occidentali, che anzi continuerebbero a colpire la Russia con le sanzioni economiche, politiche e militari. L’economia e la società russa non sono in grado di reggere una simile prospettiva. Infatti, la prosecuzione della guerra, oltre a rendere sempre più difficile il compromesso, come ha scritto giustamente Alberto Negri sul Manifesto, finirà per provocare un disastro economico e sociale.

Ma se tutto questo vale per la Russia, non è forse il caso di riflettere su quale sia la nostra buona via d’uscita? Già, perché lo scenario che Friedman prospetta ha il suo rovescio della medaglia. Se non si trova una soluzione a breve che sia accettabile anche per Putin (dal punto di vista occidentale, una vittoria veloce e in piccolo, che non umili troppo la Russia), allora si aprono non solo per la Russia ma anche per noi quegli scenari terrificanti sopra descritti. Una «vittoria alla grande, con una profonda umiliazione» porterebbe infatti a conseguenze pessime anche per i nemici di Putin: crisi finanziarie, economiche e politiche globali; rischi di derive ancora più pericolose perché prodotte dalla frattura e dal disordine interno alla Russia; possibile ricorso alla soluzione finale nucleare. A pagare il prezzo di questa crisi non sarebbero solo i paesi direttamente coinvolti, ma l’intera umanità. D’altra parte, gli scenari alternativi alla sconfitta russa che si possono immaginare non sono meno problematici: in un’articolata analisi apparsa sul The Guardian, Christopher Schivvis, un ex ufficiale dei servizi di intelligence USA, esperto in simulazione di scenari di crisi, sostiene che ci sono solo due traiettorie, e nessuna di esse è buona: «una pace amara imposta a un’Ucraina sconfitta che sarà estremamente difficile da digerire per gli Stati Uniti e molti alleati europei» oppure «l’escalation continua, attraverso la soglia nucleare».

Allora il problema è capire quale possa essere il punto di mediazione che scongiuri il peggio. L’Europa dovrebbe porsi il problema prima di ogni altro. Ma per ora la sua iniziativa politica si limita a “colpire duro” la Russia. Come abbiamo visto, però, questo può al più servire per vincere la guerra (e solo fino a quando resta sul piano convenzionale), ma non a vincere la pace, cioè a evitare che si arrivi alla conclusione mutuamente disastrosa che paventa Friedman. Invece ci vorrebbe un’iniziativa negoziale coraggiosa che crei nell’immediato le condizioni per una tregua e successivamente quelle di un accordo. Fino ad oggi questo compromesso è possibile, perché nessuno dei combattenti ha conquistato una vittoria definitiva sul campo: i russi, è vero hanno acquisito molto territorio, ma gli ucraini non sono stati sconfitti e anzi possono vantare una resistenza impavida e invitta. Ma l’Europa temo che non sia in grado di assolvere a questo compito. Una decisa iniziativa diplomatica riaprirebbe tutte le divisioni al suo interno, a meno che gli Stati Uniti non si decidano ad autorizzarla, e forse ciò non basterebbe comunque a impedire le lacerazioni con il gruppo di Visegràd. Anche la possibilità che gli Stati Uniti lascino spazio ad un’iniziativa europea è assai remota: la politica americana si muove ormai nell’ottica delle elezioni di midterm, con il Congresso preda delle spinte più oltranziste, che finiscono per condizionare anche la Casa Bianca, come ha dimostrato l’improvvisa decisione sull’embargo del gas e del petrolio russi. C’è solo una possibilità al riguardo: che l’imbarazzante situazione in cui si trovano gli USA, costretti a negare aiuti veri agli ucraini, diventi insostenibile, ponendo l’amministrazione americana di fronte alla scelta se intervenire direttamente (no fly zone o qualcosa del genere) o cercare una via d’uscita.

