IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

L’Occidente, la Cina e le due “grandi divergenze”

La fine dell’«epoca colombiana» è l’inizio della fine della «grande divergenza» planetaria tra Occidente e resto del mondo. Mentre questa si restringe, nel mondo capitalistico si allarga l’altra «grande divergenza», quella tra la ricchezza di pochi e la crescente penuria delle classi popolari.

La povertà non è socialismo

S’imponeva un cambiamento di rotta. Occorreva prendere atto «che la povertà non è socialismo e che il socialismo significa eliminazione della miseria» e realizzazione della «comune prosperità», del «benessere» e della «felicità» per il «popolo» nel suo complesso. Su questa base, ferma restava l’opposizione al «capitalismo» che «può solo arricchire meno del 10 per cento della popolazione cinese e non può mai arricchire il restante 90 e più per cento». Era necessario perseverare nella scelta fatta nel 1949, facendola però finita con gli slittamenti nel populismo, che individuava nella ricchezza una possibile fonte di contaminazione della purezza rivoluzionaria e che, cancellando qualsiasi incentivo materiale, di fatto premiava il disimpegno nel lavoro: «Se aderiamo al socialismo e applichiamo il principio [marxiano] della distribuzione remunerando ciascuno secondo il suo lavoro, non ci sarà eccessiva disparità nella ricchezza»; come nella Nep sovietica (esplicitamente citata), alla proprietà pubblica si sarebbe affiancata una proprietà privata ma con un ruolo dirigente accordato alla prima.

Il nuovo corso, la lotta alle diseguaglianze qualitative e quantitative

Ora comincia a delinearsi con chiarezza la lotta ideologica e politica che ha imposto il nuovo corso in Cina: da un lato i fautori della distribuzione egualitaria della penuria, inclini alla trasfigurazione populistica di questa condizione quale sinonimo di eccellenza politica e morale; dall’altro i fautori di una «prosperità»
sì «comune», ma da conseguire mediante la competizione degli individui e delle imprese, il mercato, l’intreccio di industria pubblica e privata, fermo restando il ruolo dirigente del settore statale e pubblico dell’economia (e del potere politico). Come dimostra anche il riferimento di Deng Xiaoping all’esperienza della Nep
sovietica, non si tratta di un dibattito nuovo nella storia dei paesi di orientamento socialista. Sia pure con un radicalismo inedito, si ripropone un dilemma di vecchia conoscenza: puntare tutto sull’«ascetismo universale» e sul «rozzo egualitarismo» (sbeffeggiati dal Manifesto del partito comunista) o prendere sul serio il compito che, sempre secondo il Manifesto, un partito comunista al potere deve assolvere, quello di «accrescere, con la più grande rapidità possibile, la massa delle forze produttive»?
Avendo alle spalle almeno tre decenni di prodigioso sviluppo economico, che tra contraddizioni e conflitti di ogni genere ha consentito di liberare centinaia di milioni di persone dalla miseria, dall’assoluta diseguaglianza qualitativa o dal pericolo di cadere in essa, nella Cina di oggi si assiste allo sforzo di aggredire anche le diverse manifestazioni della diseguaglianza quantitativa. Negli ultimi anni il Tibet, la Mongolia Interiore e altre regioni hanno potuto vantare un tasso di sviluppo superiore, e talvolta nettamente superiore, alla media nazionale; la medesima considerazione si può fare per un’enorme megalopoli quale Chongqing e una grande metropoli quale Chengdu, che distano circa 1.500 chilometri dalle regioni orientali e costiere, quelle più sviluppate, e che sembrano lanciate in un furioso inseguimento. E dunque, nel paese-continente che è la Cina si riducono le differenze regionali, e si riducono nel corso di un processo accelerato di sviluppo economico; queste differenze si aggravano invece in Europa (e all’interno di singoli paesi come l’Italia), e si aggravano nel corso di un processo all’insegna per lo più del ristagno o della recessione. Certo, in Cina continua ad allargarsi il divario tra la città (che attrae le forze più giovani e più intraprendenti) e la campagna, ma questa tendenza è in qualche modo contenuta dal rapido processo di urbanizzazione: i passeggeri del treno (urbano) superveloce diventano sempre più numerosi; non mancano comunque gli sforzi per accrescere la velocità del treno (rurale) relativamente meno veloce. Nelle stesse aree urbane, l’accesso al benessere e talvolta alla ricchezza e persino all’opulenza è tutt’altro che omogeneo; ma tali diseguaglianze e distorsioni vengono in qualche modo contenute o disinnescate mediante il rapido innalzamento dei livelli salariali e l’introduzione dei primi elementi di Stato sociale. Nel complesso, la diversa velocità con cui ci si lascia alle spalle la miseria e si accede al comfort della civiltà moderna non può essere correttamente descritta con la categoria di «grande divergenza». Tanto più che i persistenti ostacoli sulla strada che conduce alla «prosperità comune» sono avvertiti come macigni che impediscono il pieno godimento dei diritti economici e sociali e che la società è chiamata a rimuovere nei tempi più rapidi possibili: anche sul piano ideologico netta è l’antitesi rispetto al neoliberismo che promuove e legittima la prima così come la seconda «grande divergenza».

Vuoi ricevere la nostra newsletter?

Privacy *

Newsletter

Privacy *

Ultimi articoli pubblicati