In questo approccio, condiviso da gran parte della dottrina e del Parlamento europeo, forse con più prudenza anche da Corte di giustizia e Commissione, si annida il moralismo di chi rimprovera ai governi delle democrazie illiberali di alcuni Paesi dell’Est Europa di aver opportunisticamente imitato le istituzioni occidentali della democrazia costituzionale nella fase dell’adesione, per poi svuotarle progressivamente a pochi anni dall’ingresso nell’UE. L’approccio riecheggia la narrativa mainstream adottata allo scoppio della crisi economica del 2010 nei confronti della Grecia, rea di aver truccato i propri conti per poter entrare nell’eurozona. Si preferì, in quell’occasione, colpevolizzare il singolo Stato membro, anziché affrontare apertamente le carenze strutturali dell’architettura dell’Eurozona, inaugurando una serie di riforme e di politiche “punitive” nei confronti della Grecia e degli altri Stati debitori, i quali furono indotti a sposare la linea dell’austerity. Se l’obiettivo della “salvezza dell’euro” fu raggiunto, scarsi furono i benefici per la convergenza delle economie nazionali, mentre negativo fu l’impatto sull’equilibrio dell’economia globale: la repressione della domanda interna negli Stati dell’UE fece salire il surplus della bilancia dei pagamenti verso il resto del mondo a livelli inauditi, facendo dell’UE(M) un’agguerrita entità mercantilista. I problemi strutturali dell’incoerenza di una moneta senza stato e di un’UE priva di un bilancio “para-federale” furono rinviati a data da destinarsi.
Si noti che le due crisi (quella economica e quella della Rule of Law) potrebbero essere più interrelate di quanto si tende normalmente ad ammettere: l’Ungheria fu il primo Stato europeo a dover ricorrere, nel 2008, al “salvataggio” della Troika (Commissione, BCE e FMI), avendo il Paese accumulato notevoli deficit della bilancia dei pagamenti. La massiccia dose di austerity imposta agli ungheresi per riequilibrare la posizione del Paese verso l’estero colpì assai duramente i lavoratori e screditò grandemente le classi dirigenti europeiste (composte da ex-comunisti riconvertiti e liberali) che avevano condotto l’Ungheria a quel punto, lasciando mano libera all’unico partito che aveva proposte alternative, il Fidesz di Orbán (Bugarič).