Come si vede tutti gli attori in campo sono prigionieri di una sorta di stallo alla messicana. Perché siamo arrivati a questo punto? Perché, si potrebbe rispondere, la logica di potere che su cui si sono costruiti i rapporti di forza internazionali, si basa essenzialmente sulla competizione e sulla ricerca del vantaggio esclusivo, scartando di fatto qualsiasi forma di cooperazione. In questo modo non si può che finire nella situazione descritta “dal teorema di Nash”: nessuna strategia razionale adottata unilateralmente da uno dei giocatori è in grado di migliorarne la posizione relativa. Per cambiare bisogna agire insieme. Ma è esattamente questo che la logica della competizione imperiale esclude. Infatti, anche la guerra in Ucraina è il prodotto, l’ennesimo, di un ordine (un disordine) internazionale basato sulla competizione e sulla lotta esistenziale tra gli imperi contemporanei, che sono dispositivi politici (economici, simbolici, militari) che perseguono interessi conflittuali. I regimi politici che caratterizzano il paese egemone e i suoi alleati possono essere molto diversi (liberal-democrazie, autocrazie, dittature) ma questo non modifica la logica che orienta le loro azioni, che è comunque volta a indebolire gli avversari e acquisire vantaggi strategici sul piano ideologico, simbolico, diplomatico, economico, militare. Le differenze ideologico-politiche sono tutt’altro che trascurabili. Le liberal-democrazie garantiscono comunque diritti fondamentali, quali la libertà di espressione, di organizzazione, ecc, ma non sono le differenze che spiegano il conflitto geopolitico, quanto piuttosto le affinità. Due in particolare mi sembrano importanti. Quella economica, che in un quadro di forte competizione globale per il controllo delle catene di valore e il know how tecnologico (decisivi anche sul piano politico-militare), genera conflitti intra capitalistici sempre più acuti; e quella politica e ideologica, con l’emergere ovunque di forti componenti nazionaliste e nativiste (riconoscibili anche nelle dinamiche che hanno condotto al conflitto in Ucraina e che lo stanno alimentando).

Ad aggravare la dinamica di fondo dei rapporti tra le potenze imperiali si è aggiunto il comportamento del più importante degli imperi contemporanei, quello USA, che ha dato un’immagine di arrogante protervia e, insieme, di debolezza, mettendo in atto guerre devastanti che non hanno mai visto una conclusione pacifica; alla fine di questi conflitti gli Usa sono stati costretti a umiliati ritirate. Questi conflitti hanno di fatto accresciuto l’instabilità, fornendo alibi e spazi per nuove aggressioni. Inoltre, questa condotta ha spaventato a morte gli altri competitori, inducendoli a perseguire politiche di riarmo, nella convinzione che sfidare gli americani è, insieme, necessario e possibile. Insomma, quello a cui stiamo assistendo da tre decenni è un conflitto imperialistico su scala globale, spinto dalle ambizioni geopolitiche strettamente legate alla competizione economica sempre più spinta su cui si basano i rapporti tra i paesi e le varie aree del pianeta. Insomma, l’esatto contrario di quanto la Carta dell’ONU pone alla base di un mondo pacifico: giustizia, collaborazione, fiducia, cooperazione. Vi fu un momento nel quale sarebbe stato possibile fondare un ordine internazionale pacifico: alla fine della “Guerra fredda”. Come sempre, infatti, quando finisce una guerra si definiscono le condizioni che renderanno possibile la convivenza pacifica o (e) le nuove guerre. La proposta di costruire una “nuova casa europea” era probabilmente giusta, ma mancava delle condizioni per essere realizzata.

Infine, bisogna essere consapevoli che la guerra ha una logica totalitaria, non solo per l’impiego criminale di ogni mezzo di morte contro le popolazioni indifese (come sta facendo l’esercito russo) e per la mobilitazione bellica che impone in campo economico, civile, culturale. Ma anche perché non ammette altra ragione, se non la propria. La logica della guerra si mostra totalitaria quando assorbe e metabolizza le ragioni del diritto per autogiustificarsi. Ad esempio, quando ha fatto (e fa ora con Putin) della tutela dei diritti umani un argomento per reintrodurre la guerra giusta (umanitaria). E ancora, agisce in modo totalitario quando nega ogni legittimità allo schieramento pacifista, che vorrebbe ammettere solo se questo fosse disposto ad accettare di schierarsi sotto le bandiere di uno dei contendenti, e magari, come in questo caso, sostenere la corsa al riarmo che si è avviata anche in Europa con la partecipazione dell’Italia e della Germania, dopo essere stata avviata in Giappone (i tre paesi sconfitti della seconda guerra mondiale). Molti commentatori non si accorgono di quanto sia paradossale e provocatoria questa pretesa, a conferma del totalitarismo che caratterizza la logica della guerra.

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