L’Occidente, la Cina e le due “grandi divergenze”
(..) mentre si restringe la «grande divergenza» globale e planetaria, all’interno del mondo capitalistico più sviluppato si allarga un’altra «grande divergenza». (…) questa seconda «grande divergenza» si è accentuata sull’onda della crisi del 2008. Il caporedattore finanziario del «Wall Street Journal» a New York osserva: negli Usa «l’un per cento della popolazione controlla più di un quinto della ricchezza del Paese e il 15 per cento della gente vive sotto la soglia di povertà». Ci imbattiamo così in rapporti di potere che vanificano la libertà delle classi popolari: «Solo il 27% dei disoccupati può contare sul sussidio di disoccupazione. Ciò consente alle aziende di colpire i sindacati e di minacciare i dipendenti che cercano di organizzarsi (sul piano sindacale)». Una domanda s’impone: la seconda «grande divergenza» investe anche il paese che più di ogni altro sta mettendo in discussione la prima «grande divergenza»? Se per un verso in Cina è dileguata l’assoluta diseguaglianza qualitativa (la differenza tra la vita e la morte) che è in agguato in una situazione di penuria, per un altro verso la distribuzione della ricchezza sociale è divenuta nettamente più diseguale. È una dialettica non nuova nella storia del movimento scaturito dalla rivoluzione d’ottobre. Essa, con riferimento alla Russia sovietica, è stata ben descritta da Trotskij nel 1936-37: Il regime sovietico ebbe incontestabilmente nel suo primo periodo un carattere molto più egualitario e meno burocratico di oggi. Ma la sua eguaglianza fu quella della miseria comune. Le risorse del paese erano così ridotte da non permettere il distacco dalle masse di strati sia pur relativamente privilegiati. Il salario «egualitario», sopprimendo lo stimolo individuale, divenne un ostacolo allo sviluppo delle forze produttive. L’economia sovietica doveva uscire un po’ dalla sua indigenza perché vi divenisse possibile l’accumulazione di quelle materie grasse che sono i privilegi. Nonostante il suo tono polemico, sto citando da un libro che già nel titolo denuncia il «tradimento» della rivoluzione – è un brano illuminante: a) non si può restare fermi alla «miseria comune»; b) in tale stadio c’è sì un «salario ‘egualitario’». Ma si tratta (…) di un’eguaglianza solo nella miseria, nell’«ascetismo universale» e coatto da cui il Manifesto del partito comunista prende nettamente le distanze e che – aggiungo io – può comportare lo slittamento nell’assoluta diseguaglianza qualitativa; c) per uscire da questa condizione occorre promuovere lo «sviluppo delle forze produttive», facendo leva sullo «stimolo individuale»; emergono così diseguaglianze che sono legittimate dalla diversa quantità e qualità del lavoro erogato, ma che possono trasformarsi in «privilegi» intollerabili.