L’adesione al WTO. Il ricorso dell’Occidente ad altre armi commerciali
“(…) sarebbe superficiale (…) fare astrazione dal contesto internazionale (…). Conosciamo già la minaccia ricorrente da parte di Washington di chiudere il mercato statunitense alle merci cinesi e dunque di far ricorso a una misura che fino a qualche tempo fa costituiva l’equivalente commerciale del ricorso all’«arma nucleare». La Cina poteva cercare di mettersi al riparo aderendo al WTO, all’Organizzazione mondiale del commercio. Sennonché, questa e le altre organizzazioni economiche internazionali egemonizzate dagli Usa e dall’Occidente premevano perché fossero smantellate in modo rapido e massiccio le industrie statali, senza badare ai costi sociali e cioè all’aumento della disoccupazione e alla perdita dei benefici sociali (asilo-nido, assistenza sanitaria ecc.), in Cina tradizionalmente collegati all’occupazione in una fabbrica statale. Altre volte gli interventi di Washington erano più diretti. Era la stessa stampa statunitense a riferire dei moniti rivolti dall’ambasciatore Usa a Pechino sulle «conseguenze negative» della persistenza di un esteso settore di economia statale e collettiva e del «mancato impegno a favore del mercato». Preoccupante e inaccettabile era considerata una politica che, invece di chiudere le imprese statali perseguiva il «tentativo di renderle più competitive». Vera e propria indignazione suscitava poi il delinearsi di una «strategia» basata sulla «pretesa» che gli «investitori stranieri» collaborassero «coi capi del Partito comunista a introdurre moderna tecnologia e tecniche manageriali nelle industrie statali cinesi» (…)
Nel frattempo la Cina è stata ammessa all’Organizzazione mondiale del commercio. Grazie a questa ammissione e al prodigioso sviluppo economico del grande paese asiatico, l’«arma nucleare» commerciale è stata neutralizzata. Ma non per questo si è svuotato l’arsenale di armi commerciali a disposizione di Washington: se la Cina vuole essere riconosciuta come paese a economia di mercato (e così essere in qualche modo garantita contro la minaccia protezionista), soprattutto se vuole allentare l’embargo tecnologico cui continua a essere sottoposta, essa è chiamata a fare ulteriori concessioni nella direzione già vista. Sappiamo che, come gli altri paesi con una rivoluzione anticapitalista e anticolonialista alle spalle, la Cina si trova a dover fronteggiare due diverse diseguaglianze, la «diseguaglianza globale» vigente a livello internazionale e quella interna al paese. Ebbene, è come se Washington si rivolgesse così ai dirigenti di Pechino: se volete rimuovere gli ostacoli che si frappongono al superamento del primo tipo di diseguaglianza (con la cancellazione delle norme che impediscono od ostacolano l’accesso alla tecnologia più avanzata), dovete fare concessioni che di fatto aggravano il secondo tipo di diseguaglianza (lo smantellamento del settore statale comporterebbe in primo luogo la riduzione della capacità di intervento a favore delle regioni meno sviluppate e quindi renderebbe più difficile la lotta contro le diseguaglianze regionali) (…)