Dopo aver sfiorato l’Hamiltonian moment con il NGEU adottato dall’UE per reagire alla crisi pandemica, la guerra in Ucraina sta offrendo all’UE un’altra – tragica – occasione per costruire sulle crisi un’integrazione federale, come confusamente auspicato dai “Padri fondatori” delle Comunità progenitrici dell’attuale Unione.
La Commissione, per bocca del Commissario europeo all’economia Gentiloni, ha affermato l’intenzione di prorogare ulteriormente la sospensione del famigerato Patto di stabilità e crescita proprio al fine di fronteggiare le conseguenze economiche della guerra in corso. La Presidente della BCE Christine Lagarde, premesso che «L’Unione bancaria e l’Unione dei mercati dei capitali sono gli obiettivi fondamentali per l’Unione Europea», ha affermato che «La congiuntura attuale è favorevole e va sfruttato questo momento per fare passi avanti».
Potrebbe apparire cinico vedere nella sanguinosa guerra in corso un’occasione positiva per l’economia degli Stati dell’UE, specie per quelli legati ai più stringenti vincoli dell’Eurozona; tuttavia, non va dimenticato l’incredibile potenziale geopolitico e, soprattutto, geoeconomico che la guerra ha avuto nel recente passato.
La gestione economicamente punitiva della vittoria dei Paesi alleati nella Prima guerra mondiale ha gettato i semi del male da cui sbocciò la creatura mostruosa del nazismo in Germania, come tragicamente previsto da Keynes ne “Le conseguenze economiche della pace” del 1919. La gestione della vittoria riportata nella Seconda guerra mondiale evitò quell’errore fatale e condusse gli Stati Uniti a inondare di sovvenzioni la gracile economia europea. Ma questo non si produsse per mera lungimiranza degli USA, i quali, fra l’altro, avevano nel frattempo perduto il loro Presidente “keynesiano”, F.D. Roosevelt. Ciò si produsse anche e soprattutto per la controspinta geoeconomica provocata dall’espansione dell’Unione sovietica: come sembra abbia affermato il generale americano Clay nel 1947, dopo aver letto il rapporto sulla Germania, «non vi è scelta fra l’essere comunisti con 1.500 calorie giornaliere e il credere nella democrazia con un migliaio.»